La sfilata di moda come opera d'arte
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La sfilata di moda come opera d'arte

Claudio Calò

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La sfilata di moda come opera d'arte

Claudio Calò

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«La sfilata di per sé è molte cose assieme, e nessuna 8 in particolare: un video musicale, un teatrino di carta, un documentario, una piccola esibizione effimera per pochi spettatori, una costosa seduta psicoanalitica di gruppo, un gesto politico». Guardare, guardarsi, essere guardati... Che cos'è davvero una sfilata di moda? Aggancia, su un suo palcoscenico "unico", l'arte, il cinema, il teatro, la danza, la fotografia, il simbolo e il racconto, la politica persino e l'informazione. E legge ininterrottamente il mutare della contemporaneità, ovvero non finisce mai di rispondere alla domanda di tutti e di ognuno: «Chi davvero siamo diventati, ora?» Moda e sfilata di moda («È un po' come se la sfilata - Miuccia Prada ne conviene - fosse la mostra per il mondo dell'arte») sono riti sociali esclusivi, certo, ma le risposte che tentano ci riguardano tutti, in modo emotivo, spettacolare, leggero, splendidamente inutile. «Una sfilata di moda è uno spettacolo, è intimità, è intensità. Ed è completamente senza significato: perciò ha tanto successo», dice René Célestin, fondatore di una delle maggiori case di produzione di sfilate. Ma in ballo c'è sempre il significato della modernità, ed è per questo che, da Baudelaire in poi, se ne occupano fra gli altri anche Walter Benjamin, Roland Barthes, Jean Baudrillard... Claudio Calò ne ha uno sguardo dall'interno, che è ad un tempo in presa diretta e critico. Ci racconta di Giorgio Armani, di John Galliano, di Ralph Lauren, di Karl Lagerfeld, di Gianni Versace, di Alexander McQueen o di Antonio Marras come delle supermodel degli anni '90, e ci conduce per mano dalle vere e proprie bambole che venivano usate nel Settecento in Francia per far conoscere la moda di corte in provincia, fino agli spettacoli planetari e virtuali - avatar al posto di modelle al posto di bambole... - attraverso cui la moda ha dovuto evolversi, spinta fra l'altro dalla pandemia a trovare un nuovo equilibrio e forse una nuova forma. Calò la chiama transmoda: una moda «orizzontale e decentralizzata, veloce e atomizzata, ironizzante e collaborativa». Attraverso scenari planetari e racconti di singoli eventi o incidenti raccolti spesso dalla viva voce dei protagonisti - come la storia del termine mannequin o il segreto della camminata di Naomi Campbell - Calò disegna l'affresco di quel mondo sconosciuto che è sotto gli occhi di tutti.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2022
ISBN
9788858439890
Capitolo primo

Abiti mentali

La fotografia di Harry Benson intitolata Ralph Lauren Backstage mostra uno spaccato della sfilata dello stilista americano durante la New York Fashion Week del 1983. Ralph Lauren, che all’epoca aveva appena raggiunto il traguardo dei quindici anni dalla fondazione del marchio eponimo, divenuto la quintessenza del sogno americano, è visibile mentre trattiene con entrambe le mani la modella che di lí a poco farà il suo ingresso in passerella. Lei è voltata, sembra prendere nota di quello che un’assistente di produzione appena dietro a Lauren le sta dicendo: forse un’istruzione sul tempo da tenere in scena, o piú semplicemente un incoraggiamento. Lo sguardo del designer, in denim, stivali e cintura alla texana, cosí da abitare senza alcuno scarto il mondo che racconta la sua moda, è invece vòlto di mezzo giro a spiare il parterre attraverso un foro nella parete di legno che costituisce il fondale della sfilata. Come lui, anche noi vediamo la schiena di un’altra modella appena entrata in scena, che posa disinvoltamente, le spalle coperte da una giacca di velluto scarlatto dalle generose proporzioni, care al power-dressing di quegli anni. Calca una passerella sopraelevata bianca, ai piedi della quale alcuni fotografi in prima linea stanno per metterla a fuoco, dal basso all’alto, e per registrarne il look. Altri fotografi sono rivolti a una porzione di passerella fuori dall’inquadratura di Benson, presumibilmente ancora impegnati con la modella che ha preceduto la ragazza in rosso. Dietro i fotografi, sempre piú in penombra, siedono compostamente diverse file di spettatori, che indoviniamo essere una selezione di stampa di settore e compratori, forse anche clienti diretti del marchio [fig. 1]. Il groviglio di sguardi e punti di vista fa di tutte le persone ritratte nella foto una composizione che, prima ancora che una testimonianza sull’oggetto sfilata, è un documento sulla complessità dell’incessante processo del mostrare/mostrarsi e del guardare degna di una tela di Velázquez.
Fra tutti i personaggi della scena ritratta, non possiamo fare a meno di tornare sul designer, lo stilista, colui che si cela dietro il fondale e allo stesso tempo mostra e osserva il frutto della propria creatività, mentre scandisce il ritmo dello spettacolo, liberando a una a una le bambole in carne e ossa che interpretano in passerella la sua visione. A proposito del protagonista, David Lauren, figlio del creatore americano e ora vice-chairman della multinazionale in capo al marchio, nota: «Ralph Lauren non ha mai assistito a una sfilata da spettatore, come la maggior parte dei designer. Non gli è mai stato possibile sedersi a guardare una sfilata, è sempre nel backstage. Non è come un regista di cinema che ha l’opportunità di girare e guardare al tempo stesso. A volte ha detto: “Mi piacerebbe sapere e sentire cosa pensa la gente”. Forse sarà stato ospite alla sfilata di qualcun altro una volta o due, ma non ha mai assistito alla propria […] La sfilata di Ralph Lauren è come un film di Woody Allen: un piccolo gioiello di film che vuoi vedere e rivedere; è necessario apprezzare da vicino la sua doppia natura, del copione e della recitazione. [Ralph Lauren] vuole che nessuno si distragga guardando il film. Il giusto equilibrio tra la fantasia cinematografica e gli abiti è molto importante, anche nelle immagini pubblicitarie»1.
Il paragone con l’arte cinematografica, cosí come con la divisione tra fronte – luogo dello spettacolo e del mostrarsi effimero – e retro/backstage – punto limitato ma privilegiato da dove si osservano gli ingranaggi funzionare –, che allinea il lavoro dello stilista di moda a quello del regista, è comune nel linguaggio dei designer. Ralph Lauren, infatti, ha sempre dichiarato che il proprio lavoro è girare dei film, prima ancora che disegnare collezioni e allestire sfilate2.
Giorgio Armani, del resto, con una risolutezza squisitamente meneghina, ha piú volte sostenuto che se non avesse fatto lo stilista sarebbe diventato un regista. Il legame viscerale che lega lo stilista al momento della sfilata, che è allo stesso tempo esibizione e prova, opera prima ed esame da superare, è cosí descritto da Armani in persona: «È uno spettacolo, la sfilata? Uno strumento di lavoro? Un’occasione di incontro e socialità? Una performance che deve essere anche una fonte di ispirazione? Per me sfilare è un po’ come mettersi a nudo, come sostenere quell’esame di maturità che ancora oggi in qualche momento di ansia mi capita di ricordare. E ogni volta penso che non ho timore di farlo, che sono preparato… finché la prima modella non esce in pedana»3.
I debiti e i crediti della moda con l’esperienza cinematografica e tutte le forme artistiche di spettacolo sono del resto molto numerosi, specialmente in un’epoca in cui la forzata distanza sociale ha imposto alla forma sfilata di rivolgersi ancora di piú a linguaggi e formati limitrofi per continuare a esprimersi. Allo stesso tempo, come si approfondirà piú avanti, la sfilata di moda nei quasi centocinquant’anni della sua mutevole esistenza (quasi coetanea quindi della fotografia e sorella maggiore del cinema) ha già conversato e duettato con ogni possibile mezzo di comunicazione e forma di espressione artistica: il teatro, la danza, la televisione, la performance art, il digitale, assorbendone ed emulandone i linguaggi, e spesso restituendo un precipitato preciso delle forme d’espressione piú tipiche del proprio tempo. Non è questa la sede per dare una sentenza definitiva sulla mai risolta questione della legittimità di considerare la moda un’arte a pieno titolo; ci si servirà però di alcuni aspetti del dibattito per dimostrare come, al mutare dei criteri che hanno accompagnato l’evoluzione dello sguardo sull’estetica, siano mutate anche le forme del mostrarsi attraverso il corpo vestito e il suo spettacolo nella sfilata di moda. A questo proposito si rimanda al vastissimo lavoro di Caroline Evans, la quale ripercorre la storia delle sfilate di moda di pari passo con la storia della modernità: dell’innovazione tecnologica e sociale che si esprime attraverso il cinematografo, la pubblicità, le avanguardie artistiche, le grandi esposizioni universali e gli spettacoli di massa dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni4.
Non volendo ridurre l’analisi a una semplice carrellata cronologica di tutte le teorie dell’arte e della moda, il nostro obiettivo è mirato a identificare alcuni punti chiave in cui il sistema-moda, nel modificarsi, ha rivelato il proprio modo di interpretare la postmodernità e le sue crisi. Fino all’ultima, quella pandemica che stiamo tuttora vivendo, e che ha costretto il formato sfilata ad attraversare un momento di riflessione radicale, sugli scenari del quale ragioneremo dal punto di vista formale e di significato. Esempi storici e ricorsi a linguaggi già frequentati dalla moda in passato verranno quindi evocati di volta in volta solo nella misura in cui siano rilevanti a illustrare i risultati e le ipotesi del presente.
Questo libro non parla quindi di critica di moda intesa come commento di natura giornalistica alle collezioni o al contenuto stilistico delle singole sfilate, ma abbraccia il formato della sfilata complessivamente, come oggetto sociale e di significazione. Si tratta dunque di raccontare in maniera carsica e trasversale come e quanto la forma sfilata appartenga alla sfera dell’arte. Sarà un esame di natura semiotica condotto sulla scia dei contributi di numerosi protagonisti del settore, cioè di chi le sfilate le progetta, le disegna, le assembla, le guarda da dietro le quinte, le riprende, le produce o vi assiste per professione, da sotto i riflettori o attraverso la lucentezza digitale di uno schermo.

1. Tutta la moda è moda storica.

Arthur Danto, teorico dell’arte fra i piú influenti a cavallo tra il secolo scorso e l’attuale, ci riporta molto schiettamente all’evidenza che ogni arte, a suo tempo, è stata contemporanea. Già Baudelaire, il primo teorico dello sguardo dell’artista alle prese con la modernità, osserva: «La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Vi è stata una modernità per ogni pittore antico»5.
La moda e il suo mostrarsi attraverso la sfilata rappresentano, piú esplicitamente di ogni altro fenomeno sociale, un perfetto catalizzatore di modernità per la stessa natura del sistema che li accoglie, messo a punto e ingegnerizzato per fare del tempo presente un’espressione d’arte e un business puntuali, destinati a essere soppiantati in maniera ciclica e altrettanto puntuale dalla stagione successiva, oggi sempre piú a ridosso della precedente. La sfilata di moda è una capsula dove il tempo è distorto, dove passato, presente e futuro convivono e si sconfiggono a vicenda: i capi della prossima stagione si trovano in passerella e le loro variazioni su misura sono già visibili nelle prime file, indossate dalle celebrities; quelli della stagione attuale vengono tipicamente indossati dagli ospiti di riguardo e dagli spettatori piú appassionati, mentre quelli della moda appena trascorsa o indistintamente passata si ripalesano attraverso il resto del pubblico. Roland Barthes, il primo semiologo a occuparsi direttamente del tema, rileva che la formula della moda sia riducibile al rapporto di velocità tra acquisto e usura: dove il tempo dell’acquisto sia piú rapido di quello dell’usura c’è moda; il caso inverso è indice di povertà; mentre se le due velocità si equivalgono semplicemente non c’è moda6. In questo senso la sfilata di moda provoca e rinnova il meccanismo di progressione dello stile – e del consumo – che James Laver aveva schematizzato sulle pagine di «Vogue» nel 1959: «Possiamo quindi tracciare uno schema e dire che: uno stesso abito è indecente dieci anni prima del suo tempo; audace un anno prima del suo tempo; chic (che seduce oggi) nel presente; goffo cinque anni dopo il suo tempo; orrendo vent’anni dopo il suo tempo; divertente trent’anni dopo il suo tempo; romantico cent’anni dopo il suo tempo; bellissimo centocinquant’anni dopo il suo tempo. Sarebbe stato impossibile rivitalizzare la moda della metà degli anni Venti se non dopo che fossero passati trent’anni. Trent’anni da allora sono in effetti passati ed ecco: quella stessa moda, con stili molto simili, è tornata»7.
Questi intervalli temporali possono far sorridere, forse: oggi i tempi di rinnovamento e distribuzione delle immagini di moda, e quindi il superamento culturale e iconico del presente, è pressoché costante. Una calzatura di Prada in passerella è talmente attuale, pulsa talmente con il battito estetico del proprio momento, che risulterà già goffa o scialba (Laver dice «dowdy») a pochissimi mesi dall’uscita, in modo da essere soppiantata dallo stile successivo appena svelato dalla sfilata che segue e le preme letteralmente dietro ai tacchi. La sfilata invecchia su Instagram prima ancora che la modella abbia percorso l’intera passerella. La miniaturizzazione e la velocizzazione del processo di rinnovamento culturale hanno la snella impalpabilità dei meme, che, prima ancora di essere immagini o microfilmati digitali manipolati, sono le unità minime che costituiscono la base dello scambio culturale di oggi. Quando l’immagine della drammatica cavalcata in stivali a tacchi alti del modello Leon Dame sulla passerella di Maison Margiela SS20 mi viene inviata una seconda volta sul telefono, magari con un diverso commento o inserto parodico, mi appare già iconica, quindi passata. Un nuovo atomo aggiunto all’eredità «memetica» che definisce il codice identitario moderno.
Del resto Zygmunt Bauman, nel tracciare un profilo della società «liquida» in cui viviamo, riconosce nell’accelerazione, che altro non è che la storia del tempo, la vera cifra della società attuale e il criterio con cui si riorganizza il potere politico e sociale: «Nell’epoca moderna, velocità di movimento e accesso a mezzi di mobilità sempre piú veloci conquistarono rapidamente il ruolo di principale strumento di potere e dominio […] Il potere può muoversi alla velocità di un segnale elettronico, e dunque il tempo richiesto per il movimento dei suoi ingredienti essenziali si è ridotto a zero. A tutti i fini pratici, il potere è diventato squisitamente extraterritoriale»8.
Questa lettura ben si sposa con la pur recentissima storia dei social media che si sono succeduti negli ultimi vent’anni: l’enfasi si è spostata dalle dimensioni di spazio e territorio identitario (MySpace, 2003, e Facebook, 2004), a quella del tempo istantaneo (Instagram, 2010, Snapchat, 2011, e TikTok, 2017: nei nomi stessi si sente tutta la pressione dell’istante che incalza e si dissolve, le stories soppiantano il feed), dove la rapidità di trascrizione e trasmissione e la non permanenza sono i valori fondanti. Ha perciò perfettamente senso che la diffusa sindrome del disagio contemporaneo sia la FOMO, «fear-of-missing-out»: la paura costante di essersi persi qualcosa di importante nell’incessante tempesta di tutti i possibili stimoli. L’accesso ai big data digitali, immateriali ed extraterritoriali, rappresenta oggi il vero capitale politico, economico e sociale.
Nonostante la velocità in aumento, tuttavia, il principio teorizzato da Laver sessant’anni fa resta valido: ogni momento, ogni moda, ogni espressione d’arte è attuale, moderna, in un istante preciso. Dopodiché passa attraverso una catena di significazione progressiva che prima ancora che essere estetica è sociale e tautologica: la moda è moderna perché è eletta a moda in quel momento. La sfilata è il rito di passaggio da uno stato all’altro. Anche la moda scandalizzante, osteggiata e criticata in passerella come inappropriata ai suoi tempi, una volta esibita fissa un qui e ora irrevocabile. Per rinnovarsi dovrà essere risemantizzata al momento opportuno.
Tornando allora a una teoria dell’estetica alla luce di quanto detto, Danto accoglie e amplia il discorso evolutivo del concetto di «arte aperta» inaugurato da Morris Weitz9: ogni nuova forma d’arte andrà ad arricchire, rendere piú complesso, dare una nuova cornice di riferimento non solo al repertorio di opere ma anche ai criteri di valutazione sotto cui verranno esaminate le opere successive. In termini di moda si potrebbe dire, ad esempio e a illustrazione del principio, che la gamma comunemente accettabile di moda in passerella non includeva indumenti appositamente non finiti, contenenti smagliature intenzionali o visibilmente composti da materiali riciclati. Questa è stata la norma almeno fino agli anni Ottanta, quando le passerelle di Comme des Garçons di Rei Kawakubo e Martin Margiela hanno prepotentemente allargato i confini della gamma e imposto le categorie di «incompiuto», «riciclato» e «ricontestualizzato» che da allora fanno parte delle scelte possibili fra le tante nell’arsenale di un designer di moda. Dei maglioni «bucati» [fig. 2] nella sua celebre collezione che sfila nel 1982 Rei Kawakubo dirà: «Quegli strappi sembreranno strappi per qualcuno, ma non per me […] Sono aperture che dànno al tessuto una diversa dimensione»10.
Ogni atto creativo, ogni sfilata, aggiunge una dimensione da quel momento imprescindibile per la storia dell’intera disciplina. Con questo stesso spirito tutta l’arte, secondo Danto, è necessariamente arte storica, non assoluta: «Ci sono ragioni per le quali le Campbell’s Soup Cans di Warhol non sarebbero state arte all’epoca del rococò. Qualcuno avrebbe potuto dipingerle, naturalmente. Ma quei dipinti […] non sarebbero stati pop art nel 1761. Non avrebbero potuto, nel 1761, avere il significato che hanno nel 1961. Tutta l’arte è arte storica»11.
A proposito del pop, Danto riconosce al periodo di produzione artistica che si colloca tra il piú celebre objet trouvé, la Fontana di Duchamp del 1917, e i Brillo Box di Warhol del 1964 la responsabilità irreversibile di aver svincolato per sempre il criterio puramente estetico dalla considerazione di cosa sia arte. Duchamp fa di un orinatoio un oggetto artistico non per una qualche qualità intrinseca o altra caratteristica fisica, non per l’abilità manuale applicatagli da parte dell’artista, ma per il fatto di averlo semplicemente scelto, affrancato dal concetto di gusto, e quindi caricato di significato. Sul ready-made di Duchamp, Angela Vettese nota che «rappresenta la fase piú estrema del bricolage e la sua versione afasica, quella oltre cui l’opera si annulla»12. Successivamente, Warhol e tutto il movimento che ne discende, fino al Superflat di Takashi Murakami, sferrano poi l’attacco finale alla concezione classica utilizzando la riproduzione seriale di oggetti di uso comune per sgretolare i deboli argini rimasti attorno all’identità dell’arte, che diventa pop includendo ogni oggetto del reale – ossia davvero «popolare» in quanto a impiego di segni, icone, materiali, alla sua distribuzione e al carattere esplosivo –, e che, dopo di loro, sarà inevitabilmente postmoderna13. Se, come sostiene Warhol, l’arte del business è il passo successivo dell’arte, la creativa e commercialissima moda è ottimamente posizionata per imporsi come veicolo privilegiato della postmodernità. D’ora in poi, tutto è elevabile a livello di arte. Per usare le parole che dànno il titolo al saggio di Vettese: «si fa con tutto»14. È l’operazione che arriva dritta dal dopoguerra fino a oggi, portata alle sue estreme conseguen...

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