Prima lezione di diritto penale
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Prima lezione di diritto penale

Giovanni Fiandaca

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Prima lezione di diritto penale

Giovanni Fiandaca

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Che cosa va punito? In che modo? Con quali obiettivi? Come dobbiamo intendere la responsabilità e la colpa? Questioni come queste sono strettamente correlate ai mutevoli contesti politico-ideologici, alle tendenze culturali, all'evoluzione del pensiero filosofico e anche ai paradigmi elaborati dalle scienze.Il libro offre un quadro dei temi e dei problemi di fondo del diritto penale contemporaneo, sottolineando il rapporto di forte tensione, e in alcuni casi di contraddizione, tra i principi che dovrebbero conformare un diritto penale liberaldemocratico degno di questo nome e il concreto diritto penale che viene applicato nei tribunali.

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Information

Year
2017
ISBN
9788858130049

I.
Tra punizione e riparazione

Un punto di partenza è pacifico: senza la pena, non può esservi diritto penale. Benché essa costituisca un elemento identificativo della materia penalistica, ci si imbatte sin da subito in un dato che può apparire paradossale: la pena rimane infatti un’entità problematica, che continua a sollevare un insieme di questioni controverse relative alla sua definizione concettuale, al suo significato, ai suoi scopi e ai suoi effetti. Ecco, dunque, il paradosso: se possiamo tutti convenire su di una definizione minimale di pena come reazione giuridica a carattere più o meno spiacevole conseguente alla commissione di un reato, la diversità dei punti di vista comincia ad emergere già al momento di specificare tutte le caratteristiche che tale reazione deve presentare per poter essere davvero definita sanzione penale rispetto a sanzioni di altra natura.
Il discorso, peraltro, si complica ulteriormente se trascendiamo il versante del diritto e allarghiamo l’orizzonte di riflessione sino a includervi l’approccio filosofico e l’approccio sociologico al tema della punizione – quest’ultimo considerato nella molteplicità delle sue relazioni con la società e i contesti culturali di riferimento. Ma, com’è intuibile, da questa estensione dello sguardo al di là dei confini giuridici è possibile trarre utili indicazioni e spunti per affrontare, con maggiore consapevolezza, il problema della pena anche sotto la specifica angolazione del diritto penale.
A dar conto della complessità e polivalenza della punizione, quale fenomeno sociale e giuridico, bene si presta il concetto di «sovradeterminazione»: concetto utilizzato, nell’ambito delle scienze sociali, per etichettare quei fenomeni che presentano appunto la caratteristica di avere più significati e di svolgere più funzioni, per cui la loro comprensione richiede un approccio conoscitivo di tipo multidisciplinare1.
Anticipando invero con grande lucidità una tale prospettiva d’approccio, il filosofo Friedrich Nietzsche già sul finire del XIX secolo rilevava: «il concetto di pena non presenta più, in realtà, [...] un unico significato, bensì un’intera sintesi di significati [...]. È oggi impossibile dire esattamente per quale ragione si addiviene alla pena: tutte le nozioni, in cui si condensa semioticamente un intero processo, si sottraggono alla definizione; definibile è soltanto ciò che non ha storia»2.
Se tentassimo sin da ora di passare in rassegna i significati che la punizione è andata assumendo nella sua lunga storia, potremmo dire che essa ha potuto al tempo stesso indicare: un mezzo di repressione e/o prevenzione del crimine; un’affermazione di giustizia; un mezzo per comunicare disapprovazione; un’espressione di sensibilità popolare; un fattore di educazione collettiva; una forma di esercizio del potere o uno strumento di dominio di classe.
Ma vi è di più. La pena rimane polisemica e polivalente all’interno dello stesso discorso giuridico, come è dimostrato dal fatto che – lo vedremo più avanti – anche tra i giuristi è tendenzialmente dominante una concezione cosiddetta “polifunzionale”, a sua volta, peraltro, articolata secondo differenti versioni. Ciò contribuisce a spiegare come, nella stessa prassi giudiziaria contemporanea, coesistano e si sovrappongano più modelli di punizione, riconducibili a matrici storiche e culturali differenti. Sicché potremmo dire, in termini metaforici, che la pena odierna somiglia a un edificio più volte ristrutturato e con corpi aggiunti, in cui le parti nuove, pur sovrapponendosi a quelle vecchie, lasciano ancora intravedere i segni di stili preesistenti.

1. Significato e scopi della pena

Secondo una definizione essenziale, vicina al senso comune, la pena – come già detto – consiste in una sanzione che comporta sofferenza, o comunque conseguenze spiacevoli per l’autore di un reato. Questo carattere di afflittività sottintende, tradizionalmente, un messaggio: cioè che l’autore merita una punizione perché ha compiuto un’azione illecita, un’azione che non doveva essere compiuta. In questo senso, esiste un nesso di corrispondenza tra il “male” insito nella pena e il “male” derivante dal reato (malum actionis propter malum passionis): la sofferenza inferta con la sanzione retribuisce o compensa il danno provocato dall’illecito penale. Non a caso, l’afflittività e la retributività sono considerate, dalla stessa Corte costituzionale, «condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale» (sent. n. 313/1990).
Fin qui l’essenza della pena sul piano concettuale: non abbiamo ancora toccato la dibattuta questione dei suoi possibili scopi. Ma è corretto tenere separati i due piani? Come non di rado avviene nell’ambito del dibattito filosofico-giuridico, esistono in proposito posizioni diversificate: secondo alcuni, lo scopo cui è destinata incide necessariamente sul concetto di pena; secondo altri, “significato” e “scopo” si collocano su versanti distinguibili3.
Questa alternativa solleva questioni concettuali piuttosto sofisticate, che però rischiano di farci perdere nel cielo dell’astrazione teorica. In realtà, anche allo scopo di distinguere la pena da sanzioni che le somigliano, è preferibile evitare una netta cesura tra essenza e finalità della punizione: per determinare l’ambito di ciò che può essere inteso come pena in senso giuridico-penale, occorre infatti tenere conto del complessivo contesto ordinamentale in cui la misura sanzionatoria in questione si colloca; e di tale contesto fanno parte, senza dubbio, gli obiettivi finalistici cui la misura stessa è destinata.
Basti un solo esempio. Si ipotizzi che una persona gravemente ammalata di mente compia, a causa della sua malattia, un omicidio e che, accertatane giudiziariamente la pericolosità sociale in termini di probabilità di commettere in futuro azioni violente analoghe (art. 203 del codice penale), questa stessa persona venga sottoposta a una “misura di sicurezza” privativa (come la pena detentiva) della libertà personale, ma incentrata su di un trattamento terapeutico volto a migliorarne la salute psichica. Orbene, pur senza conoscere in dettaglio la disciplina legislativa delle misure di sicurezza (per la quale il lettore interessato può consultare un manuale universitario di diritto penale), anche un non addetto ai lavori potrebbe facilmente rilevare che la misura terapeutica di cui all’esempio, nella misura in cui ha un carattere coercitivo, si risolve di fatto in una forma di detenzione che limita la libertà personale del destinatario: sicché si tratterebbe, nella sostanza, pur sempre di una sorta di pena.
In effetti, in questa assimilazione c’è una parte di verità. Tuttavia, la maggioranza dei sistemi penali contemporanei continua a mantenere ferma – a torto o a ragione – la distinzione tra pene in senso stretto, da un lato, e misure di sicurezza (considerate quale “secondo binario” del sistema punitivo), dall’altro: e ciò soprattutto in ragione della prevalente finalità sanzionatoria delle prime e del prevalente scopo curativo-riabilitativo delle seconde. Che poi questa diversa finalità “teorica” riesca a tradursi in una funzione realmente differente delle misure di sicurezza, è una questione a tutt’oggi non poco controversa, che in questo piccolo libro non può essere approfondita4.
Ma la distinzione tra scopi (o fini) perseguiti e funzioni reali della sanzione penale va, a ben vedere, mantenuta anche quando si discute delle pene in senso stretto. E ciò per una ragione, forse, intuibile: è scontato che tra le finalità potenzialmente assegnabili alle pene sul piano deontologico o del dover essere, e le funzioni concrete da esse svolte (o non svolte) sul piano empirico, si verifichi un divario più o meno ampio. Ad esempio, mentre la finalità che la Costituzione italiana espressamente assegna alle pene consiste nella rieducazione del condannato, la pena carceraria – come, purtroppo, è ben noto – nella maggior parte dei casi, lungi dal produrre effetti risocializzanti, cagiona una ulteriore desocializzazione dei detenuti.
Due ulteriori avvertenze. Per un verso, non bisogna trascurare che la risposta relativa al problema del senso e degli scopi della punizione è in qualche modo condizionata dalle concrete tipologie di pena che vengono in rilievo: ad esempio, mentre non è del tutto escluso in partenza che la pena detentiva possa in qualche caso incidere positivamente sulla personalità del detenuto, assai meno sensato sarebbe pretendere di perseguire una finalità rieducativa con una pena a carattere pecuniario o una confisca di beni, in sé prive di attitudine trattamentale.
Per altro verso, e nel contempo, su significato e finalità della sanzione penale può incidere il tipo di reato commesso: se il pathos drammatizzante di una punizione in chiave retributiva può a tutt’oggi mantenere una qualche plausibilità in relazione ad un omicidio volontario o a un grave stupro, la pena da infliggere ad esempio all’autore di un reato di abuso edilizio non potrebbe che tendere a un più neutrale effetto dissuasivo-preventivo (o riparatorio dell’interesse urbanistico leso).

2. Le teorie sugli scopi della pena

Non è questa la sede per ripercorrere in maniera puntuale e dettagliata il risalente e amplissimo dibattito sugli scopi della pena. Dibattito che, nel corso dei decenni più vicini a noi, si è andato arricchendo di sviluppi via via più sofisticati ad opera della dottrina penalistica a livello internazionale, senza che tuttavia ne siano nel complesso derivate acquisizioni conoscitive radicalmente nuove o implicazioni pratiche così rilevanti da determinare vere rivoluzioni nel concreto funzionamento dei sistemi penali. Anzi, ne traiamo, da un lato, la conferma della difficoltà oggettiva di innovare profondamente la logica punitiva anche a livello di teorizzazione e, dall’altro, la riprova della distanza che separa la teoria dalla realtà effettuale del punire.
In luogo di una ricostruzione completa ed esaustiva, tenteremo un consuntivo critico per punti essenziali dei paradigmi punitivi classici, accennando nel contempo ad alcuni approcci teorici più recenti meritevoli di essere menzionati per importanza scientifica o potenziale valenza riformistica. Nel complesso, a prescindere dal loro carattere più risalente nel tempo o più recente, si tratta di dottrine di legittimazione o giustificazione della pena, vale a dire di punti di vista che prospettano ragioni atte a spiegare perché il ricorso alla punizione sia da considerare legittimo o giustificato in base a criteri di giustizia e/o di utilità sociale. In questo senso, le dottrine in questione poggiano più su argomenti normativo-valutativi che non su acquisizioni scientifiche dotate di fondamento empirico relative a come il sistema punitivo funziona nella realtà effettuale.
In mancanza di basi scientifiche certe, la scelta di una tra le teorie concorrenti finisce inevitabilmente col dipendere da preferenze culturali e ideologiche e, persino, da atteggiamenti emotivi che rimandano alla mutevole sensibilità collettiva e individuale. Se così è, non può allora sorprendere che l’alterna preferenza storicamente accordata ai diversi paradigmi punitivi (retribuzione, prevenzione generale o rieducazione ecc.) abbia potuto risentire del contingente clima politico e degli orientamenti di volta in volta dominanti nella pubbl...

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