Trieste, 1974
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Sabato 27 aprile 1974, alle 21, 47, a Trieste, nella scuola slovena di via Caravaggio, rione di San Giovanni, esplode una bomba, figlia della strategia della tensione neofascista in città. Da qui parte un viaggio ambientato negli anni Settanta in una Trieste affascinante e multietnica, percorsa dalle inquietudini e dalle tensioni politiche dell’epoca, mentre l’intera Italia è sconvolta da sanguinosi attentati, come quello al treno Italicus. Su uno sfondo sociale minuziosamente ricostruito, s’intrecciano le storie private dei quattro protagonisti di questo romanzo storico che scaturisce da uno scrupoloso lavoro di ricerca. L’arrivo in città di Pier Paolo Pasolini per una conferenza alla Casa dello studente fa da trait d’union alle singole vicende personali, ciascuna delle quali, seppure con esiti differenti, appare fin dall’inizio sospesa tra un gioco di combinazioni casuali e il compimento di destini ineluttabili.
“ Nonostante il male storico e metafisico che prova a stroncare (peggio, a insozzare) ogni nostro sforzo, e nonostante il finale (anche) tragico del romanzo, in tutte le vite raccontate da Stefani c’è l’oltre e, quasi, l’oltranza, ma senza superbia. Di questa tensione, leggera e profonda al tempo stesso, abbiamo bisogno, come del pane ”. (Gianluca Paciucci)

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Information

​Il Poeta in città

L’arrivo da queste parti è sempre un po’ spettacolare, struggente e malinconico. Sia dal treno che in automobile, con uno sguardo puoi abbracciare tutto il golfo, vedere le colline che sovrastano il mare, qualche rara imbarcazione in rada, pescherecci o petroliere immobili all’orizzonte; gruppi di case sparsi qua e là come macchie in mezzo al verde scuro, che si infittisce, poi, verso le alture, senza più luci né anime vive. Vedi per prima la Riviera, che ti accoglie col suo bosco di pini marittimi e sull’altro lato case residenziali o villette dall’aspetto allegro e sobrio. Poi arrivi nel caos della città e assorbi la fredda bellezza dei palazzi asburgici, il neoclassico, le cupole esotiche della chiesa serbo-ortodossa e il canale in stile veneziano con le barchette ormeggiate. Una delle colline, incombente sulla città, si scopre dal colle di San Giusto e ha una ferita scavata nel fianco, lo squarcio chiaro e largo di una cava nel verde fitto. E sopra il Faro della Vittoria, vedi il Tempio mariano di monte Grisa a forma piramidale avveniristica, che pare la testimonianza di vite extraterrestri…
Questa volta sono arrivato in un giorno di nebbiolina sospesa a mezz’aria che toglie a tutto il colore e fa risaltare i rami secchi degli alberi nei viali, il grigio ormai invernale e l’umido della strada. In tarda mattinata, ho fatto una passeggiata nella parte alta: avevo voglia di lasciarmi il mare alle spalle. Qui sull’altipiano sopravvive ancora una minoranza, quella slovena, che testimonia la natura cosmopolita della città. Nelle casette pittoresche degli italosloveni vive e palpita ancora un mondo lontano, antico, che stenta ad amalgamarsi col resto. Avrei voluto bussare a uno di quegli usci di legno, entrare e scoprire il fuoco crepitante del caminetto, la tavola e le sedie consumate dagli anni, le caraffe di porcellana col vino fatto in casa, l’acqua presa alla fontana del paese; nei cortiletti, il pollaio e, vicino alla casa, la stalla…
Qui basta fare pochi passi, prendere un autobus o un tram, e si passa dal moderno all’antico, dalla città alla campagna; da una cultura a un’altra. Ho pranzato in una vecchia trattoria paesana, dove un signore in età già avanzata mi ha avvicinato, chiamandomi “il regista” (questo signore, col quale ho conversato a lungo, poteva benissimo essere un personaggio di uno dei miei film).
Rientrando in centro, prima che facesse buio, mi sono fermato sul colle di Cattinara, nella parte orientale della città. Una zona di antichi castellieri e con una bella chiesetta del Settecento, dove fra non molto, mi è stato detto, sorgerà un grande polo ospedaliero. Ho visto, infatti, mentre già scendevano le prime ombre della sera, il cantiere al centro dell’area verde: due immense sagome di cemento grigio a forma di torre. Rimarranno così, ho il sospetto, col cemento a vista, in perfetto stile “brutalista”, come già il “casermone” che stanno costruendo poco più sotto, sul colle di Melara, per ospitare gli alloggi popolari. Anche qui, come nel resto dell’Italia e del mondo, avanza il moderno, corrodendo l’anima e distruggendo la cultura e la forma.
Tuttavia, proprio qui, sul colle di Cattinara, dinanzi a quei due mostri della modernità che stanno a poco a poco prendendo vita, ho tratto materiale per il romanzo che sto scrivendo. Ho immaginato, come in una visione, il mio personaggio entrare nel cantiere vuoto. In una delle due torri grigie giungeva una luce obliqua dai buchi enormi (vuoti enormi) che diventeranno un giorno le finestre (le immagino rotonde come in tutti gli edifici moderni, degli oblò). Lui è entrato là dentro come avrei voluto fare io oggi, mentre il cantiere era fermo, abbandonato in mezzo al deserto: quel deserto verde, di erba mai tagliata, erba medica o “matta” (forse anche qualche ortica). Il mio personaggio ha dovuto calpestare quell’erba prima di entrare, le scarpe gli si sono inumidite e sporcate un po’ di terra. È passato sopra qualche vetro di bottiglia rotta (e ha visto, forse, anche una siringa con ancora la goccia di sangue sulla punta dell’ago), vicino a lattine di birra vuote e ammaccate, e mozziconi di sigaretta già molte volte calpestati (ha camminato, insomma, in mezzo ai rifiuti di tante notti rimasti sparsi nell’erba; infatti immagino che la zona del cantiere sia visitata anche di notte).
Giunto all’interno di una delle torri in costruzione, anziché avvertire che qualcosa sta nascendo, egli sente aria di rovina (il contrario di ciò che normalmente ci si aspetta in un cantiere: una demolizione). Cammina, infine, dentro la torre di cemento, sopra uno strato di polvere, come se fossero crollati gli intonaci (o stessero per crollare). A ogni modo, quello che deve sorgere (in questo caso un ospedale) ancora non c’è, non si vede. Al suo posto, il mio personaggio scopre ruderi che sanno d’antico. Macerie fatte di un materiale nobile: quello con cui si costruivano una volta le chiese, come quella del Settecento che ho visto su questo colle. Egli, tuttavia, si concentra sui buchi alle pareti che gli appaiono, nella visione, non come dei cerchi perfetti, ma come degli squarci lasciati da un’esplosione. Da questi squarci (se avessi potuto, sarei andato anch’io dentro il cantiere del nascente ospedale per vederli) entra una luce direttamente dal cielo. La luce però non è quella che ho visto io oggi sul colle, ma quella di prima mattina. Dev’essere l’alba in quel mio passo del libro. Oppure, sì, la luce del crepuscolo, ma di un giorno d’estate, quando la sera è ancora lontana e c’è qualcosa di fresco nell’aria che però, allo stesso tempo, fa paura.
Dopo questa visione, sono rientrato in albergo a scrivere…


Appena una settimana, non di più, era durata la calma nella classe di Saša. Avevano rischiato tutti (compreso il piccolo Ervin, che era scappato dall’aula senza permesso) di venire sospesi, con gravi ripercussioni sull’anno scolastico. Quando Saša aveva fatto sapere di essere stato dal preside e di avere evitato la punizione collettiva, la classe aveva tirato un sospiro di sollievo e lui si era sentito una specie di eroe. Soltanto il professore che aveva denunciato lo scherzo della bambola in presidenza, aveva masticato amaro in quei giorni…
Ma ben presto l’effetto calmante passò e ricominciarono le vessazioni a Ervin, specialmente nello spogliatoio, dopo l’ora di ginnastica. In quei momenti a Saša andava il sangue alla testa, ricordandosi della promessa fatta al preside. Era costretto a mettersi in mezzo e a difendere il suo debole compagno con energia: «Lasciatelo stare! Ervin non si tocca!», si metteva a gridare. Spesso, però, alzare la voce non era sufficiente: coraggioso, Saša si gettava allora nella mischia e frapponeva il suo corpo tra quello di Ervin e gli altri, che cercavano di agguantarlo per spingerlo sotto la doccia vestito…
Come se non bastasse, i compagni avevano cominciato a prendere in giro lui, Saša, dicendogli che era diventato il morosetto del piccolo Ervin. Non era davvero una bella situazione quella in cui era venuto a trovarsi il giovane Saša: in fondo, l’atteggiamento del preside era stato ricattatorio; e poi, pensava lo stesso Saša, fino a quando poteva durare? L’anno scolastico era iniziato da appena due mesi; per quanto tempo ce l’avrebbe fatta ad arginare gli “scherzi” dei suoi compagni contro la loro vittima preferita? Oltre a ciò, sempre di più temeva di diventare lui la vittima prescelta, prendendo il posto di Ervin.
Il piccoletto, peraltro, pur rimanendo chiuso nella sua timidezza, lo ringraziava, anche se soltanto con lo sguardo, dopo che lui era intervenuto a difenderlo. Quegli occhi pieni di riconoscenza, ma inumiditi da un principio di pianto, del ragazzino che aveva evitato per poco una violenza, da un lato lo compiacevano e gli facevano provare una punta d’orgoglio, ma dall’altro lo infastidivano; in qualche occasione avrebbe voluto egli stesso allungare un pugno o un calcio, con rabbia, contro quel suo stupido compagno che non sapeva difendersi e che lo aveva cacciato in quel brutto guaio, scaraventandolo tra l’incudine e il martello, tra la minaccia del preside e gli sfottò degli altri compagni, col rischio di diventare lui lo zimbello della classe…
Una mattina, ai primi di dicembre, il bubbone scoppiò. Durante la ricreazione, Saša si accorse troppo tardi che dalle parti del bagno femminile stava accadendo qualcosa. Mentre lui usciva da quello dei maschi, dall’altra parte del corridoio notò un assembramento e udì delle grida. “Lo stanno trascinando”, pensò. E infatti non si sbagliava. Non aveva più tempo per correre ad avvisare il bidello e in quel momento non c’era alcun insegnante a sorvegliare i ragazzi.
Attraversò il corridoio di corsa, col cuore in gola. Si fece largo tra un nugolo di ragazze che erano uscite dai servizi e si erano fermate sulla soglia a ridere. Entrò e vide i suoi compagni davanti alla porta di uno dei gabinetti: avevano chiuso dentro Ervin. Mancavano pochi minuti al suono del campanello, il riposo stava per finire; Saša avrebbe anche potuto lasciar perdere: i suoi compagni avrebbero presto liberato Ervin, si erano accontentati di umiliarlo chiudendolo in un gabinetto delle ragazze. Invece, gli prese uno scatto d’orgoglio; ormai si era convinto di aver assunto davanti a tutti il ruolo di protettore del suo compagno più debole. Aggredì subito verbalmente Thomas, messosi alla testa dei bulletti, ordinandogli di aprire la porta e di liberare Ervin. Ma il suo amico-rivale, questa volta, gli rise in faccia e fece ridere anche tutti gli altri: «È arrivato il morosetto a salvarlo!», gridò Thomas. Furono pochi attimi: passarono nella testa e nel cuore di Saša vecchi rancori mai veramente sopiti, la lotta in Val Rosandra dell’estate trascorsa, la sua brutta figura davanti alle due ragazze. Si gettò addosso a Thomas, mentre tutti gli altri si scostavano. I due corpi si avvinghiarono in una lotta, finché Saša riuscì a divincolarsi e colpì con un pugno sotto il mento il suo rivale. Thomas andò giù disteso, sbattendo la testa contro il termosifone attaccato alla parete. Tutti, intorno, lo videro ruotare le sfere degli occhi, mostrando il bianco sotto le palpebre prima di chiuderle e, spaventati, fuggirono. Il campanello, pochi istanti dopo, risuonò in tutto il piano. In pochi secondi, nel bagno rimasero soltanto Saša, Thomas disteso a terra privo di sensi vicino al calorifero e il piccolo Ervin, che nel frattempo era finalmente uscito dal gabinetto. Fu proprio il ragazzino più piccolo a parlare per primo.
«Che cos’è successo?», domandò Ervin.
«Niente, io…» rispose Saša senza riuscire a completare la frase.
«Dirò ai professori che è stato lui a cominciare…», fece ancora Ervin.
Saša si chinò su Thomas e lo chiamò più volte, ma il ragazzino non rispondeva. Un rivolo di saliva gli usciva da un angolo della bocca.
“Mio Dio, ti prego, non farlo morire…”, pensò Saša.
Una voce tuonò alle sue spalle, era quella del bidello finalmente accorso nel bagno: «Si può sapere che cavolo succede qui?».

Lorenzo in quei primi giorni di dicembre era bloccato a casa con l’influenza. Passò lunghe giornate a letto nella sua stanza. La madre, rientrando dai turni all’ospedale, da brava infermiera oltre che mamma premurosa, lo accudiva, portandogli il latte caldo, brodini e infusi per la tosse, e gli somministrava a orari fissi le giuste dosi di aspirina e antibiotico. Un pomeriggio, dopo che aveva dormito a lungo, si svegliò sfebbrato e vide la madre-infermiera seduta sulla sponda del letto, che subito lo accarezzò sulla fronte, facendogli tornare in mente immagini della sua infanzia (da piccolo, infatti, era stato piuttosto cagionevole di salute).
Dopo le carezze e i sorrisi, la madre gli disse che aveva telefonato un uomo di nome Sebastiano chiedendo di lui. Lorenzo, colto alla sprovvista, si irrigidì sotto le coperte. Sulle prime, per guadagnare tempo e studiare una risposta conveniente, finse di non conoscere alcun uomo di nome Sebastiano. La madre, tuttavia, insisté, dicendo che il signore al telefono le aveva parlato di lui come se si conoscessero bene e da tempo; a Lorenzo, forse ingannato dalla paura di essere scoperto, parve di cogliere nella voce della madre un’insinuazione. In pochi attimi, allora, pensò che fosse meglio dire, fin dove possibile, la verità, fingendo di ricordare tutto all’improvviso: ossia che Sebastiano era il custode della biblioteca della facoltà di Lettere, dove fino a qualche tempo prima lui andava a studiare e col quale parlava ogni tanto durante le pause dai libri. Probabilmente, aggiunse Lorenzo, l’uomo era preoccupato perché erano diversi giorni ormai che non lo vedeva in biblioteca. «Proprio così, era in pensiero per te – disse la madre –. E mi è sembrato anche molto simpatico», aggiunse un secondo dopo.
«Sì, è simpatico» si affrettò a confermare Lorenzo, e intanto pensava con angoscia a che cosa Sebastiano potesse averle raccontato. Lo maledisse, anche, dentro di sé, perché aveva osato telefonargli a casa, contravvenendo ai patti.
Per il resto della giornata, sebbene la madre non fosse più tornata sull’argomento, Lorenzo rimuginò sull’episodio della telefonata e gli montò su una forte rabbia nei confronti di Sebastiano. Si ripromise, non appena guarito, di andare a dirgliene quattro e di chiudere definitivamente la relazione con lui. Quando, verso sera, gli tornò qualche linea di febbre, fu invece colto da una strana malinconia e, ripensando all’accaduto, giustificò l’amico, che dopotutto si era preoccupato per lui. Ormai dentro di sé lo chiamava soltanto “amico”: l’“amore”, infatti, struggente e irraggiungibile, lo riservava a Ruggero, il cui volto non riusciva a cancellare dalla mente…

Il giorno dopo, nel pomeriggio, mentre la madre era al lavoro, squillò il telefono. Lorenzo balzò fuori dalle coperte in pigiama, tremante per il freddo, e andò nel piccolo studio, dove si trovava l’apparecchio, a rispondere, convinto che si trattasse ancora di Sebastiano. Invece, era la sua compagna di classe Cristina. La ragazza voleva informarsi sulla sua salute, visto che mancava da scuola già da cinque giorni, e fu contenta di annunciargli una buona notizia: Lorenzo aveva preso un bel nove nel tema di italiano sull’Ariosto, il voto più alto della classe, e la professoressa aveva addirittura letto il suo componimento ad alta voce, come esempio per tutti.
«Sei stato bravissimo, tutti l’hanno riconosciuto…», diceva la voce di Cristina nella cornetta.
«Grazie, grazie…» ripeteva Lorenzo, sensibilmente imbarazzato.
Improvvisamente, mentre continuava a rispondere a monosillabi a Cristina e il disco della cornetta gli scaldava l’orecchio, gli balenò per la testa un’idea: invitare la sua compagna di classe a casa per studiare insieme; così, sua madre, vedendo che frequentava una ragazza, avrebbe allontanato ogni dubbio sulla telefonata di Sebastiano. Tutto, nella mente di Lorenzo, pareva combaciare alla perfezione: ormai era pressoché guarito e la madre il giorno seguente avrebbe avuto il turno all’ospedale alla mattina, perciò sarebbe stata in casa quando lui avrebbe ricevuto la visita della compagna di classe. Per invitarla, poi, aveva la buona scusa di farsi mostrare le lezioni che aveva perso durante i giorni di assenza…
Cristina, naturalmente, fu felice di accettare l’invito e il giorno dopo, verso le quattro del pomeriggio, suonò alla porta della casa di Lorenzo. Il ragazzo era ormai in forma e pronto per rientrare a scuola l’indomani. Con la madre, preannunciandole la visita di una sua compagna di classe, era stato abilmente evasivo, in modo che fosse lei stessa a elaborare tutto mentalmente, instillandosi nella coscienza un dubbio uguale e contrario a quello provocato dalla telefonata di Sebastiano; con la speranza che poi tale dubbio diventasse sempre più simile a una certezza.
Accolse Cristina sulla porta, la fece entrare e subito la accompagnò in salotto dalla madre, presentandogliela e cercando di incoraggiare una conversazione. Non fu difficile, visti il temperamento espansivo e la spigliatezza della ragazza. Rimasero in salotto a chiacchierare, soprattutto lei con la madre, per una buona mezz’ora, prima che i due ragazzi si chiudessero insieme nella stanza di Lorenzo, con i libri di scuola e i quaderni.
«Hai una madre stupenda», disse Cristina prima di cominciare a parlare di scuola.
Lorenzo era soddisfatto, orgoglioso del suo piano, che pareva riuscito alla perfezione, e soprattutto pensava alla madre, all’effetto che doveva averle fatto Cristina, che indubbiamente, oltre a essere simpatica, era anche una bella ragazza: bionda, alta, slanciata, con un sorriso dolce e accattivante. Per la prima volta Lorenzo, mentre la sua compagna di classe aveva aperto il libro di greco per fargli vedere un nuovo brano che bisognava tradurre, la guardò in maniera diversa, si soffermò sulla linea dei seni, ben proporzionati e leggermente appuntiti sotto il tessuto della dolcevita. Si sentiva appagato in quello sguardo, anche se osservava le sue forme più o meno come si guarda una scultura o un ritratto dipinto su una tela.
Troppo a lungo rimase imbambolato a guardare i seni di Cristina: la ragazza d’un tratto se ne accorse e richiamò la sua attenzione, facendolo arrossire. A quel punto, però, finirono per guardarsi negli occhi da vicino e Lorenzo percepì che Cristina, a sua volta, era imbarazzata. La ragazza, forse proprio per uscire dall’ impasse, iniziò una conversazione e ritornò sul tema che Lorenzo aveva svolto in classe prendendo il voto più alto: «Mi è piaciuto soprattutto quando hai parlato del Viaggio di Astolfo sulla Luna…» disse a un certo punto Cristina, provocando un nuovo imbarazzo a Lorenzo, che cercava di minimizzare i suoi meriti.
«Posso farti una domanda?» disse ancora Cristina, sempre parlando del tema. Lorenzo provò un leggero brivido, ripensando all’ultima volta in cui la sua compagna di classe gli si era rivolta in quel modo (cioè prima di chiedergli se gli piacevano le ragazze).
«Certo…».
«Perché hai scritto che sulla Luna di Ariosto, dove vanno a finire tutte le cose che abbiamo perduto, possiamo ritrovare anche noi stessi e la nostra vera identità?».
«Beh, penso che per alcuni possa essere così…», rispose abbastanza prontamente Lorenzo.
«E per te è così?».
«No, io credo di sapere chi sono», rispose il ragazzo, ricordando che invece era stato proprio a sé stesso che aveva pensato scrivendo quella frase nel tema e che in realtà avrebbe voluto scrivere “identità sessuale” e non soltanto “identità”, ma non ne aveva avuto il coraggio.
«Alcune persone vivono una vita che non sentono come propria, la loro vera identità è andata perduta e forse si trova lassù, sulla Luna, insieme al senno di Orlando e a tante altre cose…» aggiunse Lorenzo, lasciandosi andare un po’.
«Ora aiutami – fece all’improvviso Cristina, come ridestandosi da un pensiero sognante –. Ho perduto anch’io una cosa, ma voglio ritrovarla qua sulla Terra».
«E… come ti posso aiutare?».
«Devi soltanto chiudere gli occhi».
Lorenzo fu attraversato da un fremito. Una piccola onda di calore gli vibrò leggera nello stomaco, quando chiuse gli occhi, e un istante dopo sentì le labbra di Cristina contro le sue. Si vide all’improvviso trasportato dentro un film o in uno dei tanti romanzi d’amore che aveva letto immaginandosi, tuttavia, nella parte della donna. Inclinò leggermente di lato la testa, dischiuse la bocca tenendo le labbra aderenti e cercò con la lingua quella di Cristina. Strinse la ragazza fra le braccia, come diverse volte Sebastiano aveva fatto con lui.

Pochi giorni dopo, Lorenzo e Cristina andarono insieme all’incontro tra Pasolini e i ragazzi dell’università, aperto al pubblico e organizzato dal collettivo di sinistra alla Casa dello studente. Era stata lei a proporglielo, conoscendo il suo interesse per il poeta e regista. Non sapeva, Cristina, che Lorenzo in primavera aveva addirittura scritto una lettera a Pasolini e che quell’incontro costituiva per lui una specie di “risposta”: come se il Poeta avesse accolto il suo auspicio e avesse perciò deciso di venire in città. Naturalmente si trattava di una pura coincidenza. Lorenzo, d’altra parte, come aveva scritto nella lettera, non avrebbe avuto il coraggio di avvicinare il Poeta e di parlargli. La proposta della ragazza, anzi, pur non riuscendo a rifiutarla, gli procurò agitazione. Temeva, assurdamente, addirittura che Pasolini lo riconoscesse là in mezzo alla folla di studenti. Per questo, non appena ...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Trieste, 1974
  3. Indice dei contenuti
  4. ​Introduzione
  5. Primavera
  6. ​La bomba
  7. ​Hollywood
  8. ​Al Giardino Pubblico
  9. ​A Sant’Andrea
  10. ​Prisencolinensinainciusol
  11. ​La vendetta
  12. ​Lungo il viale
  13. ​In una soffitta
  14. ​La vergogna
  15. ​La via più difficile
  16. ​La caduta dell’Angelo
  17. ​Sabato 27 aprile
  18. ​La bomba, appunto
  19. Estate
  20. ​L’Italicus
  21. ​Vallìcula
  22. ​Fascisti, ancora
  23. ​Il rimorso
  24. ​Sul molo
  25. ​In Val Rosandra
  26. ​Una sera “Ai 2 fiaschi”
  27. ​Un caldo pomeriggio in biblioteca
  28. ​La confessione
  29. ​I girasoli
  30. ​Coco e Brigitte
  31. Sulla Dionea
  32. ​Finalmente libero
  33. Autunno
  34. ​Il sogno del Poeta
  35. ​Uno strano ragazzo
  36. ​Per fortuna c’è il piccolo Ervin
  37. ​Il dono
  38. ​Aria di golpe
  39. ​In questura
  40. ​Ognuno ha le sue paure...
  41. ​... E le sue illusioni
  42. ​La protesta avanza
  43. ​Il fazzoletto
  44. ​Uno sciopero e un funerale
  45. ​Il Poeta in città
  46. ​Due fari nella nebbia
  47. ​Natale
  48. ​Collana Narrativa