1.
Siamo a Porta Venezia, uno dei quartieri più eleganti di Milano. In una bella casa al terzo piano. È mezzanotte, a una a una le luci si spengono, rimangono accese solo due stanze. I bambini dormono da un pezzo. Gabriele nel suo studiolo sta riordinando le carte dell’inchiesta sulla strage del Moby Prince. Marcella si è attardata in cucina, poi si è buttata sul divano a guardare l’ultimo telegiornale della notte, il primo, che riesca a seguire in pace.
«Archiviata l’inchiesta su Andrea Sempio. Il giudice non ha ritenuto di dover procedere all’esposto della madre di Alberto Stasi, il giovane condannato definitivamente…».
Gabriele Bardazza si alza dalla scrivania e si sposta nella stanza da dove proviene la voce della televisione.
«… ha rigettato la tesi secondo cui, sotto le unghie della vittima, si sarebbe trovato del Dna appartenente a un amico del fratello della vittima».
La moglie si volta a guardarlo con aria stanca. Immagina i suoi pensieri. Gabriele scuote la testa, come a dirle: niente. Va a prendersi una sigaretta e poi si sposta sul balconcino, avendo cura di richiudere dietro di sé la porta finestra, mentre la moglie si stringe nel maglione.
Gabriele non fuma quasi mai, solo nei suoi soggiorni in Africa, forse perché ha imparato a fumare lì da ragazzo, e ogni volta che ci torna tutto un clima e un’atmosfera gli ripropongono la voglia. Ma ora si accende questa sigaretta. Quasi non sente l’aria pungente della notte. Marzo, 2017.
Quando Gabriele tre mesi fa ha visto in televisione gli avvocati dello studio Giarda comunicare in una conferenza stampa la scoperta di questo Dna, ha commentato: «Bene, era ora che cominciasse a saltar fuori qualcosa!»
Ma un attimo dopo aveva già cominciato a smadonnare: merda però, a che serviva declamare «noi crediamo nell’innocenza del nostro cliente» o rimarcare «noi abbiamo sempre sostenuto…»? A una ceppa! Oltretutto gli sembrava che lui, lo scuro Fabio Giarda, avesse una fisionomia piuttosto inquietante. E lei, la giovanissima Giada Bocellari, un’espressione così tesa e dura da riuscire sgradevole. Con queste facce, aveva pensato, anche voi non andate troppo lontano.
Ora spegne nervosamente la sigaretta mentre è ancora a metà, il freddo gli si sta infilando nelle ossa e lo costringe a rientrare. Marcella è andata a letto. Lui torna nel suo studio, spinge da una parte le carte del Moby Prince, riapre il computer. Comincia a spulciarsi tutte le notizie che riguardano il “caso Sempio”. Dall’inizio.
«Seduti intorno a un tavolo con gli avvocati in una location sciatta, i cronisti hanno accolto con scetticismo e punte di malcelata derisione le rivelazioni del collegio di Stasi. Solo il tempo dirà se da questo teaser si svilupperà una sequenza narrativa significativa, capace di ribaltare la verità giuridica e mediatica sul caso Poggi con un protagonista in grado di offuscare Stasi […]»: così una cronista, impacchettando in un tutt’uno «la verità giuridica e mediatica», aveva raccontato quella conferenza stampa. La sua era la ricostruzione lucida e disincantata di chi conosce molto bene dall’interno certi meccanismi della “nera”, anche cinici e bari, ma imbattibili nel vendere copie. Queste luci su un commesso di telefonia di Montebello facevano fatica ad accendersi, non scaldavano. Tutta questa capacità di rottura comunicativa, rispetto all’abbondanza di narrazione che aleggiava ancora intorno a Stasi, il bocconiano dagli occhi di ghiaccio, non esisteva. Non c’era gara.
E Gabriele questo l’ha già capito.
Ma rimane di stucco nell’ascoltare le parole della madre della vittima:
«Per una volta potevamo passare un Natale tranquillo e invece non ci è consentito neanche quest’anno! Sono amareggiata, molto amareggiata, non voglio parlare di cose investigative, perché c’è una sentenza definitiva di condanna, per noi vale sempre e solo quella»: così aveva reagito alla notizia della compatibilità del Dna trovato sotto le unghie delle dita di sua figlia con il Dna di un caro amico di suo figlio Marco.
Forse Rita Poggi non ne vuole più sentir parlare, del delitto di sua figlia. All’indomani della ratifica definitiva della condanna in Cassazione, era apparsa felice, emozionata, commossa:
«L’ho detto tante volte alla Chiara che doveva aiutarsi da sola. Finalmente il suo aiuto è arrivato. Finalmente l’hanno ascoltata».
E ora che finalmente Chiara ha indirizzato i giudici, basta.
Ora vuole ricominciare, come dice lei, «a vivere una vita normale, per quanto normale possa essere questa nostra vita», anche per aiutare suo figlio Marco, «che allora aveva solo diciannove anni», e bene non sta.
Forse lei non vuole sapere. Non vuole allargare. Non vuole approfondire. Non vuole vedere.
Sente il dovere di sopravvivere.
Continua a spulciare nel web, Gabriele.
«Sottolineiamo la totale infondatezza di qualsivoglia ipotesi volta a prospettare responsabilità di terzi nell’omicidio di Chiara Poggi, il cui unico autore è già stato condannato da una sentenza irrevocabile emessa in nome del popolo italiano», aveva dichiarato, all’annuncio del ritrovamento di quel Dna, l’avvocato dei Poggi. Che aveva aggiunto: «La condanna irrevocabile di Stasi non è certo dipesa da valutazioni inerenti il citato Dna, bensì da sette diversi elementi di prova che risultano integrarsi perfettamente come tessere di un mosaico che hanno contribuito a creare un quadro d’insieme convergente verso la colpevolezza di Alberto Stasi, oltre ogni ragionevole dubbio».
Trova anche le parole con cui, tramite di lui, i genitori di Chiara oggi commentano l’archiviazione:
«Accuse rivolte a un innocente nell’esclusivo interesse del condannato, l’augurio è che tutto questo non abbia più a ripetersi… L’esito di questa inchiesta conferma ancora una volta la sicura responsabilità di Stasi al di là di ogni ragionevole dubbio».
Capisce che è la blindatura della condanna di Alberto Stasi.
Continua così a navigare in rete per ore, sbattuto fra flutti di notizie e di dichiarazioni: «Il Dna non è di Stasi? Traccia inutile. Io non credo assolutamente si tratti di una svolta perché quel Dna è stato esaminato nel corso del secondo giudizio d’appello e la perizia concludeva con una presenza di Dna attribuibile a un uomo che non è possibile identificare. Ora nessuna nuova verità processuale può arrivare, non si può andare oltre i limiti di quel risultato e la prova di cui si parla oggi non è sufficiente a riaprire alcunché». Così in un’intervista aveva dichiarato Luciano Garofano, comandante del Ris di Parma.
A questo punto è davvero stufo, Gabriele. E poi la stanchezza avanza e ha la meglio. Si decide a spegnere il computer, va a infilarsi nel letto e a stringersi a Marcella ma ormai è tardissimo, anzi, è già quasi un’ora all’alba. Dorme male. Dorme un sonno breve, agitato e rabbioso.
Ma quando si alza per portare alla solita ora i bambini a scuola, ha preso una decisione. Nella tarda mattinata telefona allo studio Giarda:
«Sono Gabriele Bardazza, dello studio Bardazza Adinolfi. Sono stato consulente della Procura nell’appello bis contro Alberto Stasi. Vorrei parlare con chi di voi si è occupato di questo cliente».
Gli passano Fabio. Fabio gli passa Giada. Lui si presenta di nuovo.
«Vorrei parlare con voi della condanna al vostro assistito» spiega.
Ma Giada taglia corto:
«Ora sono impegnata, semmai parliamo più tardi».
Gli dice di richiamarla nel tardo pomeriggio e poi, nel tardo pomeriggio, che deve richiamarla il giorno dopo. Va avanti così per giorni. E poi per settimane. Gli dà appuntamenti e poi glieli rimanda.
Acida, un’acidona, s’è visto benissimo anche in tivù che è una bella acidona, conclude Gabriele.
Non può sapere che Giada appena poche settimane prima era pronta a veder ribaltato il mondo, convinta che cominciasse a splendere alta su tutti la Verità, quella dell’innocenza di Alberto. E che la brusca archiviazione dell’esposto di Elisabetta Stasi, senza il tentativo di chiedere una perizia dirimente a un terzo genetista, né dare un occhio agli altri indizi presentati, e tanto meno prendere le impronte di Andrea Sempio per un confronto con le impronte dichiarate “non attribuibili” sul luogo del delitto, è stato l’inizio di una bella paranoia per...