Tutti gli anni mi scrivono che compagni d’infanzia e amici si sono riversati al paese da ogni angolo della terra e che giorno e notte in piazza e per le strade sembra festa. Quest’estate ho deciso di scendere anch’io. Sono venuto a posta per fare il biglietto di andata e ritorno e la prenotazione della cuccetta per domani notte. Il viaggio è lungo. Ad avere sghei varrebbe la pena prendere l’aereo. In poche ore sarei a Reggio. Ma i soldi sono in queste banche. Alzo gli occhi sull’austero edificio della Banca Nazionale.
Il tempo è magnifico; sento tanta pace dentro di me. Mi piace camminare per la città. Più tardi passerò dal bar nella Militarstrasse, per chiacchierare con qualche amico. Passerò anche dalla Libreria Italiana per comprare un tascabile. Mi terrà compagnia durante le venti ore di corsa folle verso il Sud. Arrivo sul lago. È una magnificenza, il lago. Zeppo di motoscafi che corrono come le rondini. Ci sono cigni, a centinaia; ci sono bagnanti. Due traghetti sono in partenza per l’altra sponda. Sono affollati di gitanti; ed è una bellezza vedere i colori delle vesti e delle camicie che sventolano alla brezza che viene dalla gola dei monti, laggiù in fondo, verdi e coperti di boschi. Mi soffermo a guardare un gruppo di ragazzi che sguazzano allegramente nell’acqua non proprio pulita. Strillano e lottano, mentre i cigni li osservano con aria infastidita. Nel parco lungo il lago il viavai di gente di tutto il mondo è fitto e continuo. Gli italiani sono in maggioranza. Camminano a gruppi. Scherzano, si spingono, parlano ad alta voce. Mi basta cogliere una parola e so se chi parla è pugliese o lucano. Non ho bisogno di conversare con lui, per conoscere la sua storia. La sua storia è uguale alla mia. Diverso è con i veneti, o con i lombardi. I veneti non sono in minor numero che noi meridionali. I lombardi salgono a lavorare in Svizzera solo perché guadagnano un pochino di più. Non per altre ragioni. Essi, i veneti e i lombardi, fanno gruppo a sé. Come se fossero di un’altra nazione, di un’altra razza.
Gisela al telefono non risponde. Sarà partita senza dirmi niente. Anche sabato scorso non si è fatta sentire. Mi sarebbe piaciuto trascorrere un’ora con lei, prima di scendere al Sud. Scorgo la finestra della sua camera di là dal lago. Ci ho trascorso diverse ore indimenticabili in quella camera… Forse è meglio che Gisela non c’è. Altrimenti mi si attaccherebbe al collo e vorrebbe fare il viaggio insieme a me.
Trovo che il mondo è magnifico e che vale la pena vivere, mentre sto seduto alla panchina. Il treno per Wettingen è alle dodici. Ce ne sarebbe uno prima. Ma quello delle dodici mi torna ad hoc. Tanto a casa che farei? Non c’è nessuno, a casa. I ragazzi sono andati a Colonia con i nonni che vi hanno dei parenti… Più lo guardo e più mi piace, il lago. Anche la città mi piace, con i suoi giardini pubblici e i suoi colli. Ricordo la prima volta che ci sono venuto, quasi vent’anni fa. Mi pareva di essere arrivato nel paradiso… Eccolo il Politecnico. Dicono che al Politecnico insegnano delle teste di fama mondiale. Sarei strafelice se Michele, a suo tempo, vi si potesse iscrivere. Sono disposto a sacrificarmi per lui, anche per Marianna veh!, tanto quanto mio padre si sacrificò per me… Ma forse non ha lo stesso significato e lo stesso peso. Quello che mio padre fece per insegnarmi il mestiere non è credibile. A raccontarlo, per molti non ha senso. In ogni modo, cominciamo a preoccuparci fin da ora, io e mia moglie, del futuro dei nostri figli. Risparmiamo, affinché possano concludere gli studi. Se ne avranno voglia. Altrimenti a sedici anni ci sarà il lavoro ad attenderli. A loro la scelta… E dire che fra quarantotto ore sarò laggiù. È da tanti anni che non ci metto piede. Forse qualcosa in meglio sarà avvenuta durante questi anni. Ne sono curioso.
Sul Quai-Brücke il traffico diventa sempre più intenso. Anche di là, sulla Bellevue-Platz le macchine scorrono senza sosta… Col cuore sono già al Sud… Mi passa proprio davanti una coppia d’italiani. Da come vestono, da come sono inanellati e imbraccialati si capisce che appartengono alle anime del paradiso. Lei è pienotta e ha il viso ovale e lucente. Mi fa ricordare la baronessa. Che tipo, la baronessa! E quella carogna di suo marito, poi! Provo un odio viscerale verso quell’uomo che pure non esiste più. Quando penso a quello che combinò a mio padre e a me stesso, mi assale un dolore allo stomaco. Le angherie che abbiamo subite sembrano di cento secoli fa; invece sono appena di vent’anni addietro. Anche meno.
È una limpida e fresca giornata di fine luglio. Attraverso il Quai-Brücke e vado a bere una birra ad un bar all’aperto della Bellerive-Strasse. Siedo, come un signore in vacanza. La gente, a guardarla, mi pare tranquilla, felice, libera di muoversi a suo agio. Laggiù non sarà così. Non si era liberi, interiormente, ai miei tempi. Bisognava dare conto di tutto alla comunità… Può darsi che a quest’ora sia cambiata la mentalità. La gente parte, torna, vede cose nuove che poi introduce. Non si vive certo più come nel passato. Mi si avvicina la cameriera, una magrolina bionda e con gli occhi di un azzurro smorto. Mi dice un bitte ed io ordino ein Glas Bier frisch.
Le poche persone sedute all’ombra chiacchierano sommessamente. La birra che sorseggio mi induce a fantasticare. Che sa sta gente di miseria e di umiliazione! Che sa, cosa capisce di quello che noi abbiamo sofferto laggiù con i baroni e con i bossi e di quello che soffriamo nella loro terra! Non ci trattano meglio di come ci trattava il barone. Se apriamo la bocca per protestare, ci sbattono via. Per noi non è finita. La crucivia per noi è lunga milioni di chilometri. Inutile farsi illusioni, finché dura questo sistema, finché l’operaio non è padrone di ciò che produce. Il benessere per noi è solo apparente: a patto di lavorare e tacere.
Butto un franco sul tavolino e vado via. Sono così immerso nel mio rovello, che ho la sensazione di essere nel piccolo borgo sporco e limitato con gli avvoltoi sulle spalle. Non ci si libera del passato. Vai o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come un male inguaribile. Mi piacerebbe scacciare i brutti pensieri con Gisela. Le ritelefono. Non risponde. Siccome mi trovo in Theater-Platz, a due passi dalla sua casa, salgo e suono il campanello della porta al quarto piano. Nessuno viene ad aprire. Risuono a lungo. Spunta dalla porta accanto una donna di mezza età con gli occhiali molto forti. Mi scruta. Le dico una parolaccia nel mio dialetto che lei scambia per saluto. Infatti risponde con un freddo e cavernoso guten Tag, e continua a scrutarmi mentre scendo le scale.
È sabato e la gente formicola dappertutto. Le vie, le piazze, i negozi sono animatissimi. Alla stazione la folla è fitta e provoca, come un alveare in piena attività, un ronzio continuo e assordante. Dai treni che arrivano dalla Germania, dalla Francia, dall’Italia scendono centinaia di persone. Né a Milano né a Roma mi è mai capitato di vedere tanta folla alla stazione. Sono attratto dal viavai. Sul diretto per San Gallo una comitiva di svizzeri cantano a squarciagola come selvaggi. Dal modo di cantare si capisce che hanno già bevuto molta birra; dal grido roco che gli esce dalla gola si avverte il loro temperamento di montanari delle Alpi.
Mentre sono così assorto a guardare, qualcuno mi batte la mano sulle spalle.
«E tu?» mi fa Attilio che arriva da Sciaffusa.
Sono felice di vederlo. Si va a mangiare alla Mensa degli Italiani nella Militarstrasse. La mensa è affollatissima. Numerosi sono venuti da fuori per salutare gli amici. Si mangia discretamente e si paga poco. Vi si sentono raccontare storie di tutta l’Italia, soprattutto del Sud. Si ha sempre la sensazione che il Sud non sia Italia. Anche lì mentre si parla tra di noi.
Comunico ad Attilio che domani parto per il paese. Da un mese, gli confido, sono dominato dalla smania di andarci. Per salutare i miei, per rivedere i luoghi del passato, per riabbracciare i vecchi compagni d’infanzia che ho perso di vista dai tempi dei tempi. Sono anche curioso, gli dico, di vedere cos’è avvenuto in quell’ambiente durante questi anni.
«Non ti fare illusioni; è peggio di un tempo» dice Attilio.
Attilio odia lavorare in Svizzera. Soffre più di me e per il clima e per la gente. «Ma a tornare laggiù che ci farei? Vomeri? Picconi? Là non si può vivere, e qua si è prigionieri… legati, incatenati» ripete con rabbia sorda.
Camminiamo per Zurigo e parliamo di lavoro, delle nostre famiglie, dei nazisti di cui la Svizzera pullula in questi ultimi tempi.
«Secondo loro ce ne dovremmo andare, perché facciamo concorrenza. Per colpa nostra i padroni non gli aumentano il salario» dice Attilio. «Secondo loro noi siamo bestie da lavoro, perché ci adattiamo a tutto. Ma intanto non scioperano, non protestano, con i padroni. Vogliono mandare via noi, perché gli stiamo sullo stomaco. Il fatto vero è che ci odiano. Ci odiano perché noi, nonostante tutto, riusciamo ancora a ridere, a chiacchierare, ad essere allegri… È impossibile un dialogo con queste statue di legno, che pure si ritengono al centro del mondo solo perché hanno le banche più ricche d’Europa, solo perché noi abbiamo bisogno di lavoro. Non sanno niente di noi. Anche quando vanno in Italia per le vacanze, quando visitano le nostre città, non ci capiscono niente… niente della nostra storia… Se ce ne andassimo, la loro economia crollerebbe nel breve giro di un mese. Queste formiche schiaviste si meriterebbero una seria lezione… Non capiscono niente di niente. A me non viene mai la voglia di scambiare un’idea con quelli che lavorano con me. Sento che all’infuori di lavorare meccanicamente non si rendono conto di nessun problema. Non hanno idee in testa… Quella loro zucca è proprio di legno. Ma di legno duro».
Ci sfoghiamo a questo modo, appena siamo in due. Altro ci è impossibile fare. Manifestare, scioperare, protestare sia pure singolarmente presso i padroni. Impossibile.
«Se ci foss...