Contro lo smart working
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Contro lo smart working

Savino Balzano

  1. 128 pages
  2. Italian
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Contro lo smart working

Savino Balzano

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Lo smart working nasconde molte insidie per il lavoratore. Senza una precisa individuazione dei tempi di lavoro, come si conteggeranno e retribuiranno? Come si tuteleranno diritti alla salute e alla sicurezza? Non si rischia di compromettere la possibilità dei lavoratori di essere comunità?

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Information

Year
2021
ISBN
9788858145999

La balla del tempo libero

La nostra vita è fatta di tempo: questa affermazione può sembrare pura retorica, tuttavia basta pensarci un attimo per realizzare quanto sia vera. Noi siamo il tempo che abbiamo ed è per questo che espressioni quotidiane come «io non ho tempo!» sono tutto sommato poco sensate: le giornate, del resto, hanno per tutti la stessa durata. Ciò che cambia, da un individuo a un altro, è come tale tempo viene impiegato, per scelta o per costrizione. Per questo è importante soffermarsi a riflettere, senza illudersi che si tratti di una banalità, sul potere che il lavoro ha di incidere sulla gestione del nostro tempo, sulla nostra esistenza e sul senso che vorremmo darle.
Nel mondo in cui viviamo gli individui – quasi tutti – devono impiegare una grandissima parte del proprio tempo nel lavoro: tale impiego è strumentale alla possibilità di godere positivamente del tempo definito libero. Se il tempo non dedicato al lavoro è libero, ne deriva che quello impiegato nelle attività professionali non lo è o, perlomeno, lo è meno: lavorare, per quanto la propria attività possa essere gradita e appassionante, significa pur sempre sottrarre a sé stessi un pezzo importantissimo di esistenza, e tale scelta fonda la sua razionalità proprio sul fatto che dal lavoro il cittadino debba trarre dignità e libertà. Ciò dovrebbe avvenire attraverso la formazione e l’elevazione professionale, che sono tutelate dalla nostra Costituzione (articolo 35). Innanzitutto però, a un livello più materiale, avviene attraverso una forma di compensazione (forse consolazione) per la sottrazione del proprio tempo: la retribuzione. Una contropartita che deve rispondere a caratteristiche precise, prime fra tutte quelle indicate al già citato articolo 36, il quale stabilisce anche i diritti irrinunciabili al riposo settimanale e alle ferie retribuite.
Tutto il tempo dedicato al lavoro deve essere ricompensato con una retribuzione a cui nemmeno il lavoratore ha diritto di rinunciare: è un diritto inalienabile. Il lavoro straordinario, ad esempio, essendo un’estensione del normale orario di lavoro, dà diritto a riposi compensativi della stessa durata o a retribuzioni in molti casi maggiorate rispetto alla ordinaria retribuzione oraria (in alcuni casi ad entrambe le cose). Tale maggiorazione trova la sua logica nel fatto che minor tempo libero l’individuo ha a sua disposizione, maggiore sarà il suo valore e, conseguentemente, più importante sarà la contropartita economica che dovrà essere riconosciuta per una sua ulteriore privazione.
Nel corso degli anni, i lavoratori hanno subìto innumerevoli e ingenerosi attacchi ogni qualvolta rivendicavano il diritto alla retribuzione del proprio tempo lavorato. In moltissime aziende – chi si occupa di rappresentanza dei lavoratori lo sa fin troppo bene – chi rispetta pedissequamente il proprio orario di lavoro viene mal visto e passa quasi per fannullone. «Alla fine del turno gli casca la penna!»: quante volte abbiamo sentito espressioni di questo tipo. Sono le stesse aziende, spesso, a non pagare lo straordinario, a volte disponendone addirittura il blocco nei piani industriali per comprimere il costo del lavoro a fini di efficientamento della spesa.
È così che si arriva a certi paradossi. Da sindacalista mi capita di ascoltare ragionamenti assurdi da parte di alcuni lavoratori ormai rassegnati. Per esempio molti, cedendo a subdole pressioni psicologiche, pur di attenersi con disciplina al blocco degli straordinari e non lasciar traccia delle ore lavorate in più, timbrano l’uscita per poi rientrare dalla porta di servizio senza segnare l’ingresso, rinunciando alla loro retribuzione (un diritto irrinunciabile, dicevamo, ai sensi della Costituzione). Provi a fargli notare quanto sia assurdo un comportamento del genere e ti senti rispondere: «se non lo faccio oggi, me lo ritrovo domani: sempre a me tocca, tanto vale che me lo levo di torno». Ancora, una lavoratrice, ad esempio, per sopperire alla mancanza di personale e all’eccessivo lavoro, si attarda gratuitamente in ufficio e magari paga una babysitter che vada nel frattempo a prendere i bambini a scuola. In pratica si fa carico dell’organizzazione stessa del lavoro, che è una incombenza di pertinenza dell’azienda, e per farlo sopporta persino una spesa personale del tutto evitabile (oltre a rinunciare al piacere di accogliere i bambini all’uscita di scuola). Formalmente, se segnassero lo straordinario, potrebbero persino correre il rischio di subire un procedimento disciplinare per la sua mancata pre-autorizzazione: secondo le norme, infatti, nessuno può eccedere l’orario di lavoro se non per volontà del datore di lavoro e questa consapevolezza induce il sindacato al logorante dilemma circa la denuncia dello straordinario non retribuito. Tutti sanno, ma nessuno denuncia per paura di ritorsioni: cosa vi ricorda?
Il più delle volte i capi del personale e i responsabili delle relazioni sindacali, alla richiesta di spiegazioni, fanno spallucce e fingono di cadere dalle nuvole. Eppure non è credibile che il datore di lavoro, soprattutto se minuziosamente organizzato come lo sono le grandi multinazionali, sia inconsapevole di fenomeni distorsivi tanto diffusi da costituire una regola generale. La verità è che ne approfittano, ci fanno ricavo, arrotondano.
È incredibile (si fa per dire) l’asimmetria di reazione del datore di lavoro dinanzi a due situazioni distinte, ma entrambe riconducibili alla mancata ottemperanza agli obblighi legati al turno di lavoro: quella al mancato rispetto dell’orario di lavoro da parte di chi lavora anche un minuto in meno del previsto e quella al comportamento di chi, viceversa, tende a prolungare la propria attività lavorativa (senza che il datore di lavoro abbia, differentemente da quanto prevedano le norme, preventivamente autorizzata l’attività in straordinario). Va da sé che un lavoratore che illecitamente tenda a diminuire il proprio orario di lavoro si esporrebbe, come è giusto, al rischio di procedimento e provvedimento disciplinare: financo al licenziamento, dal momento che una condotta fraudolenta di quel tipo compromette in modo palese il rapporto fiduciario che deve incorrere tra datore di lavoro e dipendente. Laddove invece, specularmente, il lavoratore ecceda il proprio orario di lavoro senza alcuna espressa richiesta e preventiva autorizzazione da parte del superiore, si registra solitamente – a dispetto delle norme di cui dicevamo poco fa – una certa accondiscendenza e nessun divieto di fatto: il datore di lavoro chiude un occhio per fingere una innocente inconsapevolezza. La severità in questo caso si dispiega solo quando qualcuno osa denunciare, direttamente o mediante il ricorso al rappresentante sindacale, tradendo così un palese movente ritorsivo.
Molti lavoratori si mettono così nella condizione di lavorare invisibilmente e di rinunciare alla possibilità stessa di rivendicare la retribuzione di quel tempo, che poi è vita: rinunciano gratuitamente a pezzi della propria stessa vita che potrebbero essere destinati alla propria cura, al proprio divertimento, alla propria famiglia, alle proprie passioni, a qualcosa di proprio in generale.
Sia chiaro, non sono pazzi o vigliacchi: sono semplicemente fragili e ricattabili, consapevoli di quanto ci sia da perdere quando la disoccupazione è così diffusa14. Se si osserva quali sono le categorie che più si prestano a tali pratiche, infatti, diventa facilissimo comprenderne le motivazioni: si tratta quasi sempre di lavoratori precari, spesso giovani, in generale a rischio di perdita di impiego. È dunque chiaro che certi comportamenti derivino dall’esiguità di diritti di cui gode chi li adotta sui luoghi di lavoro. Diciamocelo chiaramente: nessuno rinuncerebbe volontariamente a un pezzo importante della propria esistenza in favore e a vantaggio di qualcun altro. Se si arriva ad assumere determinate condotte masochistiche, è perché vi è un condizionamento ambientale ostile all’individuo, frutto di un lungo ed inesorabile percorso di precarizzazione del lavoro.
Non bisogna poi fare l’errore di ridurre tutto al piano individualistico: bisogna analizzare il fenomeno soprattutto sul piano complessivo e di sistema. Sicuramente l’impoverimento delle persone, col mancato riconoscimento di fatto di pezzi di retribuzione, ha un effetto negativo e destabilizzante sulla vita stessa dell’individuo, ma è bene ricordare quanto esso comporti anche un impoverimento complessivo della comunità lavoratrice del Paese.
Nel corso della contrattazione collettiva spesso ci vengono sbattuti in faccia dalle controparti datoriali i dati delle retribuzioni tabellari15: cercano di argomentare che, in considerazione dell’andamento inflattivo, il potere di acquisto degli stipendi sia persino aumentato. Peccato che si tratta dell’ennesima alterazione dei fatti a danno dei meno avveduti, a cui collabora anche la narrazione mediatica che celebra i «successi» di ogni rinnovo contrattuale. Per giudicare compiutamente la situazione retributiva di un gruppo di lavoratori è alla retribuzione di fatto che bisogna guardare, la quale oltre che dal minimo tabellare è costituita anche dal riconoscimento della retribuzione da lavoro straordinario, di indennità varie, di trattamenti aggiuntivi in generale. Ebbene, quando tutti questi elementi «eventuali» della retribuzione (primo fra tutti il lavoro straordinario) smettono, come accade ormai per pessima abitudine, di essere riconosciuti per intero o in parte, la retribuzione di fatto cala precipitosamente. Un vero e proprio saccheggio.
È assolutamente ragionevole supporre che tutto questo tempo lavorato e non pagato generi conseguenze pesanti anche sul piano occupazionale. Un datore di lavoro (pensiamo alle grandi multinazionali) ha uno stock di lavoro da distribuire sulle persone: il ragionamento che spesso adotta è basato su banalissime logiche di distribuzione del lavoro sulle ore lavorate dagli impiegati; così, tendenzialmente, per risparmiare e fare profitto, il peso sugli individui aumenta sempre di più e spesso il lavoratore è costretto a ritmi di lavoro estenuanti perché gli si richiede di svolgere una quantità di lavoro per singola ora eccessiva rispetto a quanto è normale. Quando però il datore di lavoro non riesce a caricare ulteriormente le ore lavorate con altre attività, ecco che prova a «creare» nuove ore sulle quali spalmare lavoro. Una delle possibilità è quella di assumere personale dal mercato, ma quest’ultima è da considerarsi una “extrema ratio”: qualsiasi altra possibilità meno onerosa resta la preferita, prima fra tutte quella del lavoro straordinario non retribuito.
Ne consegue una deriva di banalissima previsione: laddove il datore di lavoro abbia la possibilità di scegliere tra ulteriori ore di lavoro gratuite (cioè non pagate) e nuove assunzioni, è evidente che prediligerà la prima soluzione. Dinamiche di questo tipo possono avere dunque conseguenze pesanti sulle politiche occupazionali: nella singola azienda e in generale nel Paese.
Immaginate fino a che punto questi fenomeni16 potrebbero esasperarsi se quella smart diventasse la modalità di lavoro ordinaria e generalizzata. Sono moltissimi i lavoratori che infatti già oggi lamentano un aumento considerevole delle ore lavorate in regime di lavoro agile. E benché una ricerca di Banca d’Italia17 saluti con favore il fatto che durante la pandemia i lavoratori da remoto abbiano ricevuto una retribuzione più elevata rispetto a chi non ha lavorato in smart working, con un incremento retributivo medio del 6%, è difficile pensare che quest’ultimo possa tener conto di tutte le ore lavorate in più (che sarebbero, secondo lo studio, solo due alla settimana). Altri studi parlano infatti di un’ora o poco meno al giorno18, ed è quindi possibile che dietro le cifre rilevate dallo studio si nasconda una ulteriore quantità di lavoro straordinario sommerso, sempre non retribuito.
Non è un caso che nel dibattito in corso qualcuno (purtroppo in molti ancora tacciono) provi ad insistere sul tema della disconnessione, termine con cui si intende il diritto riservato ai lavoratori di smettere di lavorare oltre un determinato monte ore, cioè quello contrattualmente previsto. La questione si pone con maggior urgenza in questa fase storica – e tanto più quando si parla di lavoro agile – dal momento che in passato era sufficiente lasciare l’ufficio per smettere di lavorare: adesso le cose sono molto diverse e il lavoro tende quasi ad inseguirci, per via di una connessione permanente tramite dispositivi elettronici personali e aziendali che, con lo smart working così come declinato ultimamente, potrebbe potenzialmente non mollarci mai, coincidendo il luogo di lavoro con la nostra stessa abitazione.
Se si vuole provare a contenere questa deriva e le ricadute che essa comporterebbe sull’individuo e sulla comunità nazionale, è imprescindibil...

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