Nel frattempo fuori, per le viuzze dirette a Városliget, il bosco
cittadino, che costeggiavano giardini, Elza camminava a passo
svelto con la calma necessaria per le grandi decisioni. La
determinazione con cui voltò l’angolo e attraversò la strada
testimoniava una meta decisa. Procedeva già fra gli atelier dei
pittori. Non c’era anima viva per la strada. Tutto intorno
riposavano casette dai grandi occhi, inserite in giardinetti e
abitate da artisti, che a quell’ora erano già tutti al caffè e gli
atelier erano chiusi. Conosceva una di quelle casette. La
frequentava con sua madre, perché un giovane pittore alla moda
lavorava tutte le mattine al ritratto della mamma.
A una svolta notò tre figure procedere adagio sul marciapiede
opposto. Al centro riconobbe la piccola Manci, alla sua destra
Artur. Alla sinistra camminava la governante francese. Girò loro
alla larga e procedette in fretta. Pensò per un istante alla
piccola Manci e le fece pena vederla agli esordi. Pensò che fra due
o tre anni anche lei avrebbe discettato di Zola e Maupassant e la
sua più grande fortuna sarebbe stata non essere colta in flagrante
da una Exner.
Si fermò all’angolo dove aveva dato appuntamento a Miklós. Il
ragazzo non c’era, e la piccola via asfaltata era completamente
vuota. Aspettare era spiacevole ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Camminò avanti e indietro. In lontananza si sentivano i suoni della
sera di viale Andrássy, l’elegante fragore del rivestimento di
legno. Una modella in ritardo frusciò nel suo vistoso abito di
seta, poi le passò accanto quasi senza fare rumore una vettura con
le ruote di gomma. Miklós non arrivava. Nell’attesa percorse
agitata la viuzza. Sparso qua e là qualche atelier, sull’altro lato
si ergeva la casa di un ricco speculatore di borsa. Il valletto
alla porta era come quelli a Vienna davanti ai portoni dei
principi. Questa riflessione la fece sorridere, poi alzò lo sguardo
sulle finestre del primo piano. Tre di fila erano illuminate. Un
ricevimento, sempre qualche ricevimento – aggiunse nel pensiero –,
tutte sciocchezze, solo amorazzi, musica, “secessione”, tutto
soltanto ricevimento. Non ne poteva più di ricevimenti, di queste
occasioni reputate della decadente società delle fanciulle che sono
anche tribunale, parlamento, ma anche ristorante, sala da ballo e
caffè, stanza dei pettegolezzi, sala da concerto e tutto il resto
dove o si è derise o si è corrotte come le altre. Pensò con aspra
ironia agli ospiti lasciati soli a casa. In quel momento aveva
chiuso con tutto al punto di non badare al ricevimento che si stava
svolgendo a casa sua. In seguito avrebbe trovato una scusa per
giustificare questo passo estremo. Per esempio le suonava bene il
termine “ambiente”. Sì, era stato il suo ambiente a respingerla, la
sua compagnia, la sua famiglia. Poi pensò alle sue letture. E
divenne progressivamente sempre più impaziente, aspettava con
innamorata inconsapevolezza il momento in cui qualcosa avrebbe
condizionato la sua debole forza di volontà fino a costringerla a
non tornare alla vita di società.
Poi le balenò in mente che la piccola Ketty abitava in quella
via. La signorina americana risiedeva sull’altro lato della strada
dal suo zio avvocato possidente. Questa constatazione la turbò,
quindi cambiò strada e da una traversa continuò a tenere
sott’occhio l’angolo dove nella sua lettera aveva dato appuntamento
a Miklós. Tuttavia la sua sventura che agiva da meccanismo
mirabolante la portò incontro alla ragazza americana. Avrebbe
potuto optare per la corsa all’indietro. La provò pure. La piccola
Ketty (che era sola) la rincorse. Al che si voltò e affrontò la
ragazzina con parole flemmatiche: «Perché mai dovrei scappare alla
sua vista?».
Ketty si arrestò come un puledro spaventato.
«Ma guarda, miss Elza!».
«Esattamente, miss Elza».
«Lei ci ha semplicemente piantati in asso».
Elza fu presa da amarezza al pensiero romanzesco che la società,
che lei aveva abbandonato con tanta audacia, allungasse i suoi
tentacoli e la richiamasse alle sue responsabilità nei confronti
dell’etichetta dei ricevimenti. Era indispettita, nei suoi occhi
color noce avvampava ormai un fuoco pressocché selvaggio: «Sì, vi
ho lasciati».
Ora la piccola Ketty era davvero disorientata e se ne
vergognava. Le domandò piano, quasi involontariamente:
«Perché?».
Questa piccola selvaggia americana si era sempre comportata con
lei nel migliore dei modi. Simpatizzava con la ragazza alta e
castana tanto amata dai ragazzi, e che ogni tanto vedeva avvolgersi
in una segreta malinconia. Ora vide che Elza aveva i lucciconi; le
si accostò e la accarezzò.
«Che sta succedendo, miss Elza?».
Elza, che prima si era atteggiata a fuggiasca dalla cattiveria,
ora gradiva la compassione. Eppure avrebbe voluto rimanere fredda
di fronte a tutto ciò che le ricordava in maniera convenzionale la
sua vita fino a quel momento.
«Nulla, nulla…».
Allora la ragazzina la prese sottobraccio, la strinse e le si
accostò: «Miss Elza – disse seria –, so che cos’ha…».
«Oh…».
«… Non deve parlare. Venga a fare due passi, le racconto
qualcosa di interessante e la accompagno a casa».
Elza guardò sopra i giardini spogli.
«A casa…» disse piano, con ironia amara.
«Venga…».
«No – rispose Elza allarmata –, non posso. Devo rimanere
qui…».
Ketty non era sorpresa.
«So che lei sta aspettando qualcuno, miss Elza, so anche
chi».
«Non lo sa…».
«So anche che vuole fuggire».
Si arrestarono di colpo. Elza gridò: «Non è vero! Come fa a
saperlo?!».
Una grande rabbia montava nella sua anima al pensiero che non
poteva tranquillamente scomparire dalla sua ex compagnia.
L’autopsia cominciava già sul suo letto di morte.
«Mi lasci in pace con le sue stupidaggini!» disse con tono
brusco alla ragazza e cercò di divincolarsi con un gesto violento.
Ketty, però, la teneva saldamente come una presa d’acciaio elegante
e scintillante.
«Non è una stupidaggine – disse Ketty –, è la verità. E se
continua a strattonare, le do un pugno».
Elza sorrise.
«Ecco, proseguiamo. Di là non c’è nessuno».
E la trascinava verso casa. Elza camminava.
«Lei qui stava aspettando quel ragazzo per scappare insieme. Non
lo aspetti più, non verrà».
«Invece verrà».
«Le dico che non verrà. L’ho appena visto con la piccola Manci e
la governante, stavano andando in centro».
Elza constatò con un sorriso quanto fosse ingenua la bambina, e
in fondo era contenta che non conoscesse la verità. Ketty credeva
che lei stesse aspettando Artur. Artur…
L’americana era sincera: «Non ne vale la pena. Mister Artur è un
ragazzo insolente, cattivo! Tempo fa l’avevo sentito dire certe
cose di lei ai ragazzi. Non ha carattere. Un giorno lo
picchierò».
A Elza fece piacere che qualcuno le rinforzasse il rifiuto, che
alimentasse in lei il desiderio sempre più vigoroso di morire e di
rinascere in una vita nuova, giacché in questa vita la aspettavano
solo infelicità e disgusto.
«Da noi in America lo avrebbero già corcato di botte. Nessuno
osa parlare male di una ragazza! Bleah, a Pest, invece! So che mi
rimprovereranno anche oggi perché torno a casa da sola. Ma non
m’importa. Magari mi parlasse un mister ungherese per strada. Gli
darei un pugno in testa, due sul petto, piff, puff!».
E aggiunse quasi dispiaciuta: «Ma finora nessuno si è azzardato
a comportarsi male con me…».
Divenne sempre più buio, scese la sera invernale senza neve ma
bianca, di freddo asciutto. Gli atelier si innalzavano
nell’oscurità come tanti piccoli castelli ricoperti di neve, ed
Elza sentiva che Miklós non sarebbe più venuto. Era passata già
un’ora. Ketty parlava al suo fianco, velocemente, a tratti
inciampando nelle parole e con accento inglese. Non le prestava più
attenzione. Le camminava accanto insensibile, immersa nell’unico
penoso pensiero che Miklós non era venuto a prenderla. Provava ad
attutire la disperazione pensando che Miklós non lo aveva promesso,
era stata lei a chiederglielo nella sua lettera implorante. Poi si
indignò, perché leggendo una lettera simile il ragazzo sarebbe
dovuto venire. Stava pensando a Miklós che, a quanto pareva, non
voleva legare la propria vita alla sua, che aveva i suoi progetti,
le sue mete da raggiungere, quando la colpì una frase pronunciata
da Ketty addirittura due volte, e con voce determinata: «Lei si
deve sposare!».
Si fermarono.
«Si deve sposare!» ripeté Ketty con un tono come se avesse
ragione. Continuò più piano: «Sposarsi, miss Elza, e abbandonare
questa compagnia. Basta con i ricevimenti, meglio giocare a tennis.
D’estate nuotare, arrampicarsi sui monti. Mangiare bene, miss Elza,
e se proprio vuole leggere, leggere buoni libri. Ha letto
I pionieri
?».
«No…».
«
Il cacciatore di daini, lo ha letto?»
«Neppure».
«Male. Ha letto
Un cacciatore di scalpi?»
«No».
«Lo leggerà. Una volta ho cominciato a leggere un romanzo
francese ma mi sono stancata alla quinta pagina. Una donna non
amava suo marito e amava un altro. Si può leggere una roba
siffatta?».
Elza rispose: «Non si può».
«Succedeva tutto nei boudoir e ai ricevimenti. Nemmeno un
indiano tra i protagonisti. A me piacciono i romanzi in cui alla
fine il
nigger viene immerso nel catrame e rotolato fra le
piume…»
Rise di cuore: «Ha letto
Nick, l’avaro? Nick è così taccagno che non compra neppure
il bottone per la camicia ma aggancia il colletto a una verruca… Un
libro molto divertente!».
«Chi l’ha scritto?».
«Che ne so! Che me ne importa!».
Tacquero. Ketty pensava all’avaro Nick e si immaginava la scena
in cui abbottonava il colletto alla verruca. La trovava molto
divertente. Percorrevano inosservate le vie silenziose verso
casa.
«Bisogna sposarsi – disse Ketty, divenuta improvvisamente seria
–. Deve sposare un brav’uomo. Non uno di Lipótváros
».
Faceva la donna di mondo: «Sono i peggiori – aggiunse –, giocano
a carte, non stanno mai a casa».
Elza notò che stavano andando a casa. Si strinse balzana nelle
spalle. Già che non la vuole neppure Miklós – pensò –, perché non
tornare a casa? E in fondo la piccola Ketty aveva ragione. Doveva
sposarsi. Se non per altro, per fuggire dal suo attuale
microcosmo.
Pian piano giunsero al portone di via Nádor. Elza fu presa dalla
paura del ritorno. Ricorse istintivamente alla risorsa della
bugia.
«Che cosa devo dire a mamma?».
Ketty la guardò stupita. Elza domandò di nuovo: «Che cosa le
dico, dove sono stata?».
«Per carità di Dio – esclamò Ketty –, non vorrà mica mentire,
miss Elza?». E le rivolse un’occhiata di tale infantile stupore e
sconcerto che a Elza di colpo venne la voglia di raccontare la
verità a casa.
«Se vuole salgo con lei» si offrì Ketty.
«No, grazie…».
Si salutarono con un bacio ed Elza scomparve sotto il portone.
In fondo alla scalinata si fermò per riflettere. Non si può
sbattere tutto così in faccia a sua madre, però…
Ketty le gridò appresso: «Salire! E niente bugie! Bleah a chi
mente!».
Questo grido intemerato e infantile acquietò l’anima di Elza.
Prese a salire le scale con l’intento determinato e tranquillo di
raccontare a sua madre la storia così come era accaduta. Poiché era
fortemente convinta della propria innocenza, pensò anche a ciò che
il giorno prima suo padre aveva rinfacciato a sua madre nell’altra
camera. Raggiunta la porta le sembrò di essere colpita dal profumo,
dall’odore colpevolmente denso e inebriante della casa, dal respiro
caldo come l’inferno in cui continuerà a vivere, ormai non potendo
contare neppure su sua madre. Sentiva che la breve quiete la doveva
alla fredda serata invernale e all’onesta signorina d’acciaio del
nuovo mondo. Ora sarebbe ricominciato tutto da capo.
“Bisogna sposarsi”, ronzava nella sua anima.
Suonò e quando comparve la cameriera e le aprì la porta con viso
incantato e raggiante di gioiosa sorpresa, decise che si sarebbe
sposata. Al trillo del campanello arrivò anche la mamma, dal salone
fuoriuscì il profumo caldo, dalla porta della cucina rimasta aperta
un po’ di odore di cucinato, le lampade elettriche producevano
illuminazione, faceva caldo.
Bisogna sposarsi, ripeteva fra sé, e gettò le braccia al collo
di sua madre.
Bisogna sposarsi, diceva la piccola Ketty che si incamminava
veloce per la via illuminata sotto i primi fiocchi di neve, mentre
da dietro il manicotto si guardava intorno cauta e indispettita per
vedere se ci fosse un impertinente mister magiaro che lei avrebbe
potuto colpire in testa e due volte sul petto, piff, puff…