Felicemente seduta
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Felicemente seduta

il punto di vista di un corpo disabile e resiliente

Rebekah Taussig, Beatrice Gnassi

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Felicemente seduta

il punto di vista di un corpo disabile e resiliente

Rebekah Taussig, Beatrice Gnassi

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Cosa accadrebbe se immaginassimo una società realmente inclusiva? Se invece di investire in "adattamenti" posticci per chi non rientra in uno standard imposto, creassimo invece una realtà più rispettosa di tutti i corpi e dei loro bisogni?Rebekah Taussig risponde a queste domande e sposta del tutto il nostro punto di vista. Attraverso il racconto della sua vita, l'autrice ci dimostra la pervasività dell'approccio abilista e l'impatto che questo ha sulle persone, con o senza disabilità. Ci ricorda che ciò che abbiamo in comune è un corpo, un corpo che non è (sempre e per sempre) quello immaginario e ideale che ci viene richiesto: ecco perché questo libro ci riguarda tutte.Taussig, con uno stile confidenziale e spesso ironico, alterna riflessioni profonde ad aneddoti personali, affrontando temi concreti: dalla rappresentazione della disabilità nei media, nei libri e nei film al mondo del lavoro, dalla sessualità alle complicazioni della gentilezza forzata, dagli stereotipi al concetto di indipendenza. L'autrice inoltre pone in relazione femminismo e disabilità, valorizzando un'ottica intersezionale, indispensabile per reimmaginare ciò che ci circonda.

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1

QUAL È IL PROBLEMA?

Qualche mese fa a una grande riunione di famiglia, mio fratello maggiore David mi ha fatto una domanda su cosa stavo scrivendo. Mentre ci stringevamo intorno al lungo tavolo pieno di cibo, che occupava quasi tutto il salotto dei miei genitori, servendoci sul piatto cucchiaiate di purè e pasticcio di mais, si è voltato verso di me e ha detto: «Su cosa stai scrivendo? Cosa speri che porterà nel mondo?». Mio fratello è uno che fa domande. Può sembrare un po’ come un colloquio di lavoro: veloce, pensa in fretta! Non c’è tempo per riflettere, la domanda successiva sta già arrivando! Ma mi lancia anche un invito a mettermi in mostra, una cosa che bramo e rifuggo allo stesso tempo, perché sono molto attaccata alla mia famiglia, ma anche estremamente diversa da loro. Volevo esporre la sincera verità perché lui ne fosse testimone. Ho teso i muscoli, pronta a essere benevolmente fraintesa.
Sono la più piccola di sei figli, ognuno nato più o meno a due anni di distanza dall’altro (proprio così! Con l’unica eccezione della qui presente, la mia famiglia produce una prole abbondante). Poco prima che nascessi, i miei genitori si trasferirono dal loro complesso residenziale per gente a basso reddito (un’unità con tre camere in cui stavano loro, i cinque figli e parecchi conigli), in una grande casa dell’inizio del XX secolo, dipinta con un colore che a mia mamma piaceva chiamare “giallo diarrea di neonato”. A quei tempi, i Taussig vivevano in un mondo tutto per loro. Non chiudevano mai il portone e i bambini dei vicini giravano dentro e fuori come fosse un’estensione delle loro case. Non avevano fiducia nell’uso delle cinture di sicurezza e nel lavarsi le mani prima di cena. Dopotutto se Dio voleva che tu morissi in un incidente d’auto, nessuna sciocca cintura avrebbe potuto fare la differenza e l’esposizione ai germi ti rendeva più forte. Per la festa del Primo maggio correvano qua e là a consegnare cesti di fiori fatti da loro e caramelle a tutti i vicini, tenevano le mani (non lavate) congiunte in preghiera prima di cena e giocavano fuori senza scarpe. Il cancro che mi fu diagnosticato a quattordici mesi, la violenta chemioterapia, la radioterapia e i trattamenti chirurgici e la mia conseguente paralisi a tre anni non cambiarono niente di tutto questo. Nel bene e nel male, crescere nella famiglia Taussig significava non piangersi addosso, non aver tempo per soffrire e non lamentarsi mai.
Quando rimasi paralizzata, la casa color diarrea di neonato non fu sistemata in alcun modo. I miei genitori non montarono rampe o corrimano e passarono diversi anni prima che avessi la mia prima sedia a rotelle. Continuavo a dormire nella parte sopra del letto a castello, al piano più alto della casa. Imparai a issare il mio corpo dal lato del letto a castello, i piedi erano solo appoggi mentre usavo le braccia per tirarmi su, sempre più in alto, fino a che mi rotolavo sul materasso sopra. Gattonavo su mani e ginocchia attraverso l’erba a chiazze e il marciapiede di cemento crepato verso la casa della mia vicina e, quando lei non c’era, mi sedevo nel fango e facevo piccole ciotole e bicchieri con l’argilla. Ho imparato come usare un catetere per svuotare la vescica prima di imparare le sottrazioni.
I miei tre fratelli e due sorelle vivevano tutto questo con me, dormivano sul letto sotto e di lato, mi stringevano le mani e mi lanciavano occhiate durante la preghiera della sera a tavola, ci ammucchiavamo tutti e otto dentro la Ford Ltd a cinque posti del 1976, che chiamavamo Hazel, e facevamo insieme pozioni magiche di fango nel giardino dietro casa. Passavamo le giornate a salire uno sull’altro come cuccioli in una scatola: ammassati, lottando per terra, coi gomiti che premevano sulle gabbie toraciche. Non ci capitava di parlare delle mie diversità (a meno che fosse per fare qualche scherzo agli sconosciuti dentro Walmart, quando lasciavano me e la sedia a rotelle rovesciata a terra, mentre io piangevo e aspettavo che qualcuno corresse in mio aiuto; lo facevamo davvero. Anche se, ripensandoci, non capisco perché pensassimo che fosse tanto esilarante). Solo molto più tardi ho compreso quanto poco sapevamo di noi stessi, tanto meno l’uno dell’altra. Vicini come bollicine in un bicchiere di acqua frizzante e lontani come Plutone e la Terra.
Durante questo periodo in cui strisciavo nel fango e mi arrampicavo sul letto a castello, credevo di essere sontuosamente bella, capace e pienamente in grado di contribuire al gruppo. Non è curioso? Il fatto che mi sia sentita come una regina quando stavo nel fango, mi arrampicavo e scivolavo via sul pavimento? Facevo le mie strane e appassionate coreografie di danza, indossavo costumi stravaganti per andare in giro in città e fingevo di essere sposata a un principe. Pensavo di avere talento e avevo grandi sogni. Fluttuavo in questa mia bolla, un universo in cui tutto splendeva e brillava e io indossavo una corona luccicante con pietre preziose. Credevo che tutto ciò che facevo (il modo in cui muovevo il mio corpo, il modo in cui guardavo, le vie tortuose che prendevo) fosse giusto. Trovavo il modo di fare tutto quello che desideravo e i miei metodi non mi sembravano strani o ridicoli.
Sapevo che i bambini che non conoscevo mi fissavano e che gli adulti mi rivolgevano giganteschi sorrisi compassionevoli, che inducevo lacrime e applausi, ma non avevo dedotto che io non andassi bene. Il fatto di non poter camminare come i bambini della mia classe, di avere sulle gambe un ingombrante ammasso di tutori di plastica, metallo e velcro, di usare un deambulatore malconcio di alluminio e di sfrecciare sulla mia sedia a rotelle rosa shocking, non mi parevano davvero elementi che valesse la pena prendere in considerazione nel giudicare me stessa.
Almeno non all’inizio. Non passò molto tempo prima che cominciassi a cambiare opinione. Dopo solo pochi anni nel mondo là fuori (andando a scuola, giocando al parco e in piscina, seguendo mio padre nel suo turno al supermercato del sabato mattina), davanti a me cominciava a prendere forma una storia, un’immagine confusa, che col tempo diventava più chiara. Per prima cosa, cominciai a capire che ero un peso per le persone attorno a me. A differenza di quello che accadeva con tutti gli altri bambini, stare con me richiedeva strade alternative e problemi da risolvere. Lo vedevo ovunque. Uscire con me significava avere possibilità limitate al parco giochi, aver bisogno della collaborazione dei muscoli di un papà per farmi entrare a casa di amici, sopportare pause lunghissime per andare in bagno e aiutarmi a portare il vassoio del pranzo. Valutavo che le persone che passavano del tempo con me, si facevano carico di qualcosa di più e volevo risparmiare loro quell’alto prezzo. A partire dagli otto anni cominciai a tagliare fuori dalla mia vita gli amici, non appena percepivo che la mia presenza causava un ulteriore sforzo.
Presto iniziai a credere di essere brutta. Il mio corpo appariva così diverso dai corpi che tutte veniamo educate ad ammirare (incluso il lungo naso dei Taussig, cioè, avrei potuto ideare una macchina del tempo nelle ore che ho passato a tormentarmi su questo). Non c’erano ragazze o donne paralizzate nelle storie raccontate sugli schermi, nelle pubblicità o sulle pagine delle riviste. Consumavo e digerivo la cultura intorno a me e a poco a poco imparavo, come un dato di fatto, che non ero tra coloro che sarebbero state richieste, ammirate, desiderate, amate, che avrebbero avuto appuntamenti o si sarebbero sposate. Non troppo tempo dopo, cominciai a percepirmi anche come debole e senza speranza. Ad eccezione di quelli dell’accoglienza clienti di Walmart che, nella mia mente di bambina, sembravano non fare niente, non vedevo o conoscevo persone disabili che avessero un impiego. Non riuscivo a immaginare di sostentarmi con un “vero” lavoro o essere in grado di pagarmi le bollette.
La maggior parte di ciò che vedevo della vita sembrava fortemente e intrinsecamente inaccessibile per me: come avrei potuto avere accesso a quegli spazi, figuriamoci dare il mio contributo? La mia bolla brillante e luccicante si era sgonfiata, come una bolla di sapone che svaniva a contatto col marciapiede. Questo non era affatto il mio universo. Non solo avevo scoperto di non essere la principessa, ma ero un’intrusa senza invito, un problema da togliere dalla vista.
Questa narrazione schiacciante incombeva su di me mentre cercavo di rispondere alla domanda di David, che aleggiava ancora tra noi: «Su cosa stai scrivendo? Cosa speri che porterà nel mondo?». Il mio cervello si è bloccato, mentre la mia bocca ha iniziato a balbettare, cercando di sintetizzare, condensare, smussare gli spigoli di una qualche risposta che avrei potuto dargli. Be’, scrivo di disabilità e della mancanza di rappresentazione e dell’impatto dell’inaccessibilità e dello stigma e della disoccupazione e… e… e. Ero come una donna che cerca di preparare degli spaghetti al buio, distruggendo la cucina, mentre afferravo ogni ingrediente presente nella dispensa, in caso mi dovesse servire. Nel mezzo della mia divagazione verbale, sono arrivata inevitabilmente alla parola “vergogna”: la scatola in cui avevo vissuto per così tanto tempo, la scatola in cui mi scopro a ricadere di fronte a provocazioni meno importanti di quello che vorrei ammettere. Questa è la vergogna che si attacca con tanta facilità ai corpi che non si conformano, la vergogna che spunta, fiorisce e ti consuma quando credi che la tua esistenza sia un peso, un’imperfezione della macchina collaudata della Società.
Ho cercato di spiegare a David quanto desiderassi che i miei scritti raggiungessero chi vive in quella vergogna, sollevassero il velo e ne mostrassero l’origine, per ricordare alle persone che non sono i loro corpi disabili il Problema, per alzare una bandiera con su scritto “Non siete soli!”. Mi ha interrotto. «Vergogna?? Tu ti vergogni? Come? Quando? Perché mai dovresti sentirti così?». Sembrava turbato e confuso da questa parola, cogliendomi alla sprovvista. Mi sono impegnata moltissimo per comprendere la mia relazione profonda con la vergogna. E proprio mio fratello, che è cresciuto accanto a me (un letto sopra, il sedile accanto, lì di fronte a tavola), non ne aveva idea. Pareva essere del tutto inconsapevole del fatto che mentre crescevamo, io avevo iniziato a vedere il mio corpo come un problema evidente, un peso per il mondo, un prototipo fallito. Come è possibile che non lo sappia?
Se ci rifletto, posso immaginare che la maggior parte della gente, osservando la mia vita, sarebbe sorpresa di apprendere della mia lunga relazione con la vergogna. Nessuno mi ha mai bullizzato o ha abusato di me o preso in giro apertamente. Tanti altri bambini che sono cresciuti nello stesso periodo non hanno avuto la stessa esperienza e ancora non è così per moltissimi, con o senza disabilità, che vengono marginalizzati per ogni genere di motivo. Sono consapevole che mi sono state risparmiate tante cose, per lo più perché ero una ragazzina bianca della classe media, carina, magra e che sapeva parlare bene. Era anche un periodo in cui a tutti veniva insegnato che avrebbero dovuto essere carini con i bambini disabili. Solo i peggiori bulli della serie Afterschool special o su Hallmark Channel avrebbero osato essere così vili da prendere in giro il bambino “handicappato”. Il protagonista non disabile si sarebbe indignato se ciò fosse accaduto. Avrebbe fatto un discorso appassionato e rimproverato il cattivo che aveva superato in modo così inappropriato i limiti. Nemmeno una volta ho sentito una persona definirmi un “peso” o “brutta” o “debole” e neppure “storpia” (be’, forse una volta. Ma una volta? È davvero sufficiente a sabotare l’intera idea di se stessi?). Infatti, le persone di solito usano parole positive per descrivermi, come “allegra” e “gioiosa” e “stimolante”. A detta di tutti, dovrei avere una forte autostima. Mio fratello David era sicuro che l’avessi. Quindi a chi addossiamo la colpa quando non vediamo all’opera i nostri cattivi preferiti, Palese Crudeltà e Intento Malvagio? Come possiamo iniziare a capire cosa è accaduto?
Una risposta breve è abilismo.
Non ho usato questa parola mentre parlavo con David. Più tardi mi sono chiesta perché. È efficace e contiene tante cose. È la parola perfetta per rispondere alla domanda in questione. Perché ho esitato? Suppongo di essere sempre un po’ cauta ogni volta che uso questa parola con qualcuno che non è già intimamente familiare con la sua trama. Senza sapere come ci si sente a viverci dentro (la superficie scivolosa, le ferite nette e i continui lividi che lascia), l’“abilismo” può sembrare solo un altro “ismo” di una lunga lista, che la gente è già stufa di tenere a mente. Essendo un’insegnante della scuola superiore, vedo lo sguardo degli studenti spegnersi o spostarsi in direzione della finestra quando viene fuori il tema. La parola sembra annullare la curiosità: suona abbastanza familiare da farci sentire sicuri di capirla già abbastanza bene.
Sembra un rischio fare affidamento sulla parola “abilismo”, ma qui la voglio usare, perché spero di costruire qualcosa con voi, qualcosa di grande e complesso, e per farlo abbiamo bisogno di alcuni mattoni: un linguaggio abbastanza ampio da sostenere le storie, permettere esplorazioni intellettuali e tenere traccia degli schemi ricorrenti.
La mia definizione di abilismo è un po’ diversa da quella dell’Oxford English Dictionary, che dice semplicemente: «Discriminazione a favore delle persone con un corpo abile». Sulla base di decadi di esperienza e della lettura di un sacco di accademici che si occupano di studi sulla disabilità, trovo questa definizione insufficiente. Per prima cosa, è costruita sull’assunzione che esiste una categoria distinta di persone con un “corpo abile”. Anche se un linguaggio che crea categorie distinte può essere utile (mi vedrete talvolta usare il termine “non disabile” per indicare schemi più ampi), fare troppo affidamento su questa definizione in bianco e nero di “corpi abili” è pericolosamente ingannevole. Sorvola con troppa facilità l’ambiguità intrinseca costruita sul fatto di avere un corpo. “Corpo abile” suscita immagini di ragazzi di campagna con le guance rossastre, che sollevano mattoni su per le scale. Chi sono queste persone? E davvero, quanti di noi rientrano stabilmente in questa categoria? La definizione giuridica di disabilità, scritta nell’Americans with Disabilities Act (Ada) del 1990, sottolinea il fatto che la disabilità è una parola ad ampio spettro, che può essere applicata a ogni genere di corpo, molti di coloro che appaiono del tutto “abili” o che sono eccezionalmente abili per un aspetto, non lo sono allo stesso modo per un altro. Infatti, il nostro ragazzo di campagna dalle guance rossastre potrebbe avere episodi di epilessia poche volte all’anno o un disturbo bipolare o inserirsi nello spettro dell’autismo. Le immagini che vengono in mente quando usiamo parole come “corpo abile” sono troppo unidimensionali per essere davvero utili.
La definizione dell’Oxford English Dictionary lascia inoltre poco spazio a una parte essenziale della storia: la disabilità è determinata tanto (se non di più) dal contesto quanto dal corpo. Ad esempio, prima che venissero inventati gli occhiali, la nostra popolazione includeva un numero molto più grande di persone categorizzate come cieche. La tecnologia ha cambiato l’esperienza di moltissimi corpi e, quando gli occhiali da vista sono stati integrati nella nostra industria della moda, lo stigma intorno alla vista che devia dall’“ideale” dei 20/20 è cambiato (infatti, nella mia vita ho indossato un discreto numero di occhiali da vista finti; è una cosa che si fa). Non consideriamo chi indossa gli occhiali una persona con “disabilità”, anche se quella stessa persona sarebbe stata considerata disabile in un altro tempo e luogo.
E, alla fine, le persone entrano ed escono dallo stato di “disabilità”: si rompono un arto o si ammalano o hanno terribili dolori mestruali o sono incinta oppure (ops!) invecchiano e improvvisamente si ritrovano a sperimentare limitazioni invalidanti. Se viviamo abbastanza a lungo, tutti noi, senza eccezioni, diventeremo disabili. Questo è un prerequisito del fatto di avere e di vivere in un corpo. L’idea che alcuni di noi rimangano stabilmente nella categoria di “corpo abile” è una falsità. Un mondo che si basa su velocità, produttività (più, più, sempre di più!), che ha troppi pochi bagni (e poche pause per andare in bagno) non considera o non si preoccupa dei corpi reali in cui viviamo. In altre parole, l’abilismo ha conseguenze su tutti noi, sia che ci consideriamo disabili o no. Poiché il corpo disabile è colpito in modo più forte dall’abilismo, è il primo a fare luce sulla struttura, a opporsi e protestare, a chiedere la sua esecuzione pubblica, ma viviamo tutti sotto i suoi ordini. L’abilismo ci punisce tutti.
Nella descrizione più ridotta, compatta e semplificata possibile, l’abilismo è il processo che favorisce, feticizza e costruisce il mondo attorno al corpo che in linea generale viene immaginato e idealizzato, mentre discrimina quei corpi percepiti muoversi, vedere, sentire, elaborare, funzionare, guardare in modo differente o avere bisogni diversi rispetto a questa visione. Spesso, più grande è la diversità, maggiore è la discriminazione. In altre parole, l’abilismo è una possibile risposta del perché una giovane ragazza si vede preziosa come una principessa una settimana e si sminuisce nella vergogna e nel disprezzo di sé quella successiva. Grazie di tutto quello che fai Oxford English Dictionary, ma la mia definizione è migliore.
Ho provato a parlare di alcune di queste cose a David senza usare la parola “abilismo”. Lui continuava ad annuire, ma potevo comunque percepire un abisso tra ciò che sento nel sangue e nelle ossa e ciò che ero in grado di trasmettergli. È come se fossimo cresciuti proprio accanto al ruggito delle cascate del Niagara, ma a un certo punto io mi fossi trasferita in una baita nella quiete del bosco, e ora sono tornata a casa, urlando sopra il frastuono e cercando di spiegare quanto questo sia devastante, ma David riesce a stento a sentire me o la cascata. Quali parole posso mettere insieme per fare in modo che David senta anche il rimbombo intorno a noi?
L’abilismo tuona sullo sfondo in ogni conversazione, in ogni storia, in ogni costruzione. È l’atmosfera che respiriamo, un corpo di principi e regole secondo le quali viviamo. Impariamo i suoi fondamenti come impariamo il bene e il male: con conferme velate e costanti. Non solo evitiamo di metterli in discussione, non ci viene neppure in mente che ci sia qualcosa da mettere in discussione. L’abilismo incoraggia assunzioni come: alcuni corpi/menti/stati sono intrinsecamente e sempre preferibili ad altri. Sentire/parlare è sempre meglio di essere sordi/muti. Bipedi che camminano sono decisamente preferibili a paraplegici in sedia a rotelle. Ognuno di noi ha un corpo “intero”, “intatto”, “perfetto” che avrebbe dovuto avere; la versione paralizzata, autistica, sorda è solo una versione peggiore e più triste dell’intenzione originale (ovviamente questo principio avvolge anche ogni narrativa riguardo al grasso, all’invecchiamento, a corpi di genere non conforme). Il valore di un corpo viene misurato sulla sua capacità di lavorare e/o sulla longevità che riesce a sostenere. I corpi sono prodotti; cicatrici, rotture e cambiamenti nelle loro funzioni riducono il valore del prodotto. La dipendenza è inferiore all’indipendenza. Solo alcuni corpi hanno bisogno di aiuto e quei corpi sono un peso. È semplicemente più funzionale modellare il mondo avendo in mente la “maggioranza” (se esiste una cosa chiamata maggioranza). La disabilità è sempre e solo un deficit; il mondo sarebbe un posto migliore se riuscissimo a trovare il modo di eliminarla del tutto. E così via…
Se vi scoprite ad annuire leggendo qualcuna di queste idee abiliste, è comprensibile. Hanno fatto parte della nostra dieta giornaliera fin dall’infanzia. Ci hanno terrorizzato all’idea di invecchiare, delle rughe, del grasso sulla pancia, delle macchie, della pelle cadente e delle smagliature. Ci hanno trasformato in macchine da lavoro che abusano in modo regolare del corpo per dimostrare il proprio valore: dormi meno, lavora di più, sempre! Ci fanno vergognare di chiedere aiuto, di prendere medicine, di usare ausili per la mobilità. Soffocano la nostra capacità di immaginare altri modi di stare al mondo. Per andare bene, dobbiamo sempre sforzarci di essere l’essere umano ideale: giovane, con la pelle liscia, magro, in forma, radioso, energico, inesauribile, inarrestabile, indipendente. Perché cosa accadrebbe se uscissimo fuori da questo piccolo stampo? Chi saremmo?
Ci vogliono impegno e duro lavoro per annullare queste ideologie. Sono forti e insistenti e ribadite in ogni momento. Infatti, il concetto di abilismo è così profondamente radicato nella nostra cultura e, per estensione, nel retaggio della percezione di me stessa, che a volte può essere difficile anche per me individuarlo. Posso cedere alla sua persistenza proprio come chiunque altro. Proprio ieri mi sono lamentata con una collega per la mia faccia che sta invecchiando. «Non voglio nemmeno guardarmi allo specchio!», ho detto, coprendomi il volto co...

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