Identità perdute
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Identità perdute

Globalizzazione e nazionalismo

Colin Crouch

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Identità perdute

Globalizzazione e nazionalismo

Colin Crouch

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La globalizzazione ha messo in crisi l'identità – oltre che la stabilità economica – di milioni di persone. È un problema che va affrontato seriamente ma la cui soluzione non può essere il nazionalismo.

Un tempo, quando si parlava di globalizzazione, ci si riferiva a un fenomeno unicamente economico. Non è più così. Oggi la globalizzazione – che ha causato la graduale cancellazione di interi settori industriali e, di conseguenza, la dispersione di comunità e modi di vivere a essi legati – significa anche perdita di identità. Il profondo disagio che ne deriva è sentito ovunque: è percepito dagli operai americani che hanno perso il lavoro nelle acciaierie della Rust Belt; dai tedeschi, che parlano nostalgicamente di Heimat, cioè di 'patria'; dagli agricoltori francesi, messi in crisi dalle multinazionali. A partire da questo disagio diffuso, molti partiti politici sovranisti hanno rivendicato la propria identità nazionale. Ma cosa succederebbe se si bloccasse il processo di globalizzazione?

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Information

Year
2019
ISBN
9788858135716

1.
Le questioni

Uno scontro epico tra globalizzazione e un risuscitato nazionalismo sta trasformando le identità e i conflitti politici in tutto il mondo. Il termine globalizzazione si riferisce in primo luogo allo sviluppo in buona parte del pianeta di relazioni economiche relativamente senza restrizioni, ma questo processo comporta implicazioni sociali e politiche più ampie. Persone di diversa cultura vengono a trovarsi l’una accanto all’altra e i sistemi nazionali di governo dell’economia sono messi a dura prova. Sconvolgimenti di varia natura – economici, culturali e politici – accompagnano la globalizzazione, producendo un violento contraccolpo per coloro che si sentono penalizzati dal processo, non tanto sul piano economico quanto perché esso rappresenta una minaccia per le fonti tradizionali della loro identità culturale e sociale. Mentre in un primo momento la globalizzazione sembrava destinata semplicemente a offrire più a buon mercato prodotti dall’estero e nuove opportunità per le esportazioni, la globalizzazione ha significato per molti la perdita non solo del proprio lavoro individuale ma di intere fabbriche di lunga tradizione e delle comunità e degli stili di vita a esse associati, con un’ulteriore spirale di disorientamento dovuta alle tradizioni straniere e al gran numero di persone provenienti da altre culture, che hanno invaso e oscurato gli abituali punti di riferimento. L’inquietudine e la preoccupazione che ne conseguono sono avvertite parimenti
– dagli italiani, arrabbiati con l’Unione Europea (UE) che non fa abbastanza per convincere gli Stati dell’Europa centrale ad accogliere una parte dei rifugiati arrivati sulle coste del paese, e allo stesso tempo dai cittadini dell’Europa centrale, furiosi con l’UE perché chiede loro di farlo;
– dagli ex operai dell’industria siderurgica americana e francese, che hanno visto dissolvere le loro fabbriche e le comunità locali;
– dai tedeschi, che parlano della loro Heimat e hanno la sensazione che sia qualcosa che ormai hanno perduto;
– da russi, britannici e austriaci, presi dalla nostalgia per i loro imperi del passato e infastiditi dal fatto che in un mondo globalizzato la «sovranità» debba essere condivisa;
– da appartenenti alle società islamiche, che si sentono invasi tanto dagli aerei militari americani e britannici quanto dalla cultura e dai costumi sessuali occidentali;
– e da persone di tutta Europa e Nord America, sconvolte e inorridite dal terrorismo islamico e che non gradiscono la presenza tra le loro strade di donne che indossano l’hijab.
La globalizzazione è, per molti, un attentato alla loro voglia di sentirsi orgogliosi nei vari ambiti di vita: nel loro lavoro, nella loro identità culturale, nelle loro comunità, nelle città e paesi in cui vivono, quell’ampio fascio di idee che costituiscono la nozione tedesca di Heimat. Molte persone sono ancora capaci di provare questo sentimento d’orgoglio, in quanto le aree in cui vivono e i settori in cui lavorano sono stati favoriti dalla globalizzazione. Hanno quindi un approccio disteso, ottimistico e persino entusiasta per le opportunità offerte dal caleidoscopio di un universo culturale sempre più vario. Ma altri si trovano ad affrontare un’esperienza differente. Anche se conducono una vita agiata, vedono nel resto del mondo una serie di cambiamenti sconcertanti, e desiderano quelle certezze che, forse erroneamente, credono caratterizzassero il mondo nel passato.
Durante il lungo dibattito che è divampato nel Regno Unito dopo il referendum del 2016 sull’uscita dall’Unione Europea (la cosiddetta «Brexit»), la British Broadcasting Corporation (BBC) ha intervistato alcuni abitanti di Middlesbrough, una città un tempo industriale, fortemente depressa, nel Nord-Est dell’Inghilterra, che ha votato in modo massiccio per l’uscita dall’UE. Un tema ricorrente delle interviste era: abbiamo perso tutto, i giovani partono per trasferirsi altrove, non vediamo prospettive nel nostro futuro, ma almeno sappiamo di essere inglesi e ne siamo orgogliosi. Pertanto hanno votato per uscire dall’Unione europea. La catena della loro argomentazione è priva di logica in senso stretto, ma possiede una potente logica emotiva. Ciò aiuta a spiegare perché in questi primi anni del ventunesimo secolo un nazionalismo redivivo stia diventando una forza popolare dominante.
Ma non è del tutto vero che non ci sia una logica stringente. Noi possiamo ottenere un qualche controllo su un mondo caratterizzato da un’interdipendenza sempre maggiore solo attraverso lo sviluppo di identità e istituzioni democratiche e di governo in grado di spingersi oltre la dimensione dello Stato-nazione. Questo compito è già difficile di per sé, ma diventa virtualmente impossibile quando un gran numero di politici, giornali e intellettuali incitano le persone a fare esattamente l’opposto e a trincerarsi dietro le barriere nazionali, trattando gli immigrati come un morbo che contamina la loro cultura e rapportandosi al resto del mondo solo sulla base di relazioni di mercato aperte alla libera concorrenza – e quindi lasciando le imprese multinazionali e i mercati finanziari deregolamentati fuori da ogni controllo.
Sebbene l’opposizione alla globalizzazione provenga da ogni angolo dello spettro politico, la sua leadership è fermamente nelle mani della destra tradizionalista e nazionalista. Questo è interessante. La globalizzazione economica è principalmente un progetto del neoliberismo, che per diversi decenni è stata l’ideologia dominante della destra moderna. Significa questo che la politica è diventata uno scontro tra fazioni interne alla destra e che la sinistra non ha più nulla da dire? O che le differenze tra sinistra e destra perdono di valore nella lotta sulla globalizzazione? Io qui sostengo invece che sinistra e destra conservano senza dubbio il loro significato; che la sinistra socialdemocratica può offrire un suo contributo distintivo a questo conflitto; che è necessario porsi dalla parte della globalizzazione contro i nuovi nazionalismi, ma anche che bisogna insistere per riformare le sembianze che questo processo ha assunto. Ciò non implica affatto – e non deve implicare – l’abbandono delle identità nazionali o locali. Piuttosto, le identità multiple che sono oggi a nostra disposizione dovrebbero diventare una serie di cerchi concentrici che si arricchiscono l’un l’altro con radici ferme in una sussidiarietà cooperativa, o una specie di matrioska russa con una successione di bambole di dimensioni differenti contenute in modo confortevole l’una dentro l’altra. Dobbiamo essere orgogliosi della nostra città più o meno grande, della regione in cui è situata, della nazione al cui interno è contenuta, delle istituzioni europee (per chi è abbastanza fortunato da vivere in uno Stato membro dell’UE), e delle più ampie istituzioni internazionali. Ciò è possibile solo se si verificano sviluppi costruttivi a ognuno di questi livelli, e se è chiara la loro mutua interdipendenza creativa. Abbiamo bisogno di leader in campo sociale e politico che vogliano dedicarsi al rafforzamento dei legami tra i diversi livelli aiutandoli a lavorare insieme in modo fruttuoso; leader che smettano di insistere su rivalità assurde e su una ricerca antiquata di sovranità in un mondo in cui nessuna persona, regione o nazione può stare in piedi da sola senza una profonda cooperazione con gli altri. Amartya Sen ha posto l’accento sulla tensione che esiste intorno alla nozione di identità1. Quando gli individui hanno la possibilità di scegliere tra identità alternative e decidere quale priorità assegnare a ognuna di esse, la loro vita e la loro libertà sono arricchite e ampliate. Quando le identità e il loro contenuto sono imposti da nemici o avversari che cercano di stigmatizzarle, oppure da leader che utilizzano la questione identitaria per mobilitare il sostegno delle popolazioni, le identità diventano un’imposizione e una restrizione della libertà degli individui – nonché, cosa ancor peggiore, una causa frequente di conflitti violenti.
Alle spalle di queste problematiche, quella in corso è una nuova fase del grande conflitto, risalente al XVIII secolo, tra i valori dell’ancien régime e quelli dell’Illuminismo: uno scontro che vede da un lato la sicurezza dell’autorità conservatrice e della tradizione familiare, e dall’altro la libertà della ragione, dell’innovazione e del cambiamento. Esaminando il problema in questi termini, anziché in termini economici, è facile comprendere l’ostilità nei confronti della globalizzazione da parte della destra tradizionalista, nazionalista, ma non di quella neoliberista. Forse dipende dal fatto che negli ultimi decenni ci siamo sempre più abituati a considerare il neoliberismo come la forza principale della destra, e chi si oppone da sinistra alla globalizzazione è apparso piuttosto inconsapevole della compagnia reazionaria che gli sta accanto. Le tesi della sinistra contro la globalizzazione sono abbastanza comprensibili nei loro termini. Sono, a grandi linee, le seguenti:
1. La globalizzazione ha comportato l’estensione del capitalismo su sempre più aree del pianeta, raggiunte mediante la rottura di quelle barriere regolative che permettevano ai governi nazionali di garantire che imprese e mercati aderissero a certe norme. In altre parole, la globalizzazione permette al capitalismo di distruggere i meccanismi di governo capaci di contenere quegli eccessi che causano povertà e disuguaglianza e portano a trascurare i bisogni collettivi.
2. Il livello più alto di governance sul quale la democrazia ha potuto insediarsi è lo Stato-nazione. Dunque, non appena un fenomeno supera quel livello, esce dal raggio d’azione della democrazia e cade sotto il solo controllo delle élites capitaliste che dominano lo spazio transnazionale.
3. Lo Stato-nazione non è solo un livello della democrazia in senso formale, ma è anche un’entità con cui la maggior parte dei lavoratori si identificano e alla quale sono disposti ad affidarsi. Questo tipo di attaccamento è necessario se il potere politico democratico vuole contrastare il dominio del capitalismo deregolamentato.
4. Il welfare state, in particolare, è stato una costruzione nazionale che attingeva alla solidarietà che unisce fra loro i membri di una nazione, membri cioè di una comunità condivisa. La tradizione svedese esprime bene tutto ciò quando definisce il welfare state come folkshem (una casa del popolo, in cui «casa», come nel termine tedesco Heimat, indica un luogo in cui ci si sente «a casa»).
5. È interessante, in effetti, notare che le forme più forti di welfare state si sono sviluppate nei paesi nordici in una fase in cui erano fortemente omogenei sul piano etnico e culturale, e che la loro disgregazione negli ultimi anni è stata associata all’arrivo di un largo numero di immigranti e richiedenti asilo, per lo più da culture islamiche. E notevole è anche il fatto che la società etnicamente eterogenea degli Stati Uniti ha uno dei welfare states più deboli e meno generosi del mondo democratico. Sembra esserci una relazione inversa tra un forte Stato sociale e un multiculturalismo liberale; e se così è, la sinistra farebbe bene ad abbandonare quest’ultimo il più rapidamente possibile. (Questa, dobbiamo osservare, è una tesi molto più rispettabile di quelle che spingono i partiti di sinistra semplicemente a inseguire la destra xenofoba a caccia di voti.)
6. Dato che la globalizzazione e il multiculturalismo sono nocivi per un progetto socialdemocratico, è necessaria una svolta che preveda tutela economica e controlli sui movimenti di capitale, nonché severe restrizioni all’immigrazione. Per i paesi europei ciò rappresenta un grosso freno, se non la rinuncia completa, al processo d’integrazione europea – che soprattutto in anni recenti ha significato integrazione in termini neoliberali.
Ogni passaggio nella progressione di questo ragionamento è del tutto logico, ma a partire dal punto 5 il discorso inizia a sfociare, anche se con motivazioni differenti, nelle posizioni della destra xenofoba. È possibile individuare esempi del luogo preciso in cui ciò si verifica. Tra i partiti politici si riscontra la posizione del partito francese di sinistra France Insoumise (letteralmente, Francia «Indomita») e della corrente di sinistra adesso dominante all’interno del partito laburista britannico. Entrambi, in particolar modo il primo, sono inclini a posizioni economiche protezionistiche; entrambi sono ostili all’UE; ed entrambi hanno posizioni ambigue sull’immigrazione. Nessuno dei due condivide l’aperta ostilità dell’estrema destra nei confronti degli immigrati e delle minoranze etniche, ma entrambi si allontanano dagli approcci liberali alla questione. France Insoumise rifiuta l’obbligo della Francia di accogliere una quota dei richiedenti asilo del Nord Africa e del Medio Oriente arrivati sulle coste di Grecia e Italia, ma si ferma un passo prima di scagliarsi contro gli stessi rifugiati. Il Labour Party non ha mai criticato le minoranze etniche originarie dei paesi del Commonwealth britannico, le quali hanno diritto di voto e tendono a votare per il Labour. Ha tuttavia fatto eco alle critiche generali contro quegli immigrati provenienti dagli Stati europei (i quali non hanno diritto di voto), concentrandosi sul potenziale impatto negativo che esercitano sul livello dei salari e sulle condizioni generali di lavoro. Il partito socialdemocratico danese è al momento parte di un triangolo che include: sé stesso come principale partito di opposizione; un governo di minoranza guidato da un partito neoliberale favorevole alla globalizzazione e che intende indebolire lo Stato sociale; e un’estrema destra xenofoba ma sostenitrice del welfare state che mantiene i neoliberali al governo. I socialdemocratici sono attraversati dalla forte tentazione di siglare un’alleanza a supporto del welfare state con l’estrema destra contro i neoliberali. Più complesso da posizionare nello spettro sinistra-destra è il partito italiano del Movimento Cinque Stelle (M5S), al momento il partito con il più alto consenso...

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