Somiglianze
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Somiglianze

Una via per la convivenza

Francesco Remotti

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Somiglianze

Una via per la convivenza

Francesco Remotti

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Obiettivo del nostro tempo può essere una mera coesistenza? Se la risposta è no, se pensiamo non soltanto di coabitare gli uni accanto agli altri con il rischio di scivolare dall'indifferenza al respingimento (e oltre), se riteniamo essenziale coinvolgerci in progetti di vita condivisi, occorre che gli altri non siano soltanto 'altri', ma che noi e loro siamo – e ci rappresentiamo – 'simili'. Dai filosofi dell'antichità a quelli della modernità, da momenti significativi del pensiero scientifico ai modi in cui in altre società sono concepite le persone, ciò che viene fatta emergere è una teoria delle somiglianze, che – prima di ogni divisione – induce a cogliere legami e intrecci non solo tra le cose, ma entro le cose. In questo modo, insieme all'identità, viene meno anche il concetto di individuo. Come già in biologia, al suo posto troviamo il 'condividuo', un soggetto che, oltre a condividere con altri somiglianze e differenze, è esso stesso espressione di una vera e propria simbiosi interna, a partire dalla quale dovrebbe risultare più facile pensare alla convivenza con gli altri.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858149089

V.
La forza delle somiglianze

1. Ingolfarsi nelle somiglianze

Si deve a Michel Foucault, l’autore di Les Mots et les choses, la descrizione memorabile di una battaglia contro le somiglianze: una battaglia più moderna, rispetto a quella antica che abbiamo preso in considerazione nel capitolo IV (§§ 1, 6-7). Foucault analizza la nascita della filosofia (o meglio, dell’episteme1) moderna «nell’orizzonte di una guerra contro l’inflazione delle somiglianze» (Bottiroli 2011: 184). In effetti, è così che Foucault rappresenta il sapere che si era sviluppato dal Medioevo al Rinascimento:
Sino alla fine del XVI secolo, la somiglianza ha svolto una parte costruttiva nel sapere della cultura occidentale. È essa che ha guidato in gran parte l’esegesi e l’interpretazione dei testi; è essa che ha organizzato il gioco dei simboli, permesso la conoscenza delle cose visibili ed invisibili, regolato l’arte di rappresentarle (Foucault 1996: 31).
Nell’episteme rinascimentale – afferma sempre Foucault – «le cose che si somigliavano erano in numero infinito». E tuttavia le stesse somiglianze sono raggruppabili in quattro forme fondamentali, in base alle quali «poteva loro capitare di essere simili le une alle altre». Secondo Foucault, vi è quindi una tipologia di ciò che è ritenuto somigliante, la quale pone un po’ di ordine nella “selva delle somiglianze” del pensiero rinascimentale. Tali forme sono:
1) la convenientia, cioè la vicinanza, che rende simili le cose vicine nello spazio, così come del resto la somiglianza rende vicine le cose che sono simili tra loro. La «convenienza [...] avvicina il simile ed assimila i vicini» e in tal modo è come se il mondo formasse una «catena con se medesimo» (1996: 33);
2) l’aemulatio, grazie alla quale «le cose possono imitarsi da un capo all’altro dell’universo» senza dare luogo necessariamente a un «concatenamento» e a prescindere comunque da una qualche «prossimità» (1996: 33-34);
3) l’analogia (già riconosciuta nel pensiero greco e medievale), la quale, svincolata dalle somiglianze massicce e visibili delle cose, «può esibire, a partire da un medesimo punto, un numero indefinito di parentele» (1996: 35). Essa solca lo spazio in tutte le direzioni immaginabili e così «ad opera sua tutte le figure del mondo possono essere accostate» tra loro (1996: 36);
4) la simpatia, la quale, in quanto «principio di mobilità», si esprime «attirando le cose le une verso le altre» (1996: 37-38). Proprio in quanto principio dinamico, la simpatia non si limita ad essere «una delle forme del simile». Essa – sostiene Foucault (1996: 38) – «ha il pericoloso potere di assimilare», cioè di «mescolare», di fare «svanire l’individualità» delle cose, di trasformarle, di «renderle estranee a quello che erano».
A questo punto si tratta non già di considerare la somiglianza come esibizione di tratti, come prodotto o risultato di un qualche processo, bensì di considerare il processo stesso mediante cui le somiglianze si vengono a formare. Prosegue Foucault: «la simpatia trasforma. Altera, ma nella direzione dell’identico» (1996: 38). E qui emerge il “pericoloso potere” della simpatia, il quale ridurrebbe il mondo «a un punto, ad una massa omogenea, alla smorta figura del Medesimo», se non vi fosse un principio contrastante, «l’antipatia», la quale «serba le cose nel loro isolamento ed impedisce l’assimilazione». Così facendo, l’antipatia «racchiude ogni specie nella sua differenza ostinata e nella sua propensione a perseverare in ciò che è». Secondo il pensiero rinascimentale, il mondo sarebbe dunque retto «dall’equilibrio costante di simpatia e di antipatia», grazie al quale le cose «possono somigliare» le une alle altre e «accostarsi tra loro senza sommergersi in esse e preservando la loro singolarità» (1996: 39).
Forse ha ragione Giovanni Bottiroli nella sua critica a Foucault. Da un lato, Foucault intende delineare «una storia della somiglianza» in relazione almeno ad alcuni snodi importanti del pensiero occidentale (1996: 14), dall’altro è però rilevabile che «ciò che manca in questa “storia delle somiglianze” è precisamente una teoria delle somiglianze» (Bottiroli 2011: 185). Forse, anzi è probabile. E tuttavia, una teoria delle somiglianze è rintracciabile nell’episteme rinascimentale, quale è ricostruita da Foucault, come si evince anche da questo brano:
La sovranità della coppia simpatia-antipatia, il movimento e la dispersione da essa prescritti originano tutte le forme della somiglianza. In tal modo le tre prime similitudini [convenientia, aemulatio, analogia] vengono riprese e spiegate. L’intero volume del mondo, tutte le vicinanze della convenienza, tutti gli echi dell’emulazione, tutti i concatenamenti sono sostenuti, serbati e duplicati da questo spazio della simpatia e dell’antipatia che non cessa di avvicinare le cose e di tenerle a distanza (Foucault 1996: 39).
Si direbbe che il pensiero rinascimentale vede una tensione nel mondo e in particolare nei due principi che lo governano, quello dell’attrazione (simpatia) e quello della repulsione (antipatia): una tensione che darebbe luogo a una costante oscillazione tra l’avvicinamento e il distanziamento delle cose, tra il loro assomigliamento e il loro differenziamento, a seconda dei momenti, delle circostanze e dei livelli considerati. Oppure si tratta di un equilibrio perfetto, e dunque statico, tra i due principi? Foucault sembra propendere per quest’ultima soluzione, visto che il brano prosegue e si conclude con le seguenti parole:
In virtù di questo gioco il mondo resta identico; le somiglianze continuano ad essere ciò che sono, e a somigliarsi. Il medesimo [le même] resta il medesimo; e sbarrato nella propria identità.
In realtà, a proposito del medesimo che rimane sé stesso, nel testo francese troviamo l’espressione verrouillé sur soi (“inchiavardato su sé stesso”). Ma la traduzione italiana, introducendo il termine “identità”, risponde bene all’idea di Foucault, secondo il quale l’identità alla fin fine sembra dominare sulle somiglianze. Il mezzo con cui si realizza questo dominio è – potremmo sostenere – la differenza rispetto alla somiglianza, la repulsione rispetto all’attrazione, l’antipatia rispetto alla simpatia. Differenza, repulsione, antipatia, le quali agiscono – in senso opposto – con la stessa forza della somiglianza, dell’attrazione, della simpatia, tengono il mondo in un equilibrio perfetto, in una condizione di perenne staticità, in cui le cose continuano ad essere sé stesse, bloccate, appunto, nella loro identità.
C’è da chiedersi se questa conclusione corrisponda davvero all’episteme rinascimentale. Ma qui siamo più interessati alle argomentazioni teoriche di Foucault che non alla loro aderenza o pertinenza rispetto alla cultura di cui intende studiare l’episteme. Si ha l’impressione che, per Foucault, un mondo tutto concepito in termini di somiglianze (o meglio: di somiglianze e di differenze, SoDif) sia di per sé insostenibile, e che dunque alla fin fine sia necessario uscirne. Un mondo interamente ricoperto dallo «stupendo rigoglio delle somiglianze», un mondo in cui le somiglianze si muovono tra «ciò che è più evidente» e «ciò che è più celato», un mondo in cui «lo spazio delle somiglianze immediate diventa una sorta di grande libro aperto [...] irto di grafismi», di «strane figure che s’intrecciano e a volte si ripetono», di segni o di «segnature» che esigono una «loro decifrazione», un mondo quindi che, lungi dall’essere un «grande specchio calmo» nel quale le cose si contemplano e si rinviano, «è in realtà colmo di un brusio di parole», di un persistente rumore di fondo, si configura come un insieme in cui è difficile raccapezzarsi (1996: 40-41). Infatti, anche i segni mediante cui accedere alle somiglianze sono in realtà fondati sulla somiglianza, in quanto «è la somiglianza» ciò che conferisce al segno il «suo singolare valore di segno» (1996: 43). Ma con ciò si viene a formare «un secondo cerchio» di somiglianze: è con i segni delle somiglianze o, se si vuole, con le somiglianze dei segni che ci si addentra «nei cammini della similitudine». Si assiste perciò a una specie di trionfo della «Somiglianza» che «si lascia affiorare e scintillare nella sua luce propria».
Non è facile seguire il pensiero di Foucault in questo suo uso costante di immagini, in questa concatenazione e sovrapposizione di metafore (un pensiero che sembra essere molto somigliante al pensiero della Somiglianza, da lui criticato). Egli però fa emergere chiaramente i limiti di questa episteme tutta dominata dalle somiglianze allorché segnala il «reticolo dei segni che da un capo all’altro percorrono il mondo», e perciò il “disorientamento” da cui è colto l’osservatore che voglia introdursi in questa selva: «di colpo la griglia cessa di essere chiara» e l’osservatore è costretto a procedere, «con uno zig zag senza fine, dal simile a ciò che ad esso è simile» (1996: 44). In questo «zig zag senza fine» si percepisce, nello stesso tempo, disorientamento e inconcludenza. Leggiamo infatti le parole con cui Foucault valuta nel suo insieme l’episteme del XVI secolo:
Anzitutto il carattere insieme pletorico e decisamente povero di questo sapere. Pletorico in quanto illimitato. La somiglianza non dimora mai stabile in sé stessa; resta fissata soltanto se rinvia ad un’altra similitudine, che a sua volta ne richiede di nuove di modo che ogni somiglianza ha valore solo in virtù dell’accumulazione di tutte le altre, e il mondo intero deve essere percorso perché la più tenue delle analogie sia giustificata e appaia infine certa (1996: 44-45).
Foucault sta descrivendo il fallimento di un sapere, di un’intera episteme che, sedotta dalla molteplicità vertiginosa delle somiglianze, se n’è lasciata sommergere. Anziché giungere a risultati via via consolidati, questo sapere procede infatti «per accumulo infinito di conferme vicendevolmente implicantisi» (1996: 45). Ingolfato nelle somiglianze che non finiscono più di richiamarsi tra loro, questo sapere non è in grado di stabilire alcun «nesso possibile tra gli elementi» che non sia la loro semplice «addizione»: a casi simili non si fa altro che aggiungere altri casi simili, in maniera monotona e indefinita. Non sapendo uscire dal groviglio delle somiglianze, «il sapere del XVI secolo si è condannato a non conoscere mai altro che la stessa cosa», e per giunta a conoscerla soltanto «al termine mai raggiunto di un percorso senza fine» (1996: 45, trad. modificata). Già qualche riga prima, Foucault aveva sentenziato che «fin dalle sue fondamenta, questo sapere» appare «sabbioso».
Come vedremo tra poco, col XVII secolo avrebbe inizio la guerra contro questo tipo di sapere. Ma la ricostruzione di Foucault pone in luce in primo luogo la debolezza intrinseca di questo sapere, la sua insostenibilità, il suo fallimento, la sua auto-condanna: un sapere destinato a implodere su sé stesso, del tutto indifendibile rispetto agli attacchi che l’episteme del secolo successivo gli avrebbe sferrato. E così, in prossimità dell’avvento della nuova episteme, «la somiglianza» – afferma Foucault (1996: 31) – «sta per sciogliere la sua appartenenza al sapere e scomparire, parzialmente almeno, dall’orizzonte della conoscenza». Prendendo in considerazione il Don Chisciotte, Foucault fa vedere – o meglio, ritiene di fare vedere – come «la crudele ragione delle identità e delle differenze» sia in grado di «deridere all’infinito segni e similitudini» (1996: 63). Con la nuova episteme (quella che normalmente diremmo moderna e che invece Foucault definisce “classica”, quella comunque del XVII e del XVIII secolo) «la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella dell’insensatezza [déraison] e dell’immaginazione» (1996: 64). Secondo Foucault, sono infatti due le figure che, ai «margini di un sapere che separa gli esseri, i segni e le similitudini», si incaricano di rappresentare ancora il ruolo della somiglianza: il pazzo e il poeta. Essi sono «situati sull’orlo esterno della nostra cultura»: emarginati come la somiglianza, trovano in essa «il loro potere d’estraneità e la risorsa della loro contestazione». Ma in mezzo a loro si è ormai aperto, imposto e consolidato «lo spazio d’un sapere nel quale, in virtù di una rottura essenziale nel mondo dell’Occidente, non si avrà più da fare con similitudini, ma con identità e differenze» (1996: 65).

2. La resilienza

Lo sguardo di Foucault è del tutto concentrato sulla «cultura occidentale moderna», sulle sue rotture, sulle sue «grandi discontinuità» (1996: 64, 12). L’interesse per la somiglianza nasce dal suo approccio “archeologico”, dal suo tentativ...

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