Il nuovo Leviatano
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Il nuovo Leviatano

Una filosofia politica del cambiamento climatico

Geoff Mann, Joel Wainwright, Fabio Deotto

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Il nuovo Leviatano

Una filosofia politica del cambiamento climatico

Geoff Mann, Joel Wainwright, Fabio Deotto

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Il riscaldamento globale è ormai una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Ma quali saranno le conseguenze sociali ed economiche della crisi ecologica che stiamo vivendo? Ponendo al centro della riflessione la dimensione geopolitica del cambiamento climatico, e attingendo alla tradizione di filosofia politica e di critica dell'economia politica capitalista, Mann e Wainwright intravedono i segnali di uno scenario imminente e nefasto – l'emergere di un Leviatano climatico, uno Stato globale sovrano e regolatore guidato dalle élite – e gettano le basi per un'alternativa necessaria e radicale: una rivoluzione planetaria in nome della giustizia climatica.

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Information

Publisher
Treccani
Year
2020
ISBN
9788812008032
PARTE II

3

LA POLITICA DELL’ADATTAMENTO

Nell’interesse della scienza è necessario impegnarsi in un’incessante critica dei [nostri] concetti fondamentali, così da non esserne inconsciamente dominati.1
ALBERT EINSTEIN, 1953

I

La scienza è inevitabilmente sociale. È facile dimenticarlo, perché spesso viene concepita come il progetto di distinti individui, persone munite di genio e dati oggettivi – maschi bianchi con il camice da laboratorio, secondo lo stereotipo – che fanno “scoperte fondamentali”. In verità le scoperte fondamentali sono eccezionalmente rare, e anche quando vengono fatte – la teoria dell’evoluzione di Darwin o della relatività di Einstein – sono il risultato dell’impegno collettivo di molte persone che, imparando dalle intuizioni altrui, scambiandosi idee, facendo esperimenti, confrontando risultati e così via, generano conoscenze che rendono possibile il pensiero creativo (per non menzionare i tanti che non hanno un coinvolgimento diretto nella “scienza” ma consentono ai potenziali Darwin ed Einstein di dedicarsi alla ricerca scientifica).
Cosa ancora più importante, il processo scientifico richiede coordinamento, scambio e linguaggio. Di conseguenza, mostra le tracce dei rapporti sociali che ne stanno alla base. Per questa ragione, la scienza è sempre anche profondamente storica; le attività e i significati scientifici sono prodotti dell’epoca in cui emergono. Questo aspetto è difficile da cogliere nel momento in cui uno vive, ma in retrospettiva appare ovvio. Quello che i maya e i greci antichi consideravano scienza era il prodotto di un lavoro sociale autenticamente scientifico (fare esperimenti, confrontare risultati e via dicendo), anche se oggi gran parte di questo aspetto ha poco valore “scientifico”.
Come ogni altra disciplina scientifica, la scienza climatica moderna viene studiata e insegnata da persone con qualità e difetti, desideri e paure, abilità e limiti intellettuali, interessi e ideologie. Non vogliamo parlare male dei climatologi, ma soltanto ricordare che nessuno scienziato può sottrarsi al fatto che, per dirla con Aristotele, l’essere umano è zoon politikon: un essere la cui animalità è sociale e dunque politica. Ma cosa significa essere “politico”? E se questo è un elemento determinante della nostra comune umanità, possiamo presumere che sia “naturale” e biologico? E in tal caso, davvero gli esseri umani sono solo una componente della natura? Davvero la crisi planetaria è solo un triste destino codificato nella nostra evoluzione? Ci occuperemo più avanti (nel capitolo 4) della distinzione tra uomo e natura esaminando il concetto di politico, e più avanti ancora (nel capitolo 8) anche delle possibilità di cambiare il nostro posto nella storia naturale. In questo capitolo, invece, ci concentriamo sulla scienza e sulla sua socialità. Riconoscere la natura intrinsecamente sociale e politica delle vicende umane è fondamentale per una valutazione della scienza climatica contemporanea, che è allo stesso tempo innegabilmente necessaria e animata dalla politica, o animata dalla necessità e innegabilmente politica.
Per cominciare, prendiamo in considerazione il lavoro del paleoclimatologo Lonnie G. Thompson. Molto di ciò che sappiamo del cambiamento nella composizione materiale dell’atmosfera terrestre deriva dalla ricerca di base sulla chimica atmosferica, e il lavoro scientifico di Thompson ha avuto un ruolo cruciale. La sua specialità consiste nel ricostruire la storia naturale degli ultimi diecimila anni circa a partire dai dati ottenuti dai gas intrappolati nelle bolle in profondità nei ghiacciai (vedi figura 1.1 a p. 10). Thompson ha passato la vita a effettuare carotaggi nei ghiacciai di tutto il mondo, estraendo gas dalle bolle e ricavando dati sulla loro composizione chimica, per poi ricomporre la storia atmosferica della Terra. Ed è il primo a riconoscere che il suo lavoro scientifico è stato possibile grazie al lavoro sociale di innumerevoli altri, a cominciare dalla sua compagna e collaboratrice scientifica, Ellen Mosley Thompson. Come molti altri scienziati costretti a confrontarsi con un ambiente globale in mutamento, Thompson ha parlato apertamente della necessità di un cambiamento che porti l’autorità scientifica all’interno del regno politico. Questo lo inserisce in un trend più generale, dato che la comunità scientifica ha cercato di allertare il mondo dei gravi e imminenti pericoli indicati dalle proprie scoperte. Il processo seguito dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) è sostanzialmente una riproposizione su scala globale della medesima dinamica.2
Nel 2010 Thompson ha pubblicato uno straordinario saggio in cui illustrava le opzioni che la società aveva a disposizione per rispondere al cambiamento climatico.3 Per distinguere tali opzioni è necessario prendere decisioni che riguardano, prima di tutto, ciò che possiamo fare, e poi quello che dovremmo fare. Ovviamente, si tratta di decisioni inevitabilmente politiche. Thompson comincia gettando fondamenta empiriche (dati scientifici su un ambiente in mutamento), sulle quali costruisce una serie di enunciati esortativi (cosa dovremmo fare).
La tendenza della scienza climatica a partire dai fatti per delineare opzioni sociopolitiche è diventata una pratica comune, insita nella nostra congiuntura, e il confine tra il descrittivo e il prescrittivo è sempre più sfocato in questa disciplina. Ciò ha generato una notevole tensione per molti scienziati, che di regola vengono scoraggiati dal formulare proposizioni prescrittive forti e dall’individuare le implicazioni politiche delle proprie scoperte.4 Per includere affermazioni che sottintendano una leadership morale o politica, dunque, molti scienziati del clima adottano (consapevolmente o meno) un tono apologetico. Il paper di Thompson comincia così:
I climatologi, come gli altri scienziati, tendono a essere una categoria imperturbabile. Non siamo propensi alle invettive teatrali sulla fine del mondo. La maggior parte di noi si sente molto più a proprio agio a lavorare nei laboratori o a raccogliere dati sul campo che a rilasciare interviste ai giornali o a parlare di fronte a commissioni parlamentari.5
Perché cominciare con una simile precisazione? Come tutti gli incipit, anche questo ha lo scopo di legittimare la narrazione che seguirà. Thompson esprime un sentimento comune tra gli scienziati del clima, che si sentono a disagio quando il loro lavoro di ricerca li costringe a pronunciarsi sulla politica. Gli scienziati ambientali si ritroveranno a sperimentare sempre più spesso questa forma di disagio negli anni a venire, e lo stesso accadrà per altre discipline che giocheranno un ruolo importante nella sfida dell’adattamento, in particolare l’economia (vedi capitolo 5). Uno dei nostri obiettivi in questo capitolo è analizzare le ricadute politiche della scienza climatica in relazione al tema dell’adattamento, concetto che a sua volta emerge dalla scienza ma che è diventato fondamentale nella politica contemporanea.
I punti chiave della ricerca di Thompson sono elegantemente riassunti nell’abstract del paper:
Le carote di ghiaccio prelevate dai ghiacciai in ritirata di tutto il mondo confermano la loro persistenza per periodi che vanno dalle centinaia di anni a diversi millenni, il che indica come le condizioni climatiche che oggi dominano quelle regioni siano diverse da quelle in cui queste distese di ghiaccio si sono originariamente accumulate e mantenute. Il riscaldamento odierno è dunque insolito, se osservato dalla prospettiva millenaria fornita da più fonti di dati proxy e da centosessant’anni di misurazione diretta delle temperature. Nonostante tutte queste prove, a cui bisogna aggiungere il documentato incremento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, le società hanno intrapreso ben poche iniziative per affrontare questo problema globale. Il risultato della nostra inerzia è che abbiamo tre opzioni: mitigazione, adattamento e sofferenza.6
Un novero di opzioni piuttosto insolito. Praticamente chiunque, compreso l’Ipcc, delinea le nostre possibilità in modo binario. Possiamo scegliere tra «mitigazione» (ridurre le emissioni di carbonio per rallentare o impedire il cambiamento climatico), o «adattamento» (adeguarsi a un mondo surriscaldato). Thompson aggiunge una terza opzione, «sofferenza», introducendo un elemento esplicitamente morale nelle nostre decisioni. In questo capitolo esaminiamo le implicazioni di tale approccio e cerchiamo di capire come queste idee possono influenzare il dibattito dell’Ipcc sull’adattamento.
Poiché Thompson ha inserito la sofferenza in una discussione apparentemente neutrale sulle opzioni per affrontare il cambiamento climatico – alcuni la considerano una digressione politica inutile –, prima di parlare delle politiche di adattamento faremo alcune considerazioni sulla climatologia, la politica e il carattere della scienza.

II

Nonostante la straordinaria urgenza di affrontare il problema del cambiamento climatico, l’accademia moderna – le scienze sociali in particolare – sta appena cominciando a raccogliere la sfida.7 La comprensione tecnica dei processi fisici che causano il cambiamento climatico ha superato di gran lunga l’analisi dei processi sociali e politici che li determinano, eppure sono questi ultimi a dover cambiare.
Una risposta comune potrebbe essere quella di invocare una maggiore collaborazione che colmi il naturale divario tra scienza e scienze sociali, nonché creare modelli interdisciplinari e transdisciplinari di cambiamento sociale e ambientale, ma fino a oggi la collaborazione è stata davvero scarsa. Una parziale spiegazione può essere individuata nelle differenze sostanziali tra la ricerca nelle scienze naturali e quella nelle scienze sociali riguardo alla definizione dei rispettivi concetti base.8 Per quanto gli scienziati climatici si impegnino in dibattiti (spesso accesi) sul significato da attribuire ai propri risultati, raramente riconsiderano le basi elementari che danno per scontate nella propria ricerca.9 Due scienziati possono intraprendere una vivace discussione sul ruolo preciso della CO2 o del CH4 nei processi fisici dell’atmosfera, ma le caratteristiche di base del carbonio – il suo numero o peso atomico, le sue proprietà chimiche e così via – non verranno messe in discussione.10 Al contrario, quando due scienziati sociali discutono, per esempio, la predominanza degli approcci di mercato nel discorso sulle politiche climatiche, molto probabilmente dedicheranno molte energie a determinare il significato di “egemonia”, “mercati”, “politica climatica”, “discorso” e così via, perché le interpretazioni di questi concetti e di quelli correlati rispecchiano diversi modi di concepire il mondo.11 Questo per dire che la scienza sociale implica quasi sempre una riflessione estesa sulle sue unità di analisi di base. Non neghiamo che il pensiero sociale possa essere rigoroso, ma è pur vero che spesso ciò che per un pensatore sociale è rigore, per un altro è ideologia, perché siamo continuamente impegnati nella vita sociale e nel costante riutilizzo e ricostruzione dei concetti sociali attraverso il linguaggio. Non c’è un metalinguaggio sviluppato al di fuori della dimensione sociale che possa consentirci di fissare questi concetti in modo oggettivo. I dibattiti sul significato dei concetti basilari del pensiero sociale sono complessi, interminabili e necessari. Dal momento che ereditiamo inconsciamente i nostri concetti sociali, così come i nostri modi di calibrarne l’uso, il pensiero sociale dà il suo meglio quando tiene conto delle condizioni che lo rendono possibile attraverso una sorta di processo ricorsivo di riflessione sui suoi concetti fondativi. Antonio Gramsci dava a questo approccio il nome di “storicismo assoluto”, ma qualunque termine decidiamo di utilizzare andrà in ogni caso ad arricchire e complicare l’incombenza dell’analisi sociale.12
Nel 1949 Albert Einstein si occupò di queste problematiche in un conciso saggio scritto per inaugurare il primo numero della rivista socialista “Monthly Review”. Il testo affronta la questione del se e come il suo status di scienziato naturale facilitasse la sua esplorazione del pensiero sociale, e oggi, in un’epoca in cui il rapporto tra conoscenza scientifica e sociale è centrale nel dibattito sul cambiamento climatico, merita una lettura attenta.
«Potrebbe sembrare» comincia Einstein, «che non esistano differenze metodologiche sostanziali tra l’astronomia e l’economia: gli scienziati di entrambi i settori tentano di scoprire leggi accettabili a livello generale […]»13 Tuttavia, spiega in seguito, ci sono due differenze chiave. La prima è che il coinvolgimento dell’attività umana conscia nei rapporti sociali comporta serie difficoltà per l’analisi sociale. Prendendo l’economia come esempio di scienza sociale, Einstein scrive: «L...

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