Le Strade
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Pubblicato nel 1965, Le strade in Spagna vinse il premio Eugenio D'Ors per il romanzo breve a tema sociale. Dostoevskij, Kafka e Camus sono lo sfondo letterario di questo testo urbano in cui un giovane arriva a Madrid subito dopo la guerra, affrontando le difficoltà, le sofferenze e le umiliazioni che gravavano su una popolazione ancora soggiogata dal potere e rassegnata alla povertà. In un panorama ostile trovano tuttavia spazio la solidarietà e la ribellione, quella sorta di "etica della povertà" che costituisce uno dei temi più profondi dell'intera opera di Félix Grande, ed è in tale contesto che la sua scrittura diventa una forma di rappresaglia, una vendetta contro la struttura piramidale del potere, rappresentato dai vicari di un'autorità indefinita, che associamo immediatamente, tuttavia, al regime totalitario di Francisco Franco. Nell'inquietante atmosfera dell'ufficio in cui lavora, il protagonista, povero abitante della metropoli che cerca un amico nelle strade di Madrid, proverà inutilmente a stabilire legami affettivi. Questo breve romanzo descrive con sobrietà ed esattezza la paura che attanagliava uomini e donne delle classi medie di fronte al regime e alla morale dominanti, insieme a un moto di ribellione, un'insubordinazione forse più privata che pubblica, che trova in queste pagine un perfetto equilibrio tra esistenzialismo e testimonianza onesta e intransigente di un'epoca che la Spagna avrebbe tardato ancora vent'anni a lasciarsi alle spalle.

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1

A quei tempi, quaranta pesetas davano diritto a cinque pacchetti di sigarette “Bisonte” o a due biglietti per un cinema di seconda visione. Era una cifra insufficiente per un pasto in un ristorante di secondo livello. Una bottiglietta di birra da un terzo di litro, al banco, costava cinque pesetas. Per dieci o quindici pesetas si poteva dormire in una stanza con due o tre letti, ma era un prezzo che si poteva trovare solo andando a cercare una pensione in periferia, o in una delle strade più buie del centro, in una di quelle vecchie case che resistono ancora, con difficoltà, dal secolo scorso. Un impiegato con mansioni di aiuto in amministrazione non poteva pagarsi una camera con un po’ di luce; per lui, dormire era un’attività la cui meccanica somigliava a quella di una visita al bordello: pagare, soddisfare rapidamente un bisogno, e sparire; non ne derivava la minima tenerezza, neppure l’ombra di quell’affetto per una camera che si manifesta appendendo delle locandine o, semplicemente, vivendoci: si trattava di dormire, nient’altro, e poi andarsene. Si può dire che in quel periodo, nel quale dovetti vendere la mia vita per otto ore al giorno in cambio di quaranta pesetas, la sfortuna e la delusione furono un’assidua compagnia.
Oggi ho l’abitudine di dire ai miei amici che amo questa città. Ancora non so se è la città in cui voglio morire, ma è fuor di dubbio che l’amo. A volte, quando esco dall’ufficio, passo qualche ora camminando per le strade del centro, nei boulevards più interni, o nei viali freschi e alberati della Città Universitaria e, preso da un sentimento di gratitudine, un miscuglio di ozio, libertà e quel benessere fisico propiziato dal tono accattivante del pomeriggio, sento che mi ci vorrebbe molto tempo per fare a meno di queste strade, di questa città che conosco così bene e che ormai per me è come una complice delle mie solitarie passeggiate. Spesso vado a passare un’oretta in qualche stazione ferroviaria. Per le tre pesetas che costa il biglietto d’accesso alla banchina si può assistere a un bello spettacolo, un’autentica estemporanea rappresentazione messa in scena dalla cittadinanza. Vedo treni che partono e arrivano, con i locomotori che emettono quel suono famoso che a volte ci sembra il suono della libertà. Gente di ogni età che riceve o saluta le persone amate. Qua e là, dei viaggiatori solitari. Facce, facce di ogni genere, storie di ogni genere, ogni genere di paure, ogni genere di effetti dell’avventura della vita, su quelle facce molteplici, eterogenee, unite per un solo istante dal collante di una stazione. Gente che ha fretta, gente che ha sonno. Teste dietro ai vetri di uno scompartimento, come emozioni incorniciate. Famiglie che discutono animatamente passando veloci davanti ai chioschi dei giornali. Corse, grida, spintoni, e qualche curioso che viene di lontano, come me, e rallenta involontariamente la corsa dei facchini, o la fretta di qualche familiare che troppo a lungo si è emozionato. In nessun altro luogo come qui, alla stazione, puoi vedere il senso ebbro, disperato e felice degli abbracci fra esseri umani. Venditori che offrono cuscini, coppie che trascinano una valigia, ragazze in pantaloni attillati e camicie frivole con i volti animati dalla patina del viaggio…
Esco dalla stazione pensando che la città è come una madre enorme che assiste tranquilla e indifferente alla fretta della gente, all’attività congestionata, alla formazione del destino. E allora sento per questa città un insieme di gratitudine, desiderio e insicurezza che mi spinge ancora a percorrere le sue strade, come se le baciassi un braccio (per dirle che mi è mancata). Poche sigarette sono così rilassanti come quelle che in questi momenti ho la fortuna di spargere nei miei bronchi.
Ma ai miei amici voglio dire qualcos’altro. Non soltanto amo questa città. Ricordo anche l’astio che mi ha suscitato. Astio e spavento. Devo dire che adesso amo questa città perché sono capace di amarla. Ma quando non ne ero in grado l’ho odiata, totalmente e laboriosamente. Perché, così come è vero che al di sotto di una certa quantità di calorie anche l’anima si sente messa in questione, è altrettanto vero che un essere disperato non può amare la città in cui si trova a vivere, e nemmeno qualunque altra città del mondo, e neppure i suoi simili. Per chi ha fame, per chi è frustrato, l’amore è una contraddizione, un paradosso, un sarcasmo. Non c’è niente da fare: l’amore è dare, così come la libertà è farne uso. E un giovane affamato non può dare, perché la fame non si può spartire. E un adolescente che si sente frustrato non può amare, perché la frustrazione non produce generosità ma rancore, paura, silenzio. È vero che nella disgrazia può nascere un legame ferreo, ma a condizione che la disgrazia sia uguale per tutti e due, e tutti e due siano pronti a combatterla. Ma le avversità che derivano dal modo di essere di una società che non conosce misericordia sono avversità individuali, che ti isolano; quelli che la società espelle come il tappo di una bottiglia di spumante o che seppellisce come un insetto sotto la scarpa arrivano, per così dire, nella più organizzata delle galere: un carcere al cui funzionamento collabora persino il cervello torturato del prigioniero. Quel carcere è la solitudine.
Se non si contano la vecchiaia solitaria e l’imminenza della morte, credo che per un uomo non esista solitudine paragonabile a quella di chi deve riflettere per qualche minuto in un ristorante prima di ordinare un alimento che gli è necessario, perché non ha di che pagarlo. Chi non mangia tre volte al giorno di amici ne ha pochi, e se quei pochi sono squattrinati come lui in che cosa consisterà l’amicizia, da dove deriverà? Non si può prestare un libro che non si ha, non ci si può imbarcare in un progetto che non si può finanziare. È difficile che due amici non si siedano a un tavolino di caffè a chiacchierare dei casi loro, e quando non lo fanno perché non hanno di che pagare la consumazione, niente è più facile e coerente che separarsi e tornare ciascuno nella tana dove mastica la sua impotenza. La povertà ci rende scontrosi. Quando vengo a sapere che marito e moglie vengono alle mani, la prima cosa che mi chiedo è se sono in ristrettezze. So che c’è gente denutrita che si suicida. Senza contare i furti, i delitti. Chiedere a chi è in miseria di star sereno è come frustarlo in faccia. Pretendere che rifletta e si comporti come se fosse sano e ben alimentato è un doppio insulto. Chiedergli di dormire bene, di non perdersi d’animo, di respingere la tristezza e guardare alla vita come un’emozionante avventura, è come condannare un innocente e poi invitarlo a mettere in atto lui stesso la sua condanna.
Tutto questo l’ho imparato allora, quando guadagnavo meno di milleduecento pesetas al mese. Ho imparato che la cosa peggiore dell’impotenza sociale è l’anonimato che la circonda, la clandestinità che impone a se stessa, la solitudine che la immobilizza, la tristezza che, incredibilmente, la trasforma in una concezione dell’esistenza. La città era la stessa, ma le proteine che mi mancavano, le donne e gli amici che non potevo avere, insomma: quei vuoti, erano come una gengiva senza denti e trasformavano questa stupenda città in un labirinto allucinante o in una foresta enorme e vuota, o in una landa interminabile. Io la chiamavo ma lei non si voltava.
Quel che voglio dire è che per molti esseri umani l’esperienza non è soltanto, come si suol dire, la somma dei propri errori, ma anche lo strascico di vecchiaia e la dose di astuzia che l’ingiustizia accumula in una vita. In genere, c’è un solo modo per passare in fretta dalla miseria al benessere: ed è a base di menzogne. In genere, la decenza è poco produttiva, lo sanno tutti. Un pacco di proteine animali, per così dire, è troppo pesante per le deboli forze di un uomo perbene. Oppure, un uomo perbene riesce a trasportare il pacco dopo aver percorso una lunga strada di lavoro e subordinazione: cioè quando è vecchio, quando la vecchiaia è arrivata dal futuro fino a lui e ha trasformato la sua giovinezza in un blocco di rabbia e dolore. Conosco molti uomini che vivono con le loro famiglie e non mancano del necessario, ma la maggior parte di loro ha un volto inacidito, un’ulcera gastrica di origine nervosa o qualche altra malattia cronica. Sono i desideri insoddisfatti che a suo tempo hanno dovuto masticare come una cicca americana aspra e velenosa. Quando un funzionario si ubriaca al sabato ci sarebbe da chiedergli di raccontare i suoi ricordi. Quando un uomo o una donna prende a schiaffi un figlio piccolo bisognerebbe sapere dov’era e come stava quando aveva vent’anni. Tutto questo è psicanalisi o sociologia grossolana, in ogni caso un metodo davvero precario e, senza dubbio, un materiale piuttosto grezzo per abbordare il racconto di una desolazione. Ma quando una notte, nella pensione, vidi nel letto di fianco al mio un uomo di quarant’anni, scapolo, dipendente di una fabbrica di mattoni, che sognava e piangeva, andai vicino a capire le motivazioni della pazzia. Forse le avrei capite meglio se avessi osservato più a lungo quel poveraccio. Ma ebbi paura e vergogna, e voltai la testa. È per via di fatti come quello che sono diventato un uomo che ha la necessità di scrivere. Sì, può darsi che paura e vergogna siano materie prime buone per costruire uno scrittore. Mi emozionano anche la fatalità della morte e l’oggettiva bellezza della natura, una bellezza che a volte diventa sinistra, tanto è impavida e libera, tanto è incredibile e infinito il suo silenzio. Ma alla lunga queste due motivazioni, che si potrebbero anche definire metafisiche, e la contraddizione che contengono, fino a che punto non hanno rapporto col mio vissuto? Fino a che punto, almeno in un certo modo, non sono il risultato del modo in cui la società mi ha lasciato vivere, o mi ci ha obbligato? Certo, la vita mi ha anche reso scrittore, e in modo decisivo. Se non altro, certi aspetti della mia vita non potevano sfociare altro che nel suicidio o nell’arte. Due soluzioni più omogenee di quanto si creda, o si dica. Di solito si sceglie l’arte perché per il suicidio ci si considera fuori tempo massimo, e così l’insoddisfazione aumenta e combatte disperatamente per aprire un’altra breccia nel muro. Di solito l’artista proviene da qui, dalle macerie di quel muro in rovina.
Ho cominciato parlando di quel periodo perché fu allora che il suicidio mi venne vicino, eccitante e inesorabile. Mi accompagnava quando, dopo una notte insonne, camminavo per la Casa de Campo e guardavo l’alba avviarsi a diventare un altro giorno di miseria e insignificanza. Logorato dalla mancanza di sonno, due ore prima di iniziare la mia giornata lavorativa, camminavo tra gli alberi, respiravo l’aria resa salubre dalla vegetazione e sentivo una profonda compassione per me stesso, e non me ne vergognavo, così come non me ne vergogno neanche adesso. So che quell’autocompassione era pericolosa; probabilmente, nel vocabolario del suicidio era la più persuasiva. Già allora temevo che quell’autocompassione fosse pericolosa per un altro motivo: se mi suicidavo mettevo fine ai miei problemi, e basta. Ma se non cedevo a quella dolce e ostinata persuasione, se sopravvivevo, forse a quella voce non avrei potuto sottrarmi mai più, e ciò che avrei scritto ne sarebbe stato inzuppato fin dall’origine. In altre parole: temevo che la mia letteratura potesse essere negativa, se non si fosse liberata della sua origine tenebrosa. Ma è impossibile staccarsi dall’origine di una decisione, e quello strappo è qualcosa con cui devo ancora fare i conti, se non voglio passare da ingenuo. A quei tempi sono riuscito a sopravvivere e trattenermi dal suicidio, ma non ho potuto sciogliere il dolore, il panico, l’angoscia. Ora risalgo a un aspetto della mia adolescenza, forse nell’illusione di gettar luce sulla mia angoscia, che tanto somiglia a quella di molti altri. Forse voglio anche giustificarmi per la mia esibita disperazione.

2

Poche parole a proposito di quell’ufficio. La prima cosa che mi torna in mente quando me lo ricordo è questa: a parte il capo, che era proprietario dell’azienda, tutti quanti eravamo o vivevamo come dei falliti. Era una fallita la signorina Eloisa, la cassiera: una donna sui quarant’anni, nubile, ancora carina, ma incapace di dare un senso alla sua bellezza. Aveva uno stipendio uguale al mio, che aumentava di poche centinaia di pesetas al mese per via di alcuni scatti di anzianità. Viveva sola. Forse, visto che un marito non l’aveva – e probabilmente non l’aveva perché la sua lunga esperienza di miseria economica l’aveva resa sfuggente e sospettosa – un amante avrebbe messo nella sua vita un po’ di calore. Ma a questo riguardo Eloisa si comportava in modo coerente; voglio dire che le preoccupazioni economiche l’avevano completam...

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