La politica delle armi
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La politica delle armi

Il ruolo dell'esercito nell'avvento del fascismo

Marco Mondini

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La politica delle armi

Il ruolo dell'esercito nell'avvento del fascismo

Marco Mondini

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I militari di professione non hanno mai riscosso grandi fortune nella storia dell'Italia unita. Ma mai come nel primo dopoguerra essi sono stati al centro di una trama politica fatta di sospetti e congiure che li ha resi oscuri protagonisti dell'avvento del fascismo. La Grande Guerra aveva rappresentato per le forze armate italiane un'occasione di riscatto e di affermazione. Il paese uscito dalla guerra era tuttavia molto diverso da quello che i reduci si aspettavano di trovare al loro ritorno. Vincitrice ma esausta, attraversata da profondi conflitti sociali e politici, l'Italia del 1919 non sembrava disposta a tributare ai vincitori di Vittorio Veneto le ricompense che essi aspettavano. La vittoria finalmente conquistata sembrava ai più mutilata, svilita e demonizzata. Fu questa esperienza traumatica a spingere la società militare a mobilitarsi contro le sinistre 'antinazionali', abbandonando la propria tradizionale apoliticità e giocando un ruolo decisivo nella crisi del regime liberale.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858118566

Capitolo terzo. Paura rivoluzionaria e ordine pubblico: l’incontro tra esercito e fascismo

1. Militari e sovversivi

Che la forza di suggestione della rivoluzione russa costituisca una delle più rilevanti chiavi di lettura del primo dopoguerra italiano, è un dato sottolineato da tempo1. La diffusione del mito rivoluzionario è determinante nel comprendere il retroterra ideologico sotteso alla violenza (non solo propagandistica e verbale) con cui l’azione socialista si manifestò nel biennio 1919-1920, esaltando la violenza proletaria come componente irrinunciabile dell’azione politica e propugnando a gran voce l’abbattimento dello Stato borghese e la distruzione dei suoi apparati2. Sulla reale portata di questa minaccia molto ci sarebbe da dire. Ad esempio, si potrebbe ricordare come le intenzioni e le manifestazioni dei leader e dei militanti del massimalismo postbellico non corrispondessero spesso alle possibilità concrete di dare il via ad un’azione sovversiva sull’esempio bolscevico; come la volontà di arrivare ad una grande sollevazione mirante ad impadronirsi del potere per vie extralegali fosse perseguita in modo tutt’altro che coerente dalle varie anime della sinistra estrema; infine, si potrebbe anche ricordare come le stesse capacità di infiltrarsi clandestinamente nelle forze armate e nelle forze dell’ordine, cioè di adempiere efficacemente ad una tappa fondamentale nella sovversione dello Stato liberale, fossero minime3. Tuttavia, in un’analisi del mondo militare (e soprattutto del suo ruolo politico) nel primo dopoguerra, più che del reale dipanarsi dei progetti e delle possibilità rivoluzionarie è importante occuparsi dell’immagine, del mito, o meglio ancora della psicosi rivoluzionaria, così come essa prese corpo nella prospettiva dei contemporanei. Studiare il comportamento e il ruolo dei militari nella vita pubblica italiana del 1919-1922 vuol dire infatti comprendere in che modo essi furono coinvolti dal generale clima di allarme nei confronti di una imminente azione sovversiva e, in particolare, capire la singolare rilevanza che il «pericolo bolscevico» rivestì all’interno della stessa società militare, che si sentiva direttamente esposta (ben più di altre istituzioni statali) alle conseguenze di un moto rivoluzionario ad imitazione di quello russo del 19174.
Le aspettative rivoluzionarie si collegano d’altra parte al più generale problema della degenerazione dell’ordine pubblico che caratterizzò ampiamente il dopoguerra italiano. Benché il clima di violenza esasperata che agitava il paese non fosse tutto riconducibile alla predicazione massimalista, è però un fatto innegabile che il socialismo italiano abbia cavalcato l’onda delle proteste e dei moti che attraversarono la penisola a partire dall’estate 1919, e che la virulenza di questi era, in parte non piccola, alimentata dal fascino quasi messianico, tanto efficace nei confronti delle masse popolari, della rivoluzione come rimedio di tutti i mali5. È vero che i moti annonari e le invasioni di terre, che diedero il via alle grandi agitazioni sociali destinate a turbare tutto il biennio 1919-1920, non erano caratterizzati in partenza da un proposito di eversione violenta. La protesta, che sfociò anche in tumulti di piazza di vasta portata, non aveva in effetti quasi mai un’origine politica, finalizzata ad un progetto definito di rovesciamento dell’autorità statale, ma si legava casomai al profondo malessere delle masse (specialmente delle masse rurali) e, in generale, alle loro profonde aspettative di miglioramento6. Ciò non toglie che le organizzazioni socialiste si ponessero regolarmente alla testa dei tumulti, suffragandone la violenza con tutto l’armamentario fraseologico e propagandistico legato all’ideale rivoluzionario, e che dunque, perlomeno sul piano delle apparenze, i socialisti, e in misura ancora più virulenta gli anarchici, costituissero un pericoloso «fronte sovversivo», pronto a sfruttare la minima occasione per innescare la miccia di un processo rivoluzionario destinato a destabilizzare lo Stato per sostituirgli un regime bolscevico7.
Il credito che a tale minaccia veniva dato assume un valore tanto maggiore se calato all’interno di un contesto in cui la violenza costituiva un tratto consueto del conflitto sociale e dell’azione politica. Il clima del dopoguerra italiano era saturo di un’estrema abitudine alla violenza, riconducibile all’esperienza del conflitto, alla quotidianità della morte con cui le masse dei combattenti aveva convissuto per quattro anni di trincea ma anche, o forse soprattutto, alle attese e alle promesse mancate che la guerra aveva prodotto8. Per usare le parole del prefetto di Bologna nel gennaio 1919, il reduce di ritorno dal fronte era determinato ad ottenere la «ricompensa» per i propri sacrifici con cui la propaganda aveva alimentato lo sforzo dei soldati nell’ultima parte del conflitto, anche a costo di provvedere da sé con metodi violenti; una situazione esplosiva in cui i «partiti sovversivi» intravedevano un terreno fertile di consenso e di reclutamento9. Il risultato, ben percepito dai contemporanei, fu il ricorso sistematico alla violenza nelle contese interne, un fenomeno comune a tutta l’Europa del 1919 ma, come ha scritto Volker Berghahn, in nessun altro paese così rilevante come in Italia10. In questa degenerazione progressiva dell’ordine, il rivoluzionarismo «parolaio e messianico» dei massimalisti (come lo definì De Felice)11 ebbe una gran parte di responsabilità, incoraggiando un’azione di lotta in cui al disprezzo per ogni senso della legalità si accompagnava sovente l’organizzazione di un contropotere locale, contro il quale lo Stato non sembrava capace di opporsi. Fu questo il caso delle leghe agrarie nella Pianura padana e, in particolare, delle «satrapie» rosse, ricordate da Luigi Preti in Emilia e in Romagna, ma anche delle effimere repubbliche «sovietiche» toscane12.
Tuttavia, nonostante sia stato proprio sul fronte dell’ordine pubblico, della legalità e della forza che si giocò tanta parte della crisi dello Stato liberale, la nuova qualità della violenza postbellica non è stata molto sottolineata13. Come ha scritto Adrian Lyttelton, la cifra caratteristica che distingueva la violenza del dopoguerra era il suo deliberato uso su larga scala da parte di attori politici per favorire il perseguimento dei propri obiettivi14. Questo, calato in un contesto in cui l’infrazione della legge e il delitto apparivano vie normali per il conseguimento dei propri scopi15, creò una situazione di inusitata incapacità del potere pubblico di controllare, gestire e, nel caso, reprimere la violenza privata (e collettiva). Di fronte a ciò che George Mosse ha definito la «brutalizzazione della politica» lo Stato sembrò incapace di far rispettare le consuete barriere giuridiche contro l’impiego della forza, un fattore che sembra accomunare la Germania di Weimar indagata dallo storico statunitense e l’ultima Italia liberale, in un contesto in cui la lotta politica assumeva rapidamente le vesti della guerra civile16.
Esistono molti punti in comune nella situazione di progressivo indebolimento dell’autorità statale nella Germania sconfitta e nell’Italia vincitrice (benché «mutilata») del primo dopoguerra, tra cui la formazione di milizie partitiche e la tendenza dell’esercito a perseguire una politica autonoma dal governo legale costituiscono forse gli esempi più evidenti17. A caratterizzare ulteriormente la situazione italiana fu il nesso diretto tra la crisi di autorità dello Stato e precise scelte politiche personali, riconducibili particolarmente al ministero Nitti, che esercitarono un’influenza fortemente negativa sulla gestione dell’ordine pubblico. La volontà di Nitti di attrarre in qualche modo i socialisti nell’orbita delle forze a sostegno del suo governo, infatti, fece sì che egli intervenisse sulle autorità periferiche per frenare le azioni repressive nei confronti degli esponenti del Partito socialista e scoraggiare una politica forte di contrasto all’illegalità endemica18.
D’altra parte, va riconosciuto che nel fronteggiare la violenza politica, nelle campagne come nei centri urbani, la forza pubblica manifestò costantemente una debolezza «tecnica» ai limiti dell’impotenza. Prefetti e questori confessavano tra 1919 e 1920 una sostanziale incomprensione per un nuovo tipo di lotta, che vedeva gruppi organizzati di uomini esperti nell’uso delle armi fronteggiare decisamente i drappelli di carabinieri e di guardie. Benché una delle prime preoccupazioni di Nitti sia stata proprio quella di approntare un forte corpo di pubblica sicurezza dipendente in via esclusiva dal ministero degli Interni, la Regia guardia per la pubblica sicurezza, istituita nell’estate 1919, non costituì una risposta veramente efficace al problema dell’ordine pubblico, tanto che può ritenersi valida per tutto il «biennio rosso» l’affermazione di Nenni secondo cui lo Stato appena uscito dalla guerra non aveva una forza armata su cui basarsi, «non poteva servirsi dell’esercito, aveva il corpo dei reali carabinieri in piena dissoluzione, non aveva una polizia»19. Nonostante il rapido incremento degli organici, la Regia guardia non riuscì in effetti a gestire la prevenzione e la repressione nei centri urbani, così come del resto i carabinieri furono costantemente in difficoltà ad arginare i tumulti violenti delle campagne20.
A dispetto dell’aumento numerico delle forze di polizia, che raggiunsero prima del 1922 la ragguardevole cifra di più di 100.000 unità (65.000 carabinieri e oltre 40.000 guardie regie)21, raddoppiando in pratica gli organici rispetto all’età liberale, la lotta per il mantenimento dell’ordine pubblico rappresentò una battaglia persa per lo Stato italiano, e questo ben prima che lo squadrismo intervenisse a peggiorare ulteriormente la situazione22. In assenza di uno studio che affronti sistematicamente il tema della sicurezza e della repressione della delinquenza nel primo dopoguerra23, possiamo sostenere che il fattore decisivo nel contraddistinguere l’inefficacia con cui le autorità periferiche risposero al problema della violenza diffusa fu rappresentato dalle nuove dimensioni e...

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