Appendice.
Gli scritti di Pomponio de Algerio
Prima lettera ai compagni di fede
Questa lettera reca la data del 21 luglio 1555 e perciò fu scritta da Pomponio a Padova tra il primo e il secondo interrogatorio. Essa fu pubblicata a Basilea nel 1563 da Henry Pantaléon (= Martyrum historia ..., vol. 2, pp. 329-332), che riferisce di averla ricevuta in autografo da Celio Secondo Curione. Si offre qui per la prima volta una traduzione in italiano del testo integrale.
Agli amatissimi fratelli compagni nel servizio di Cristo, che da Babilonia trasmigrarono sul monte Sion, i cui nomi sono solito chiamare, grazia, pace e salvezza da Dio nostro Padre, per il Sig. Gesù Cristo nostro Signore e Salvatore, amen.
Per mitigare la tristezza che vi cagiono, voglio farvi partecipi della mia dolcezza perché insieme a me ne esultiate e cantiate davanti a Dio, rendendogli grazie. Dirò cosa incredibile agli uomini: ho trovato un favo di miele nelle viscere del Leone. Chi crederà mai a quanto riferirò? Il benessere in un’oscura fossa, la tranquillità e la speranza della vita in un luogo di amarezza e di morte, la letizia in un baratro infernale: dove gli altri piangono, là c’è la gioia; dove tutti gli altri temono, là c’è la forza. Chi mai crederebbe che nell’infelicità si abbia il diletto, nella solitudine la corrispondenza con i virtuosi, nelle catene più dure la quiete?
La dolce mano di Dio mi mostra tutte queste cose, compagni nel servizio di Cristo Signore. Ecco che è con me chi ci mancava da troppo tempo; chi allora percepivo in qualche modo, ora vedo più chiaramente; chi bramavo, ecco che mi dà la mano. Egli mi consola e mi riempie di gioia; egli allontana l’amarezza, offre forze e dolcezza; egli mi cura, mi sfama, mi solleva e mi corrobora. O quanto è buono il Signore, che non permette che i suoi servi siano messi alla prova oltre le loro forze! O quanto lieve e piacevole il suo giogo! Vi è forse qualcuno di simile all’altissimo, che accoglie gli afflitti, risana e rinvigorisce i feriti? Vi è forse qualcuno di simile a lui? Imparate, amatissimi, quanto dolce è il Signore, quanto mite e misericordioso, che fa spesso visita ai servi in tentazione, che si degna di essere con noi in una casa rozza e senza valore, dandoci un animo lieto e un cuore pacato.
Crede forse queste cose il cieco mondo? Al contrario dice incredulo: – Non ce la farai a patire a lungo il caldo, la neve e l’asprezza del luogo, i tormenti e i mille disagi, gli insulti e le facce torve che sopporti? Non ti volgi a guardare la dolce patria? Le risorse del mondo, i parenti, i piaceri, gli onori? Forse dimentichi la consolazione degli studi che sono medicina di ogni affanno? Perderai tutte le fatiche che hai sopportato, tutte le veglie e i sudori, insieme ai lodevoli sforzi che hai fatto fin dall’infanzia? Infine, non temi la morte che incombe, è chiaro, senza che tu abbia commesso alcun delitto? O quanto è stolto e sciocco poter con una sola parola provvedere a tutte queste cose e schivare la morte e non volerlo. Quanto è ingiusto non potersi lasciar indurre dagli inviti dei magnificentissimi, giustissimi, piissimi, sapientissimi e ottimi Senatori e non offrire le orecchie ottuse a uomini così illustri.
Ma ascoltino i ciechi mortali: – Cosa c’è di più ardente del fuoco che è stato preparato per te? Cosa è più freddo del tuo cuore, che è tra le tenebre e non riceve luce? Che c’è di più duro e oscuro e di più travagliato della vita che conducono? Cosa c’è di più odioso e ignobile del tempo che rimane? Dicano, domando, quale patria è più dolce di quella celeste? Quale tesoro è più grande della vita eterna? Chi sono i nostri parenti se non quelli che ascoltano la parola di Dio? Dove ci sono più ricchezze e onori più degni che nei cieli? Dica questo stolto: il sapere non ci è forse stato dato per la conoscenza di Dio? Se non lo avessimo conosciuto, avremmo certamente buttato via fatiche, veglie, sudori e tutti i nostri sforzi.
Risponda il miserabile uomo: – Quale conforto, quale rimedio vi sono per lui se è senza Dio, che è la vita e la medicina di tutti? Chi assicura di aborrire la morte quando egli stesso sia già morto nel peccato? Così egli antepone la morte alla vita. Se Cristo è la via, la verità e la vita, vi è forse vita senza Cristo? Il caldo, per me, è la fresca ombra; l’inverno, la nuova primavera nel Signore; come, non temo il fuoco e avrei paura del caldo? È stretto dal ghiaccio chi è bruciato dall’amore del Signore? Certamente è un luogo duro per i colpevoli, ma dolce come il miele per l’innocente. Qui gocciola la rugiada, là scorre il nettare; qui sgorga il latte, da quella parte l’abbondanza di tutti i beni. Certamente questo è un luogo deserto e incolto: per me però è stato fatto diventare un’ampia valle; qui è per me la parte migliore del mondo. Giudichi questo infelice se possa disporre di un prato più ameno. Qui vedo re, principi, città e popoli; qui riconosco le battaglie, questi annientati, quelli vincitori: alcuni messi in fuga, altri innalzati. Qui c’è il monte Sion, qui sono in cielo: Cristo Gesù sta lì di fronte, lo circondano gli antichi padri, i profeti, gli evangelisti, gli apostoli e tutti i servi di Dio. Qui mi abbraccia e mi protegge, questi mi incoraggiano, quelli mi spiegano i sacramenti; loro mi consolano, gli altri mi accompagnano cantando i salmi. Potrei dirmi solo tra così tanti e tanto grandi? Da qui io intrattengo una corrispondenza che mi dà conforto e mi è di esempio: perché questi vedo crocefissi, tagliati a pezzi, questi lapidati, quelli amputati; altri sono bruciati e altri in una casseruola e fritti in un calderone di bronzo; a questo trafitti gli occhi, all’altro strappata la lingua, a quello tagliate le mani e i piedi; altri gettati in una fornace ardente, certi usati come esca per i volatili.
Se volessi elencarli tutti assumerei un compito molto gravoso. Insomma, vedo diversi uomini torturati con diversi tormenti; però tutti in vita, tutti incolumi: per tutti vi è un unico collirio, un’unica medicina, in grado di lenire ogni ferita: anche questo dà a me forza e vita. Così sopporto con animo ilare queste angustie momentanee e modesti danni: la speranza più grande anche per me fu serbata in cielo, e non temo gli ingiuriosi e quelli che mi oltraggiano. Chi abita in cielo certamente li irriderà, e il Signore li dileggerà. Non avrò timore dei mille popoli che mi circondano: il Signore Dio mio mi libererà, speranza, mio sostenitore, mia consolazione, che solleva la mia testa. Lui in persona percuote tutti quelli che mi avversano senza ragione, e tritura i denti dei peccatori, in quanto lui solo è benedizione e autorità. Gli improperi a causa di Cristo ci rendono ilari. In verità così è scritto: se siete trattati ignominiosamente nel nome di Cristo, sarete beati perché questo è onore e virtù di Dio, e il suo Spirito riposi sopra di voi. Resi dunque più consapevoli, sappiate che i rimproveri verso di noi destano il disprezzo verso lo stesso rimprovero.
Per me nessuna sede è stabile: per me cerco in cielo la prima nuova Gerusalemme, che mi si mostra incontro. Ecco ho intrapreso un viaggio dove si trova la mia dolce casa, dove non dubito che non mancheranno ricchezze, parenti, piaceri, onori. Queste cose terrene, umbratili, sono tutte caduche e vanità delle vanità, qualora manchi la speranza e la sostanza della futura eternità che il Signore supremo mi ha concesso: fatte per me compagne e consolazione, ora producono degni frutti. Ho sudato, ho avuto freddo, e con ogni sforzo ho vegliato di giorno e di notte: ecco che tali fatiche sono già giunte al culmine. I giorni e le ore non sono stati per me senza meta: ora il vero culto di Dio è scolpito in me; il Signore ha portato la gioia nel mio cuore: insieme riposerò in pace. Chi oserà condannare la nostra vita così fatta e dire che gli anni sono stati rovinati? Chi riferisce sconsideratamente che tali fatiche sono state perse? Quelli che sono giunti a comprendere il Signore del mondo, quelli che hanno scambiato la morte con la vita, il Signore parte di me chiamò anima mia; per questo lo cercherò. Se dunque morire in Dio è non morire, ma vivere beatamente, a che pro ti ribelli al punto da opporti alla morte? Questa morte, oh, quanto è a me lieta, gustare il calice del Signore, che è il pegno di salvezza più sicuro. Proprio lui disse: «Quello che gli uomini fanno a me lo fanno anche a voi».
Smetta lo stolto, che si acceca nel sole; smetta, dico, il mondo di realizzare queste cose come una talpa. Dirò con l’Apostolo: «Non il tormento e nemmeno la povertà, non la fame e la nudità, non il pericolo e la persecuzione, né la spada saranno mai abbastanza da separarci dalla carità di Cristo. Siamo sacrificati tutto il giorno, siamo stati fatti come delle pecore sacrificali»; così abbiamo sentore del nostro capo Cristo che disse non esserci un discepolo superiore al suo maestro, né un servo di maggior valore del suo padrone. Ha prescritto anche che chiunque prenda la sua croce ogni giorno e lo segua. Consolatevi, amatissimi compagni nel servizio di Dio; consolatevi, quando sarete caduti in varie tentazioni: la vostra pazienza sia perfetta da ogni parte. Certamente queste cose ci sono state promesse in terra; perché così è scritto: che coloro che vi uccideranno, crederanno di rendere onore a Dio. Dunque le angustie e la morte sono il simbolo della nostra elezione e della vita futura. Rallegriamoci e cantiamo il Signore, in quanto lontani dal crimine siamo colpiti e consegnati alla morte. Sicuramente è meglio, se è volontà di Dio, patire agendo rettamente che facendo del male: il nostro esempio è in Cristo e nei profeti, che hanno parlato nel nome del Signore e i figli dell’iniquità li hanno uccisi. Ecco che ora beatifichiamo coloro che resistettero. Esultiamo della nostra innocenza e giustizia; il ...