Storia del mare
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Storia del mare

Alessandro Vanoli

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Storia del mare

Alessandro Vanoli

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Una storia del mare. Che racconti la geologia, gli uomini delle coste, le scoperte, le navi, le guerre, i miti e i sogni. Ma anche e soprattutto i pesci e gli altri esseri marini. Una storia insomma che tenga assieme tutto, uomini e animali. E naturalmente un viaggio del genere non può e non vuole essere una cronaca minuziosa di fatti e cose. Piuttosto, intende essere un racconto, fatto di volti, immagini, suoni e colori, con la speranza di restituire un po' di quello stupore che gli abissi ci hanno sempre dato.

Così ecco il grande libro del mare: comincia in un infinito passato, quattro miliardi di anni fa, raccontando una geologia antica e gli inizi della vita, i dinosauri e i pesci primitivi, i mari scomparsi e le grandi catastrofi. E poi giù negli abissi, per riemergere tra barriere coralline, zone acquitrinose, scogli o spiagge di sabbia. Quindi naturalmente la storia. Quella delle prime colonizzazioni, dei mezzi e delle antiche imbarcazioni per affrontare il mare e della nascita dei porti. La storia dei grandi miti, quelli biblici e quelli omerici. E le civiltà: i fenici, i greci, i romani; e attorno a questo le rotte dei mercanti, le storie delle anfore, del corallo; i racconti dei pellegrini e dei vichinghi in America e dei cinesi nell'Oceano Indiano. Una storia fatta anche delle cose più note: la bussola, le caravelle, Cristoforo Colombo, Magellano, Vespucci e i pirati dei Caraibi. Senza mai dimenticare che tutto questo ha a che fare anche con le balene e gli squali, con i tesori nascosti, con le leggende del kraken, del maelstrom, dell'olandese volante e di tutto quanto ha alimentato la nostra fantasia per secoli. Sino al presente, ovviamente, alla crisi ambientale e allo scioglimento dei ghiacci. Perché fare una storia del mare vuol dire sì parlare dei nostri sogni più profondi, ma anche ricordarci che alla fine siamo solo una specie tra altre specie. Siamo parte del mare ed è questa forse la cosa che più conta in tutta questa avventura millenaria.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858149553

Parte quinta.
La conquista del mare

Le rotte dell’Atlantico

Le avreste viste partire, quella sera di maggio dell’anno 1291: tra la folla sui pontili del porto di Genova, due galee allontanarsi verso l’orizzonte. E siccome due galee che si allontanano sono uno spettacolo piuttosto monotono, avreste avuto magari il tempo di guardarvi attorno, e notare la ricchezza. Perché dopo la battaglia della Meloria, col bottino strappato a Pisa, stavano costruendo la darsena, l’arsenale, il rimessaggio, oltre a due nuovi bacini, uno destinato alla flotta di galee e l’altro al traffico del vino. Persino la sede del Capitano del Popolo, lì davanti a Sottoripa, era recente. Insomma, a tornare a Genova in quegli anni si rischiava davvero di non riconoscerla, perché tutto stava cambiando a un ritmo vertiginoso. Quello di Genova era ormai un impero: dalla Spagna, all’Africa, al Levante, non c’era porto dove non giungessero i suoi emissari e dove non si scambiassero le sue merci. Quello di Genova era un mondo che cresceva col mare. E proprio perché cresceva col mare, questo mondo poteva sopravvivere solo grazie a nuovi mercati, nuove rotte e nuovi confini da superare. Era il suo destino.
Ecco perché si combatteva, ecco perché pochi anni prima altri genovesi avevano aperto la via Atlantica del Nord, verso la lana delle Fiandre. Ecco il perché di questo ennesimo viaggio che ora cominciava: Ugolino Vivaldi e suo fratello Vadino, assieme ad alcuni signori della città e a due frati francescani, lasciavano dunque il porto, a bordo della Allegranza e della Sant’Antonio, «due galee ottimamente armate», si scrisse negli Annali della città, «cariche di vettovaglie, acqua e le altre cose necessarie». Da lì navigarono lungo il Mediterraneo verso lo stretto di Ceuta e da quel punto «verso il mare Oceano alle parti dell’India». Quale fosse esattamente il piano non ci è dato sapere: costeggiare l’Africa, questo è sicuro; poi avventurarsi verso sud, proseguendo la navigazione di cabotaggio. Ma sino a quando? Verso dove? Non lo sapremo mai. Li avvistarono dopo che ebbero passato il luogo chiamato Gozora, cioè più o meno verso l’attuale Capo Juby, che sta di fronte alle Canarie. Poi più nulla. Sparirono per sempre oltre quel limite che nessun uomo aveva ancora mai visto e nessuna carta aveva mai segnato.
E per quanto la storia di questi navigatori sfortunati possa sembrare una fine, si trattò invece di un inizio. Perché la spedizione dei fratelli Vivaldi è forse il primo tangibile segno del grande salto in avanti che stava per cominciare. Nello spazio di pochi decenni altre navi presero a salpare, sempre più numerose, e salpando si avventurarono ancora più in là, seguendo nuove correnti e nuovi venti. Quella rotta seguita dai fratelli Vivaldi – e di cui in realtà, come si è capito, sappiamo ben poco – in realtà stava spingendo sempre di più altri marinai verso i porti del Marocco e lungo le coste d’Africa; e pochi anni dopo fece finalmente riscoprire le Canarie.
Si era più o meno attorno al 1341, quando da Lisbona salparono due navi di considerevoli dimensioni, con una ciurma mista composta da portoghesi, castigliani, catalani e italiani. Sicuramente si avventuravano su una rotta tracciata già da avvistamenti precedenti. Ma altrettanto sicuramente non si aspettavano di trovarvi degli abitanti: uomini e donne che se ne andavano nudi; «selvaggi per gli usi e i costumi», scrissero. Si avventurarono ancora oltre e giunsero a Canaria, quella che oggi chiamiamo Gran Canaria. Altri abitanti, anch’essi nudi, anche se quelli che parevano più importanti andavano vestiti di pelli di capra tinte di rosso e di giallo.
La storia di questa spedizione ha avuto un narratore d’eccezione: fu Giovanni Boccaccio a scriverne il resoconto nel 1342. E da un certo punto di vista è un peccato che sia stato un letterato come lui a farlo e non un marinaio, perché quello che ci ha lasciato è soprattutto una reazione alle genti incontrate, mentre quasi nulla dice della navigazione. In ogni caso, da letterato e umanista qual era aveva capito che quel luogo doveva essere quello anticamente incontrato dai romani e raccontato da Plinio: aveva capito cioè che si trattava più che altro di una riscoperta.
Pochi anni dopo, l’attrazione esercitata dall’Atlantico e dalla rotta per le Canarie era già evidente. Sappiamo di numerosi viaggi da Maiorca alle Canarie già a partire dal 1342, ma il primo documento che attesta un interesse ufficiale da parte dei sovrani di Castiglia risale al marzo del 1345: si parla del tentativo da parte del papa di investire un nobile spagnolo, tale Luis de la Cerda, del diritto di conquista del regno insulare del «Principato di Fortunia». L’idea era già dal nome parecchio inverosimile, ma ciò non tolse che il re di Castiglia rivendicasse i suoi diritti sulle Canarie, che secondo lui facevano parte dei territori della corona sin dal tempo dei visigoti. Naturalmente la cosa non era per nulla così ovvia: in quegli anni anche aragonesi e portoghesi fecero alcuni tentativi di conquistare le Canarie. Intanto i castigliani continuarono le incursioni, a volte anche per fare schiavi, come nel 1393, quando nell’isola di Lanzarote furono catturati anche un capo indigeno e sua moglie. Poi arrivarono alcuni avventurieri francesi, che riuscirono per primi a stabilire una colonia permanente nell’arcipelago. Si posero sotto la protezione della corona di Castiglia e così andò a finire che Lanzarote, Fuerteventura e l’Isola del Ferro divennero feudi del re spagnolo.
Fu uno di quegli eventi quasi casuali che cambiano la storia. Perché questo possedimento mise la Castiglia nelle condizioni di impadronirsi letteralmente del resto dell’Atlantico. Non solo perché le Canarie erano poste quasi al centro dell’oceano, ma anche e soprattutto perché si trovavano in posizione quasi opposta rispetto agli alisei: erano cioè il punto ideale per partire all’esplorazione di quell’orizzonte immenso. Oltre le Colonne d’Ercole, infatti, i venti e le correnti dell’Atlantico tendono a portare naturalmente le navi verso sud-ovest; e al ritorno le costringono a fare ampie deviazioni verso nord.
Insomma, si era ancora alla fine del Trecento, ma ormai era evidente che la partita era aperta. La terra era rotonda: lo sapevano tutti almeno dai tempi di Tolomeo; e se era rotonda, i tesori della via della seta potevano essere raggiunti attraverso gli oceani. Curioso a dirsi, ma era l’Oriente a spingere l’Europa verso occidente; soprattutto ora che le vie tradizionali erano controllate dai nuovi conquistatori musulmani. Così ogni anno, navi di qualsiasi tipo si avventuravano nell’oceano. E ogni anno i marinai aggiungevano informazioni preziose riguardo ai venti, alle correnti e alle isole più sperdute.
Tra l’altro è ormai abbastanza certo che anche la memoria delle esplorazioni vichinghe sulle coste americane non fosse andata del tutto perduta, anche a sud della Scandinavia. Proprio recentemente è stata studiata la Chronica universalis del domenicano milanese Galvano Fiamma, opera inedita del 1340. In essa appare un chiaro riferimento alla terra di Marckalada, certamente la Markland delle saghe norrene:
I marinai che percorrono i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia [...]; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche.
Se a metà del Trecento conoscenze simili potevano giungere sino a Milano, viene da chiedersi quante e quali voci circolassero già pochi decenni dopo sulle rotte dell’Atlantico.

I portoghesi verso l’Africa

L’apertura delle nuove rotte atlantiche portò con sé l’adozione di nuovi metodi di navigazione e soprattutto di nuovi tipi di navi, più resistenti e adatte all’oceano. Il luogo dove questo avvenne fu il Portogallo; e in fondo è comprensibile, visto che si trovava all’intersezione tra il sistema marinaro mediterraneo e quello nordatlantico.
Certo, a guardarlo su una cartina, sembra quasi inverosimile che proprio il Portogallo potesse fondare il primo impero marittimo: un piccolo regno che nel XV secolo doveva avere poco più di un milione di abitanti, per lo più agricoltori e pescatori. Un paese decisamente povero rispetto alle ricche città italiane o ai grandi regni come la Francia o l’Inghilterra. Ma un paese che aveva dalla sua la geografia adatta e un’idea di conquista che si portava dietro dalle guerre contro i musulmani. Bastava solo il re giusto. E quello arrivò negli ultimi anni del Trecento. Figlio di Giovanni I, fu chiamato Enrico, ma tutti lo avrebbero conosciuto anche come il Navigatore.
Viaggi portoghesi
A Sagres Enrico fondò un centro dedicato all’esplorazione oceanica e si circondò di geografi, astronomi e avventurieri. Da lì prese ad addestrare capitani e piloti, organizzare spedizioni lungo la costa africana e raccogliere informazioni astronomiche e oceanografiche. Nel 1419 cominciarono i viaggi; e non furono subito un successo: ancora troppo scarse la tecnologia navale e la perizia dei marinai. Si avventuravano verso sud, a bordo di quelle che chiamavano barcas o barineles e che sino a quel momento erano state usate soprattutto per la pesca e per il commercio: imbarcazioni aperte o semicoperte di venticinque-trenta tonnellate, lunghe circa ventidue metri e larghe cinque; uno o due alberi con vele quadre, e remi per viaggiare con vento avverso. Scendevano lungo la costa di giorno e gettavano l’ancora di notte. La navigazione verso sud era facile perché gli alisei sospingevano le imbarcazioni. Il viaggio di ritorno invece era un lento incedere lungo la costa remando controvento oppure approfittando delle brezze che soffiavano in direzione del mare di notte o verso terra nelle ore calde della giornata. Per quindici anni partì una nave ogni anno in quella direzione. Per quindici anni i marinai di Enrico dovettero arrendersi davanti a Capo Bojador, a circa millecinquecento chilometri di distanza dal Portogallo.
Nel frattempo, però, altri esploratori avevano navigato in direzione ovest scoprendo le Azzorre tra il 1427 e il 1431. A quella latitudine, più o meno quaranta gradi nord, i venti sono detti occidentali perché soffiano verso l’Europa portando pioggia sulle regioni a nord di Lisbona. A differenza dei costanti e affidabili alisei, le correnti occidentali sono variabili e spesso burrascose; tuttavia permettevano viaggi di ritorno più facili e rapidi del cabotaggio lungo le coste africane. E in quelle ampie deviazioni alla ricerca di venti di ponente poteva capitare persino di ritrovarsi in un arcipelago sperduto a mille chilometri dalla costa più vicina. E fu così che i portoghesi fecero delle Azzorre una delle punte avanzate della loro gara lungo le rotte atlantiche: vi seminarono il grano e vi allevarono pecore allo stato brado.
Ma in tutto questo, la scoperta della volta do mar largo, ossia del modo per compiere il viaggio di ritorno sull’oceano, rappresentò il vero giro di boa nella storia della navigazione. Ormai era solo questione di tempo.
Nel 1434, Gil Eanes doppiò Capo Bojador con una barca. Da quel momento in poi i marinai di Enrico proseguirono assai più rapidamente e audacemente lungo la costa africana. Nel 1445 Dinis Dias doppiò Capo Verde, l’estrema punta occidentale dell’Africa; dieci anni dopo Alvise Da Mosto detto Cadamosto, veneziano al soldo di Enrico, scoprì le isole di Capo Verde e il fiume Gambia. All’epoca della morte di Enrico, nel 1460, le navi portoghesi commerciavano con la Guinea esportando panno e oggetti in ferro in cambio di pepe, oro e schiavi. Le esplorazioni erano diventate un affare redditizio. Ma era ormai diventato evidente che barcas e barineles non fossero proprio le imbarcazioni adatte a simili viaggi, che potevano durare anche mesi. Peraltro anche le cocche nordiche o le navi tonde mediterranee erano inadatte per quei mari: impossibili da manovrare lungo coste sconosciute o incapaci di navigare controvento. I tempi erano maturi per nuove tecnologie e nuove imbarcazioni.

Caravelle, caracche e altre imbarcazioni

Tra Quattrocento e Cinquecento (e pure in altri periodi) non è sempre facile capire cosa si intenda esattamente con i vari nomi delle imbarcazioni. Le parole cambiano a seconda degli anni, delle zone e persino delle esperienze personali. Ma qualcosa era evidentemente successo. Anno dopo anno, navigazione dopo navigazione: le vecchie imbarcazioni mediterranee, lente, impacciate, governabili solo a remi, avevano lasciato il passo sull’oceano a nuove forme e nuove tecnologie.
Nei porti si cominciavano a vedere sempre più spesso imbarcazioni fatte grosso modo così. A poppa un cassero, che era il ponte di poppa sotto il quale stava la cabina del comandante; più o meno lì stava anche la barra del timone. A prua un altro castello, che era il punto da cui si potevano manovrare vele e ancore. Poi tre alberi armati con vele quadre o latine. Ecco, quella era una caravella.
E la caravella era sostanzialmente un ibrido che riuniva le migliori caratteristiche delle navi mediterranee e atlantiche: una via di mezzo tra le galee e le cocche atlantiche. Misure relativamente contenute: la nave dislocava, come si dice tecnicamente, dalle 100 alle 200 tonnellate, per una lunghezza di circa una ventina di metri. Lo scafo era realizzato con la tecnica detta a «giustapposto»: con le tavole del fasciame, cioè, avvicinate l’una all’altra allineandole secondo il loro spessore. Le vele potevano avere almeno due configurazioni. O vele latine (cioè triangolari), usate soprattutto per le navigazioni costiere; oppure vele quadre, per le navigazioni in oceano aperto. Al tempo infatti la vela quadra funzionava meglio per una navigazione col vento in poppa, seguendo magari la rotta tracciata dagli alisei; le vele latine, invece, permettevano di stringere il vento meglio delle vele quadre, pur consentendo comunque la navigazione di poppa. In pieno oceano inoltre la vela latina presentava alcuni pericoli aggiuntivi, visto che ammainare la sua grande antenna in caso di violenta tempesta...

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