Benedetta crisi!
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Benedetta crisi!

Il contagio della fede nella Chiesa che verrà

Erio Castellucci, Lorenzo Fazzini

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Benedetta crisi!

Il contagio della fede nella Chiesa che verrà

Erio Castellucci, Lorenzo Fazzini

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«Pregate sempre per me perché io abbia il coraggio di rimanere in crisi»: è l'intenzione paradossale espressa da papa Francesco nel Natale 2020 ad aprire la riflessione di Erio Castellucci, che in queste pagine cerca di delineare una "spiritualità della crisi". Difficoltà, scompensi, sconvolgimenti non sono scherzi del destino, ma tappe obbligate di qualsiasi percorso personale e sociale. Sono eventi che scuotono, che fanno perdere l'equilibrio e piombare nell'incertezza, ma non sono solo negativi, non significano rovina e distruzione. Non soltanto la storia in generale, ma proprio la storia biblica è piena di personaggi inquieti, che attraversano fatiche e sofferenze dalle quali nascono strade di salvezza.
Nel nostro tempo alle tante emergenze del mondo globalizzato - guerre, terrorismo, clima, migrazioni - si aggiungono per la Chiesa povertà morali e strutturali: calo della partecipazione, crollo delle vocazioni, secolarizzazione, scandali tra i religiosi, irrilevanza nella società. Un dissesto epocale, che potrebbe portare a un giudizio sconfortato sul valore della stessa fede. Ma sarebbe una conclusione frettolosa. Se osserviamo ciò che è avvenuto nei secoli, vediamo che i periodi più tormentati sono quelli in cui la santità della Chiesa è fiorita, perché la crisi non è solo un fatto, ma una dimensione dei corpi vivi e un sintomo di coraggio e progressione. Se i cristiani si sentono oggi una minoranza, se la fede non costituisce più un presupposto comune, anzi viene emarginata o negata, allora è il momento di riscoprirsi piccolo gregge e di lasciarsi mettere in crisi dal Vangelo.
Un libro che motiva con lucidità e passione la scelta di un cattolicesimo più evangelico, più semplice, più fedele allo stile di Gesù.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858528761
Parte Seconda

La crisi della Chiesa come cambiamento epocale

Se la Chiesa vive nel mondo, e non lo sorvola, non dovrebbe andare in crisi anche oggi? Certo che la Chiesa è in crisi, e deve esserlo! Scrive Andrea Riccardi:
La “crisi” è una condizione normale per la Chiesa, che sa di non essere destinata al trionfo o al controllo della società. Gli storici hanno ridimensionato le costruzioni mitiche dell’“età dell’oro” della cristianità, in gran parte collocate nel passato. Le crisi ci sono sempre state, fin dalle origini. Il grande rischio delle crisi è accontentarsi di sopravvivere […]. La crisi non è il declino. Nel declino, la Chiesa lavora solo alla sopravvivenza. La via, che può sembrare una non soluzione, è vivere evangelicamente nella crisi1.
C’è comunque crisi e crisi. Oggi in Europa, come documenta ampiamente lo stesso Riccardi, attraversiamo una crisi epocale: non solo un’epoca di cambiamento, ma un vero e proprio cambiamento d’epoca, come disse papa Francesco alla Chiesa italiana riunita a Firenze, il 10 novembre 20152. Quattro anni dopo spiegò lui stesso, incontrando la Curia romana, che cosa intendesse per «crisi epocale». Richiamate le parole di Firenze, aggiunse:
Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza […]. Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata3.
Nello stesso discorso il papa richiama la necessità correlativa di altre «mappe», altri paradigmi per impostare la missione. Il riferimento, nemmeno tanto implicito, è al celebre saggio degli anni Sessanta La struttura delle rivoluzioni scientifiche, nel quale il filosofo della scienza Thomas Kuhn introdusse il concetto stesso di “paradigma” nel dibattito epistemologico4. Quell’autore sosteneva che la scienza sperimentale avanza non solo per «evoluzioni» ma per vere e proprie «rivoluzioni»: ogni tanto, infatti, essa cambia completamente paradigma – mantenendo però alcuni risultati di quello precedente – e ripensa l’intera realtà all’interno di un sistema di pensiero del tutto diverso dal precedente. Simili cambiamenti, assieme alle controversie che quasi sempre li accompagnano, sono le caratteristiche che definiscono le rivoluzioni scientifiche:
Rivoluzioni scientifiche sono quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello. Le rivoluzioni politiche sono introdotte da una sensazione sempre più forte, spesso avvertita solo da un settore della società, che le istituzioni esistenti abbiano cessato di costituire una risposta adeguata ai problemi posti da una situazione che esse stesse hanno in parte contribuito a creare. In una maniera più o meno identica, le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente, anche questa volta avvertita solo da un settore ristretto della comunità scientifica, che un paradigma esistente abbia cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di un aspetto della natura verso il quale esso aveva precedentemente spianato la strada. Sia nello sviluppo sociale sia in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione5.
La «crisi del paradigma», come la descrive Kuhn, non è mai una svolta improvvisa, ma viene preparata da tante critiche ed eccezioni, e da molti aggiustamenti. Tale, per esempio, è stato il passaggio dal paradigma tolemaico a quello copernicano; prima di abbandonare il primo, gli scienziati elaborarono molti correttivi (come la teoria degli epicicli), ma inesorabilmente risultò necessario cambiarlo: tuttavia «vi sono sempre alcuni che rimangono attaccati all’una o all’altra delle vecchie concezioni […]. Coloro che sono restii o incapaci di adattare a esso la loro ricerca devono continuare isolati o devono aggregarsi a qualche altro gruppo6».
Kuhn riassume la dinamica del passaggio a un nuovo paradigma con espressioni che si potrebbero adattare benissimo al cambiamento epocale che stiamo vivendo nella Chiesa:
La transizione da un paradigma in crisi a uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. È piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che modifica alcune delle più elementari generalizzazioni teoriche del campo, così come molti metodi e applicazioni del paradigma. Durante il periodo di transizione, vi sarà una sovrapposizione abbastanza ampia, ma mai completa, tra i problemi che possono venire risolti col vecchio paradigma e quelli che possono essere risolti col nuovo. Ma vi sarà anche una netta differenza nei rispettivi modi di risolverli. Quando la transizione è compiuta, gli specialisti considereranno in modo diverso il loro campo, e avranno mutato i loro metodi, e i loro scopi7.
Se sostituiamo alla parola “specialisti” l’espressione “operatori pastorali”, la sovrapposizione è praticamente perfetta: la “cristianità” assomiglia al sistema tolemaico, che ha funzionato bene fino a un certo momento, ha sostenuto calcoli e progetti, ma ora esige, più che di essere corretta, di essere sostituita con un nuovo paradigma. Sì, ma quale? Esiste nell’immaginario pastorale e missionario cattolico qualcosa di simile a un paradigma copernicano-galileiano o, magari, a un paradigma quantistico?

1. Il cambio di paradigma del Concilio Vaticano II

Azzardo già l’inizio di una risposta: non è finito il cristianesimo, è finita quella che qui sopra abbiamo chiamato la “cristianità” e che per molti secoli è stata definita dal termine latino christianitas. Ossia quel sistema che, nel bene e nel male, aveva creato un’alleanza istituzionale tra Chiesa e società, tra cristianesimo e cultura, tra religione evangelica e religione civile. Anche nel bene, certo: un’osmosi di valori facilitava la condivisione di idee, metodi e obiettivi; una buona consonanza di interessi permetteva alle comunità cristiane di offrire un apporto culturale apprezzato, omogeneo a quel complesso di idee comuni, fino alla condivisione della “legge naturale”, che creava un terreno comune tra diverse visioni della vita e differenti parti politiche.
Ricordo un vicino di casa, quando ero ragazzo, di salda fede repubblicana. In Romagna, un tempo, i repubblicani erano i veri anticlericali, ancora più dei comunisti. Lui aveva il vizio di sparare continuamente contro la Chiesa e purtroppo anche quello, certo più grave, di bestemmiare. Ogni tanto alla sera veniva a casa dei miei a giocare a carte, insieme ad altri due amici di famiglia. Dalla mia stanzetta nella quale avrei dovuto recuperare i compiti non fatti nel pomeriggio, origliavo in realtà le chiacchiere dei grandi. Rimanevo colpito dall’asprezza dei contrasti politici tra questi amici: il vicino repubblicano, mio padre socialista e gli altri due giocatori – per il “marafone” bisogna essere in quattro – di area democristiana. Erano fuochi d’artificio, conditi da espressioni colorite in dialetto romagnolo: non mi meravigliavano tanto le parolacce, quanto il fatto che le dicessero anche i due democristiani, che vedevo ogni domenica a Messa. Ma non voglio dilungarmi, perché il mio intento è un altro: i quattro litigavano su tutto, non solo sulla politica; litigavano sullo sport, sul lavoro, sulle donne e sui motori, ma erano sempre d’accordo sui valori. Ovviamente non discutevano sui valori in astratto, ma in riferimento a fatti di cronaca locali, nazionali o mondiali. Non c’era alcuna polemica tra di loro, per esempio, sull’indissolubilità del matrimonio, né sull’intangibilità della vita umana fin dal concepimento e neppure, per quanto ricordo, sulla condanna della guerra (tutti e quattro erano stati arruolati come soldati nel secondo conflitto mondiale). Non credo che questo fenomeno fosse un’eccezione; ho l’impressione, anzi, che fino a mezzo secolo fa fosse la regola nel nostro paese, come dimostra del resto – a un livello altissimo – la confluenza valoriale nella Costituzione italiana di visioni della vita così diverse tra loro, come quelle comunista, liberale e cattolica.
A livello mondiale, però, la christianitas era già stata superata in linea di principio dal Concilio Vaticano II, la cui recezione è ancora in atto.

Dall’ecclesiologia di comunione all’ecclesiologia di missione

Se dovessi individuare il perno dell’ecclesiologia conciliare, sceglierei l’idea della “missione” come dimensione costitutiva della Chiesa. Molti interpreti, tra i quali i vescovi riuniti nel Sinodo straordinario del 1985 a Roma, hanno definito l’ecclesiologia conciliare «di comunione8»; è certo vero, purché venga intesa nel senso di una “comunione missionaria”. L’idea di comunione infatti aveva già strutturato l’enciclica di Pio XII Mystici Corporis9 (1943) e si poteva perfino riscontrare nelle ecclesiologie corporative e societarie dei secoli precedenti. Non dimentichiamo che nel 1962, quando i padri del Vaticano II si riunirono, avevano già a disposizione un libro appena pubblicato in francese da Jérôme Hamer, dal titolo La Chiesa è una...

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