Il posto della cenere
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Il posto della cenere

About this book

"Il posto della cenere" è un affascinante viaggio narrativo e iniziatico tra le leggende orali, la religione, la favola, l'alchimia, lo spiritismo, la numerologia, ma soprattutto all'interno della lunga sequela storica di episodi di discriminazione ed esclusione femminile dal sapere. È un inno contro l'interdizione millenaria delle donne dalla conoscenza, un canto di libertà e di consapevolezza. A introdurci al romanzo è la voce in prima persona di una donna, una scrittrice che, messa al corrente, tramite il racconto di un anfitrione a casa di amici, di una leggenda affascinante su un monastero al confine tra Italia e Francia, lungo l'antica Via del Sale, decide di giungere nel luogo del racconto, oramai divenuto residenza di scrittori. Da questo punto si dipana una storia intrigante, intensa, tutta al femminile.

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Information

Primo racconto della sera, o della rabbia
Ricordate quando sono andata via per qualche giorno?
Per almeno tre, quattro volte, nei giorni precedenti feci e disfeci la valigia mezza sgangherata con cui ero arrivata tanto tempo prima. Una storia dolorosa del passato si stava di nuovo impossessando di me e io non volevo eppure poi cedevo alla possibilità che qualcosa fosse cambiato o che io, negli anni, avessi capito male. Avevo bisogno di verità e quella era forse l’unica occasione che mi si sarebbe presentata. Ricordi, Brigida? Mi chiedesti se volevo la tua valigia meno distrutta della mia. Ricordi? Mi volevi aiutare perché credevi alla storiella che avevo imbastito per voi tutte.
Avevo ricevuto una telefonata da mia sorella, ecco come stavano veramente le cose.
«Sono molto malata, vieni subito», mi aveva sussurrato dandomi quasi un ordine, come se ci fossimo sentite il giorno prima.
Vi vedo sussultare e a ragione: io non sono sola al mondo come vi ho sempre raccontato, ho una sorella di cui vi ho taciuto. Concetta ne era a conoscenza, anzi io sono arrivata qui in un certo senso proprio per mia sorella. Al mio arrivo ero molto provata perciò Concetta pensò che sarebbe stato meglio tacere sulle mie vicende dolorose perché ne avrei guadagnato in serenità. Ma non è stato così.
Stavo davanti al portone pronta per la partenza. Voi vi tenevate un passo indietro, un po’ sbigottite: dove me ne andavo così d’improvviso, proprio io che dal Monastero non ero mai voluta uscire? Oh, certo, vi avevo raccontato una storiella – la gamba era ritornata a dolermi, la mia zoppia cronica dovuta a un incidente da bambina, la necessità d’un controllo da un buon ortopedico – e voi sembravate averci creduto ma adesso, davanti al portone, eravate sgomente: “Dove va questa?”.
Sollevai la vecchia valigia. Feci un gesto vago con la mano verso di voi, «Ci vediamo», e andai. Perché dovevo andare, anche se la storia mi avrebbe travolto, io dovevo andare e guardare in faccia la verità. Dovevo soprattutto spezzare la rabbia, la vita mi doveva qualcosa e questo era il momento.
Con mia sorella Paolina non ci incontravamo da vent’anni e proprio questa sua assenza, da me non voluta ma da lei imposta, aveva costruito dentro di me un’ossessione. Così è, se una persona cara sparisce nel nulla, senza giustificazioni, senza una parola, senza spiegazione, non si riesce a elaborare il lutto dell’assenza ma si macinano tutte le narrazioni possibili, tutte senza risposta. E così era per me. Notte e giorno l’idea fissa di capire il motivo di quel vuoto tanto dolorosa mi perseguitava. Io sapevo che mia sorella era in vita da qualche parte nel mondo ma non potevo entrare in contatto con lei, perciò la sua assurda muta assenza era un chiodo piantato da cui non mi riuscivo a liberare generando in me una rabbia sorda, un male oscuro che tracimava e mi divorava.
Poi, invece, Paolina, Lina, come l’abbiamo sempre chiamata in famiglia e come la chiamerò adesso qui con voi, d’improvviso si era fatta viva come se nulla fosse, senza tenere in nessun conto una mia possibile reazione a una sua telefonata. Sono malata, mi aveva comunicato al telefono come se ci fossimo sentite il giorno prima. Nessuna emozione, nessun cedimento, niente. Ascoltavo la sua voce e non riuscivo a spiccicare una parola. Lei aveva aggiunto: «Sono rimasta vedova.»
Ero di sale. Lina esisteva ancora? Davvero era finito così d’improvviso senza un discorso quel vuoto terribile che aveva accompagnato vent’anni della mia esistenza? Sentivo salire dentro di me la rabbia, no, non era possibile così, io meritavo un riscatto, io meritavo una parola di conforto per quello che avevo passato.
«Lina è sparita nel nulla, plagiata da un uomo che, a poco a poco, l’ha isolata dal mondo.» Mio padre rispondeva sempre così a chi gli chiedeva «Lina come sta?» E, in effetti, era andata via di casa appena compiuti i ventun anni e presto, senza avvisarci, si era sposata allontanandosi sempre di più, fino a sparire.
Noi, io, mia madre e mio padre, la pensavamo plagiata dal marito, mai lei, di sua volontà, avrebbe voluto perderci, perché noi ne eravamo certi, lei ci amava, era il marito a imporle l’allontanamento da noi. Così al dolore della sua perdita si aggiungeva il dolore di saperla sola e chissà quanto dispiaciuta per non poterci più vedere.
Furono giorni, poi stagioni. Un continuo oscillare di sentimenti e di speranze, oggi è il giorno giusto in cui si farà sentire, un merlo che becchetta sulla finestra è un segno, un incontro con una sua amica, piccoli segni magici a cui ci affidavamo perché la speranza non muore mai, sembra banale dirlo ma è proprio così, la speranza di ritrovare, abbracciare, sentire l’odore della pelle, la voce, il muoversi nello spazio di una persona scomparsa nel nulla, non muore mai.
Si arrivò a un anno di assenza. Allora i nostri genitori la cercarono con ostinazione. Come si può infatti cancellare una figlia? È impossibile. Si fecero forza: dovevano andare sotto casa sua e bussare al portone, Lina si sarebbe commossa, avrebbe capito la forza dell’amore dei suoi genitori e sarebbe scesa in fretta ad abbracciarli. Tutto sarebbe finito, un brutto ricordo presto cancellato.
Andammo, io li accompagnai e lei si affacciò al balcone.
Fu un colpo, «Lina, Lina cara» gridavano i miei genitori dal basso, lì per strada, con la gente che guardava curiosa quei due poveri vecchi alzare le braccia, gesticolare mentre una giovane donna altezzosa da un balcone faceva dei gesti con le mani, come per dire «Allontanatevi, allontanatevi». Poi Lina si sporse un attimo, sembrava quasi cadere o volare verso di noi, ma invece si girò di scattò e sparì dentro la casa gridando «Lasciatemi in pace! Dimenticatemi!»
Con un rumore sordo chiuse la finestra, un rumore che non ha mai smesso di perseguitarmi perché Lina è in quel rumore, in quel chiudere per sempre.
Durante tutta la lunga scena io ero rimasta un po’ da parte, vergognandomi per i miei genitori costretti a quell’estrema umiliazione. La rabbia mi montava. Come si permetteva di torturarci ancora così? Se non le importava niente della vita dei suoi genitori perché anche a me infliggeva quella tortura? Non lo capiva che tutto il peso di quel dolore cadeva sulle mie spalle? Avevo solo venticinque anni e desideravo solo una cosa, vivere! Invece, per colpa sua, la mia esistenza era spezzata.
Tornammo a casa, i miei camminavano con piccoli e inutili passi, in quella mezz’ora sotto quel maledetto balcone, si erano trasformati in due vecchi senza energia, senza desideri e a me rimaneva il compito di accudirli fino alla morte. La mia vita era senza senso, prigioniera di un destino non mio. Ero furiosa.
Riprendemmo a parlare di lei sempre più ossessionati. Supposizioni e supposizioni, solo supposizioni. Perché aveva chiuso la finestra in quel modo? Perché aveva gridato in quel modo? Di certo da dentro casa qualcuno la controllava. I miei non erano in grado di riconoscere la crudeltà della figlia. E come si potrebbe? Piuttosto era colpa di qualcun altro. Lina stava per scendere, era evidente. Non avevamo visto come si era sporta sul balcone? Stavo zitta, io ne ero certa, la scelta era di Lina ma non potevo mettermi contro il dolore dei miei, io dovevo solo accudirli.
Riuscimmo a raccogliere qui e là qualche informazione intorno alla famiglia di lui. Un tacere generale circondava quella gente, il cognato di mia sorella era proprio un gangster, un mafiosazzo si direbbe dalle nostre parti.
«Ah, ecco perché!», si dissero mio padre e mia madre, io perlopiù stavo zitta. «Lina è prigioniera.»
E questa idea in qualche modo li consolò, bisognava trovare il modo di liberarla e Lina, ne erano certi, non aspettava altro.
La perdemmo.
Passarono così ancora parecchi anni.
Il dolore mi riempiva di rabbia e la mia vita si consumava nell’ossessione di quella assenza non giustificata e di come questa avesse infilato la mia giovane vita in un destino non voluto. Meritavo altro, lei invece si era presa la mia vita. Se Lina fosse venuta da noi a spiegarsi, sono certa che le cose si sarebbero messe altrimenti però quel silenzio era davvero insopportabile.
Ogni giorno ci immaginavamo uno scenario diverso, non avevamo appigli, non sapevamo niente. Optammo tutti e tre, senza dircelo, per la soluzione che ci faceva meno soffrire: Lina era una vittima da salvare, non aveva colpe.
I miei genitori si avviarono verso la morte. A volte li sentivo sussurrare «È colpa nostra, siamo stati dei pessimi genitori, siamo dei mostri», altre volte invece erano pieni di rabbia e si scagliavano contro il marito di Lina, altre volte sembravano avvicinarsi alla verità: un’assenza voluta dalla figlia ma questa verità era insopportabile. Come si fa a pensare che una figlia non ti vuole bene? Presto morirono, prima mia madre e, alcuni giorni dopo, mio padre, ponendo così fine alle loro sofferenze.
In tutti quegli anni io ero stata accanto a loro cercando di colmare con il mio affetto il loro dolore e così la mia vita era solo quell’assenza, non esistevo più come persona, non potevo avere miei desideri, non potevo innamorarmi e lasciare quella casa, io ero l’assenza, il mio compito e dovere di figlia era mettere insieme i cocci rotti da mia sorella. Lei! Se ne era andata senza una parola voltando le spalle al dolore che aveva creato. Ero furiosa. Rigettavo il mio destino. Meritavo altro.
Rimasi sola. Ora non avevo più i miei genitori da accudire, era il momento di mandare al diavolo mia sorella. Che si consumasse da sola nelle sue scelte balorde! Io non ero sua madre e avevo tutti i diritti di dimenticarla, come sembrava d’altronde che lei avesse fatto con me, e di vivere la mia vita, quella sognata, quella libera, senza ossessioni. Non considerai il fatto che in quegli anni, un decennio, io ero diventata una persona del tutto incapace di stare in mezzo agli altri e cosa peggiore non avevo più desideri, non sapevo insomma cosa fare di questa libertà in cui adesso mi trovavo. Tutto questo accrebbe di nuovo la mia rabbia e la mia voglia di riscatto: la vita mi doveva tutto e io non sapevo come fare. Qualcuno, tra i pochi amici rimasti dei miei genitori, mi parlò di Concetta come di una donna un po’ speciale in cerca di persone da assumere per svolgere un compito molto particolare che richiedeva dedizione assoluta e l’isolamento in un monastero. Era l’occasione di ritirarsi dal mondo, prendere del tempo per me, riflettere in giornate sempre eguali, un tempo scandito in una forma monotona e perpetua, una regola da seguire. Sedare, vivere in uno spazio limitato, intraprendere un cammino che mi liberasse dalle costrizioni generate da quell’assenza innominabile, perciò mi presentai a lei.
Concetta mi ascoltò e mi aprì il portone del Monastero. Finalmente stavo facendo qualcosa per me stessa, non c’erano più lacci a impedirmi di andare avanti nella mia vita, avrei ritrovato la serenità e la gioia e poi sarei ritornata tra la gente. Non fu così, i pensieri ossessivi non mi lasciarono. La vita mi doveva, Lina mi aveva strappato dieci anni di vita, ero furiosa, arrabbiata, sbandavo, cercavo risposte e non le trovavo. Non potevo trovare pace, agivo, lavoravo, ridevo e scherzavo ma poi d’improvviso tutto tornava a galla, la morte dei miei così crudele senza averla rivista, il loro e il mio dolore, insopportabile.
La ricetta per curare la bile nera, ci siamo dette eh, Manuela? Senza approfondire. Una ricetta per aiutare il mio organismo a disintossicarsi dal passato che si condensava in grumi: succo di sambuco, rosmarino, fiori di borragine e anche...

Table of contents

  1. Il posto della cenere
  2. prima parte
  3. Il Monastero, l’arrivo
  4. Una storia
  5. Sale
  6. I frati e alcuni dubbi
  7. Una vita semplice
  8. E le altre?
  9. Un difficile sentiero
  10. Mi alzo di buon mattino
  11. Giornata al Monastero
  12. Alba
  13. Ancora mattina
  14. La notizia
  15. Chiamata dalla luna
  16. Furta sacra
  17. La rivelazione
  18. La leggenda
  19. JJ
  20. Seconda parte
  21. Noi
  22. Ieri
  23. Incantamento
  24. Primo racconto di Sofia: Luigi o della mineralizzazione
  25. Il Compito
  26. Ombre
  27. Dolcetti
  28. Primo racconto della sera, o della rabbia
  29. Precisione
  30. Il secondo racconto di Sofia: Rosalia la bambina pellegrina
  31. Tentativo di selezione del brandea
  32. Decisione
  33. Manuela
  34. Secondo racconto della sera o della malattia
  35. La scelta
  36. Terzo racconto di Sofia: Chiara
  37. Un racconto che è leggenda
  38. Il posto della cenere
  39. Questo non è un addio
  40. Terza parte
  41. Il racconto del poeta
  42. Luna
  43. Di cosa parlano nel corridoio?
  44. La ricerca
  45. Stampa
  46. Nero
  47. Questo non è un addio
  48. Epilogo
  49. Fine