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INFANZIA. Invenzioni per le memorie di una bambina
About this book
Quindici quadri, quindici storie vissute dall'autrice durante la sua infanzia, una autobiografia scritta come terapia. Lucìn, Angela, Gìa, Maddalena, vivono le loro avventure tra le pagine di questo libro, scritto con uno specifico metodo di avvicinamento alla memoria e al subconscio sviluppato dall'autrice.
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Information
Il volo di Icaro. Che cos’è “labirinto”? Rileggeva e leggeva, e voleva sperare quasi che il modo ci fosse di non scioglier la cera.
Anche lei un giorno partiva, faceva le valigie, da sola, e andava lontano; dove ancora non lo sapeva, ma di sicuro con gli anni le veniva in mente un posto e se era grande non aveva nemmeno paura. Tornava? Non tornava, perché tutto poteva cambiare lì intorno: il prato e i campi, la casa dei contadini, e soprattutto la gente, e più dell’altra quella di casa. Certo sapeva che doveva accadere, della morte parlava spesso con la nonna, diceva: “Quando non ci sono più”. Intanto era lì e come sempre c’era silenzio dentro casa e fuori, nel giardino, fino là lungo il filare dei gelsi dove andavano a raccogliere i tulipani selvatici, piccoli e gialli, tutti uguali, ne facevano un mazzo ciascuno, e si divertivano tanto.
A volte le cose le stavano intorno splendenti, erano così belle, così belle, che Gìa sentiva che doveva guardarle ad una ad una, una sola per volta: la luce nel vetro del bicchiere. Forse un’altra volta veniva qualcuno, si sedeva vicino a lei e le spiegava tutto, ogni cosa diventava facile, e lei capiva e imparava, e il tempo passava.
Dalla finestra che guardava la strada al di là del giardino, si poteva vedere la gente e riconoscere quelli che facevano lo stesso percorso ogni giorno; c’era un uomo alto con i capelli a spazzola e la faccia ossuta, con gli occhiali, vestito di blu, e una borsa nera nella sinistra, camminava un po’ rigido ma non impettito; e passava anche un piccolo cane nero con la coda a ricciolo girata in avanti: “né da dove vengono, né dove vanno”. Partono e tornano, ma di loro non era dato conoscere che quel solo fatto, di poco conto anche: che fanno quel tratto di strada.
Le foglie dei platani in alto cominciavano a diventare rosse e di mattina e di sera c’era già un poco di nebbia.
GIRANDO INTORNO ALL’AUTOBIOGRAFIA
Questa Infanzia è il secondo “momento”, la seconda prova del mio “dire di sé”. Ed è stato pensato e voluto, completamente intenzionale quindi, anche nei suoi riferimenti all’ Autobiography as Therapy cui in quegli anni (i primi anni ’80) stavo lavorando professionalmente mentre andavo precisando le linee teoriche (oltre che pratiche e praticate nei gruppi con cui operavo) del mio specifico metodo di avvicinamento alla memoria e al subconscio attraverso la scrittura, che ha preso il nome di “la forma buona”. Su di esso non posso andare oltre qui; dirò soltanto che ho avuto modo di discuterlo e metterlo a disposizione in incontri e corrispondenze con altri autori e professionisti che si occupavano e occupano del tema.
Il primo “momento” è stato invece pressoché inconsapevole, (sono sempre intorno agli stessi primi anni ’80) ed ha preso infatti la strada della narratività e della finzione nel racconto breve “Le gioie di Corinna o l’educazione di Matilda” che apre la piccola raccolta delle Cinque favole per forza pubblicata nel 1995 (Lidia M. Beduschi, Cinque favole per forza, I LIBRI DELLO ZELIG 48, Mobydick/Cooperativa Tratti, Faenza).
La terza (e sicuramente ultima) “stesura”, maturata in un tempo lunghissimo di più di un decennio è uscita dalle ripetute e sempre scartate prime pagine solo quando, chiarita per me stessa l’intenzione autobiografica, ha imboccato con rinnovata sicurezza le vie dell’antinarratività sostenuta e rafforzata dal saggio e dagli argomenti di Galen Strawson, Against Narrativity del 2004. Sto parlando di Elèm B., Linee di sangue, pubblicato con StreetLib nel 2017.
Ciò che è rimasto costante nelle tre prove è il ricorso alla terza persona: non ho mai voluto, o forse non sono mai riuscita a dire e scrivere “io” per l’infanzia. Ho cominciato ad usare la prima persona per raccontarmi da adulta, prima a me che a chiunque altro. La prima prova rivela l’autrice con la sola aggiunta della M. iniziale del mio secondo nome, espediente usato per finalità pratiche: tenere separati i testi letterari da quelli saggistici della mia professione. La seconda, che è qui con voi, adotta spedita lo pseudonimo anagramma del nome e cognome; la terza allude, sempre occultando l’identità, alle tre lettere del mio nome, secondo un ordine invertito. Ed ormai, lo so, ho finito col rivelarmi!
Allora mi piace offrirvi una selezione di brani (non mai testi completi) di Corinna e Matilda e di Linee di sangue scelti perché strettamente connessi a Infanzia. Spero non vi dispiaccia ed anzi vi sia gradito.
Da “Le gioie di Corinna o l’educazione di Matilda”
Quanto a Matilda, è piuttosto piccola per la sua età, minuta: ha dodici anni ma gliene dareste nove, dieci al massimo: piccole mani, piccoli piedi. Ho sempre pensato che Matilda sia bellissima e non la vedo ormai da molto tempo.
Carissimo amico,
sono tornata in questa casa perché ho deciso di assumere verso Matilda le mie responsabilità di madre. E devo a lei se qualche luce si è fatta nella mia ragione. Sarà un compito faticoso, ma dovrò occuparmi di più, di lei…
Caro amico,
sto insegnando a Matilda e lei impara giorno per giorno, anzi di ora in ora. E’ un’allieva molto docile! Non sospettavo nemmeno che la sua educazione mi avrebbe riconsegnato quasi intatte le gioie di quand’ero bambina. Leggiamo la sera qualche storia, quella d’Uliva dalle mani mozze che possiedo in molte varianti, sedute vicino alla finestra che guarda il giardino; quando i vetri si fanno scuri e lucidi, la scrittura troppo fitta e non si vede più, stiamo in silenzio lunghe ore, tanto che per due volte quasi ci scordammo di andare a cena.
Corinna spinse il cancello di ferro mentre io entravo dal lato opposto, vestita di nero, i capelli raccolti e lucidi. Subito non disse niente, mi mostrò invece il volume rilegato delle Massime da cui tirò fuori una busta che mi consegnò, pregandomi di leggere più tardi il foglio che vi era chiuso: “Di Matilda” spiegò. Matilda non c’era, e l’avrei vista volentieri; ma Corinna non rispose alle mie domande che con un cenno di fastidio. Nominò invece una camera grande, molto grande e vuota, mentre passeggiavamo sotto l’ombra dei tigli. Vi aveva scoperto, mi disse, una enorme quantità di giocattoli: bambole dal viso orientale, piccoli strumenti musicali di ogni genere, pupazzi di stoffa e marionette di legno, frutti di pasta di mandorle, cavallini di cartapesta e carretti dipinti di giallo, piccole pantofole verdi ricamate d’oro, un castello in miniatura davanti al quale stava schierato un esercito di soldatini di piombo, giardini d’alberi da frutto, roseti e fontane. L’ascoltavo senza capire, e lei parve soddisfatta della mia sorpresa e del mio silenzio. “Matilda cantava dietro la porta – diceva Corinna – seduta su una piccola seggiola a dondolo ch’era mia, da bambina. Teneva le mani sui braccioli e si spingeva ritmicamente in avanti e all’indietro con le braccia, e i piedi uniti. A tratti chiudeva gli occhi, come se dormisse, ma continuava a cantare e dalla bocca il fiato prendeva forma poco alla volta e si raddensava negli oggetti che ho descritto, che si ammucchiavano intorno senza far rumore. Dopo ogni creazione seguiva una breve pausa, Matilda guardava in giro, appoggiava di nuovo la testa allo schienale e intonava la canzoncina daccapo. Si accorse di me il quarto giorno (ormai i giocattoli toccavano il soffitto) quando avvertì il cigolìo della porta che veniva socchiusa. S’interruppe di colpo e divenne così pallida che ho temuto stesse per svenire. (…)”.
Lessi lo scritto solo alcuni giorni dopo, e questa volta il motivo del ritardo fu dovuto non alla dimenticanza, ma alla curiosa tenerezza che riservavo a Matilda: l’indugio voleva prolungarla quanto più possibile, e passavo spesso di mano in mano la busta, respingendo la tentazione di aprirla in un luogo qualsiasi.
Finalmente la sera dell’undici novembre l’occasione propizia si presentò quando, dopo una giornata di nubi e tempeste passata a cercare senza risultati di mettere ordine tra gli scritti, gli appunti e i progetti di futuri lavori, il vento si calmò d’improvviso. Matilda narrava alla madre di una sua fantasia o sogno, che lei doveva aver fatto dopo ch’era stata scoperta da Corinna nell’atto di cantare e creare giocattoli, poiché in alcune aggiunte per me ai piedi di pagina, Corinna non accennava affatto al tema del sogno, mentre l’attenzione si appuntava sull’infatuazione che Matilda per qualche tempo aveva dimostrato per la madre, con tanto ardore, da indurla a rompere bruscamente l’idillio. Il mezzo prescelto per tale operazione era quello che sicuramente aveva bisogno della mia indulgenza. Non l’ebbe. Dunque, il sogno di Matilda:
“Stavo in piedi, davanti alla finestra. Ero sveglia, sono sicura; ma poi avevo come sonno, molto molto sonno e sentivo il lago che mi entrava poco alla volta negli occhi. Quando l’acqua non c’era più, era la volta del giardino e dopo del cielo con tutte le nubi. Non so se gli occhi erano aperti o chiusi, e ho sentito dentro una voce che chiamava: “Matilda! Matilda!” Allora sono stata in ascolto, ed ero io che chiamavo. Ogni volta si faceva più forte e vicina, saliva saliva fino al centro del petto e di qui filtrava come una luce, e in mezzo alla luce c’era Matilda grandissima. Mi ha preso per mano e mi ha guidato in un posto in alto in alto…”.
Due righe cancellate e illeggibili. Di seguito Corinna: “Ho messo abiti molto scollati, colori sgargianti. Matilda mi seguiva da giorni, in ogni stanza, senza parlare, con gli occhi splendenti e le guance accese. Rosso. Molto rosso, e ho fatto in modo che Matilda vedesse…e spiasse anche…Ora Matilda odia Corinna, ma tale dolore era necessario. Si può capire, vero?”
Non capivo. (…).
Il cinque di gennaio venne la neve, e la neve riconciliò Matilda e Corinna. Per me, gli eventi diventavano sempre più incomprensibili.
11 gennaio 19…
La neve ha coperto il giardino, i prati e il lago di ghiaccio oltre il muro. Bianco, bianco, tutto è dolcemente bianco da quassù! Niente spigoli troppo acuti, niente ombre e contrasti, candido e immobile. E’ stato un gioco per me e Matilda, un gioco di quattro giorni davanti alle finestre guardare la neve fitta fitta e leggera, e attendere finché copriva l’angolo più appartato del giardino. Questa uguaglianza, anzi questa indistinzione ci incanta! La neve ha placato tutti i colori. Di mattina la casa è chiara, molto chiara, e poi le pupille si dilatano a raccoglierne l’ultimo bagliore quando la luce se ne va. Camminiamo in punta di piedi nelle stanze e non abbiamo neppure bisogno di parlare.
La lettera dell’amica, che vi ho nominato poco fa, mi raggiunse insieme all’altra posta della settimana che mi veniva rispedita dentro una busta grande o addirittura un pacchetto, quando ce n’era molta. Seguo questa consuetudine ogni anno. La signora si era rivolta a me poiché sapeva del mio rapporto d’amicizia “profonda”, diceva, con Corinna; la quale, continuava, vedeva di sicuro in me, più anziano, quasi un padre, così come lei aveva assunto più di una volta e senza le pesasse, un ruolo materno nei confronti dell’amica. Non precisava che cosa si aspettasse da me, ma non aveva dubbi intorno al mio ruolo, che io invece scoprivo come una novità. Accennava poi, come a faccenda risaputa, agli amanti di Corinna, alle sue instabilità umorali e infine alle giuste preoccupazioni per l’età di Matilda. Su questo ero d’accordo. Il venti di giugno, scriveva sul secondo foglio, era arrivata di pomeriggio presto alla casa di Corinna, verso le quattordici e trenta. Aveva fatto la scala con fatica a causa del caldo che ancora non si era attenuato, e una volta su, si era fermata un momento davanti alla porta a riprendere fiato, prima di suonare. Poi aveva suonato e suonato, ma nessuno era venuto ad aprire, Così era tornata fuori con l’intenzione di chiamare qualcuno in aiuto (non diceva perché dovesse sentirsi in ansia o preoccupata). Invece era tornata a casa e aveva preso la copia della chiave di casa di Corinna e con quella aveva aperto ed era entrata.
Nella prima stanza il profumo era già fortissimo, ma le altre erano letteralmente colme, dal pavimento al soffitto, di centinaia, forse migliaia, di gigli bianchi: convenendo pure che quella era stagione di fioritura, non si poteva capire dove se ne fossero procurati tanti; non restava nemmeno lo spazio per camminare, e aveva dovuto calpestarli per aprire le finestre e cercare la maniera di respirare un’aria che non fosse l’odore stordente dei fiori: diceva che era stata un’esperienza a suo modo terribile, poiché mentre girava per le stanze e si sentiva trapassare le narici, più di una volta aveva dovuto fermarsi per non perdere l’equilibrio e poi per giorni interi non aveva percepito altro odore, ossessivamente, persino nel sonno.
Aveva trovato Matilda e Corinna nella stanza della prima, distese sul letto, addormentate vicine, completamente coperte di fiori. Non era riuscita a sapere da quanto fossero lì perché il loro racconto fu, al risveglio, molto vago e ...
Table of contents
- Cover
- Indice
- Frontespizio
- Copyright
- Quadro primo: “Lucìn era sempre l’ultimo ad arrivare
- Quadro secondo: “Pioveva, di maggio
- Quadro terzo: “Tornava la mamma e Nannina
- Quadro quarto: “Quando faceva caldo capitava
- Quadro quinto: “L’Angela venne a suonare
- Quadro sesto: “La festa del Corpus Domini
- Quadro settimo: “L’orto era da innaffiare
- Quadro ottavo: “La casa della zia era in città
- Quadro nono: “Al mare, nel posto dove
- Quadro decimo: “Dopo il mese, al ritorno
- Quadro undicesimo: “La morte era sottile
- Quadro dodicesimo: “Dopo pranzo partivano subito
- Quadro tredicesimo: “Il giorno dopo la mamma faceva
- Quadro quattordicesimo: “Casa. Ambarabà ciccì coccò
- Quadro quindicesimo: “Il volo di Icaro