Roma, XVII distretto di polizia
Per l’Indiano, la giornata iniziò come quella precedente, al punto che, per un attimo, ebbe l’impressione di essere il protagonista di quella scena che si ripeteva tutte le mattina nel film The Truman Show, quando Jim Carrey usciva di casa e salutava i vicini sempre con la stessa frase: «Casomai non vi rivedessi… buon pomeriggio, buonasera e buonanotte».
Infatti, Valeri parcheggiò la Guzzi California EV nel posto del giorno prima, si tolse il casco per entrare al lavoro e vide Zula che era ancora lì, nella stessa identica posizione. Le fece un cenno di saluto. Lei rispose a malapena, più per la stanchezza accumulata da quando tutto era iniziato che per scortesia.
Anche l’assistente capo Susca, in servizio al Corpo di guardia del commissariato, lo accolse con lo stesso sorriso sornione stampato in faccia, come chi ha qualcosa di divertente da comunicare. Questa volta, però, l’Indiano non si sorprese.
«Buongiorno papà, ho già capito tutto: Tognozzi ha chiesto di me, mi sta aspettando ed è nervoso, giusto?»
«Bravo. Come hai fatto a indovinare?» ribatté Susca.
«E che ci vuole? Non per deluderti, ma sappi che quest’ufficio è di una monotonia disarmante. Accadono solo cose prevedibili e le novità scarseggiano. Sarà una notizia il giorno in cui arriverò e troverò Tognozzi di buon umore. Ecco, in quel caso, sì che ci sarà da sorprendersi» commentò sarcastico Valeri, mentre saliva le scale per raggiungere al primo piano le stanze della sezione Anticrimine.
Dopo aver sistemato lo zaino vicino alla sua scrivania, andò dal sostituto commissario aspettandosi il siparietto sul rispetto degli orari avvenuto il giorno prima. Tognozzi, invece, stranamente, non ebbe nulla da recriminare. Forse aveva deciso che Valeri era un caso disperato e si era rassegnato a tollerare i suoi bizzarri comportamenti, nella speranza di riuscire a trarne qualcosa di buono. Oppure era troppo depresso e non aveva la forza necessaria per reagire. A giudicare dalla faccia, la seconda ipotesi era la più probabile.
«Hai letto i giornali?» si limitò a chiedergli, appena lo vide entrare nel suo ufficio.
«No, perché? Che dicono?»
Gli gettò davanti la copia del «Messaggero» aperta sulla cronaca di Roma. Il titolo a sei colonne si chiedeva: Chi ha ucciso Jemal? Il sommario aggiungeva: “Il XVII distretto indaga per dare un nome all’assassino del giovane eritreo”. Sotto c’era una foto del corpo della vittima, scattata dal cavalcavia prima che fosse ricoperto dal lenzuolo.
«Ecco cosa dicono» esclamò con rabbia il sostituto commissario.
«E allora? Qual è il problema? È vero, stiamo indagando e a breve arriveremo alla soluzione del caso» cercò di calmarlo l’Indiano.
«È qui che ti sbagli. Non stiamo indagando noi, lo sta facendo la Stradale. Perché questo è un cazzo di incidente stradale e noi non ci occupiamo di roba del genere. Noi indaghiamo su omicidi, rapine, reati di mafia, non sugli incidenti stradali. A me fa schifo indagare sugli incidenti stradali, con tutto il rispetto per i colleghi» chiarì Tognozzi, in preda a una vera e propria crisi di rigetto. Poi continuò: «Lo sai perché dicono che lo stiamo facendo noi?». Si rispose da solo: «Perché la matta ha deciso di fermarsi qui sotto. Ora ti chiedo: per quale motivo non la prendete e la depositate, nella stessa posizione in cui si trova, sotto la sede della sezione polizia stradale? I colleghi che portano i pantaloni alla zuava con le bande rosse hanno anche un bel parcheggio, si troverebbe bene da loro. Fatelo e vi guadagnerete il mio rispetto.»
«Lo sai che non possiamo, Bruno.»
«E allora cercate di chiudere al più presto questa storia del cazzo, perché abbiamo cose più serie a cui pensare in questa sezione. Okay? È chiaro? Vi do due giorni al massimo, altrimenti, quanto è vero Iddio, me la carico in macchina personalmente e la porto via di qua.»
«Saranno sufficienti» si sentì di promettere Valeri.
«Fai in modo che lo siano.» Detto questo, Tognozzi cambiò argomento: «Come ti stai trovando con Matteo Landini?».
«Bene. Nessun problema. Forse è un po’ arrugginito ma mi sembra una persona seria e affidabile.»
«Lo è. Purtroppo, il nostro è un ambiente di merda…» Lasciò in sospeso la frase. «Cosa pensate di fare oggi?»
«Andremo a parlare con l’ispettore della Stradale che si sta occupando del caso.»
«Passa prima dall’obitorio. Vedi se hanno trovato quella collana del cazzo, altrimenti non ne usciamo più. Diglielo che non ha nessun valore. Certa gente si attacca a tutto.»
«Pensi che l’abbiano presa loro?»
«Non sarebbe la prima volta» concluse Tognozzi.
L’ispettore Valeri lo rassicurò e uscì dalla stanza. Tornò alla sua scrivania, dove trovò Landini che lo aspettava con un foglio in mano.
«Cos’è?» gli chiese.
«Una segnalazione arrivata l’altra notte alla sala operativa. Un tipo, che si faceva chiamare Massimo Decimo Meridio, ha telefonato a una radio privata facendo discorsi sconclusionati contro gli stranieri. Prima di riattaccare ha detto che ne stava cercando uno da stendere.»
L’Indiano lesse con attenzione la nota che Landini aveva tirato fuori dall’archivio delle segnalazioni ricevute sul numero delle emergenze.
«Interessante» commentò. Poi aggiunse: «Forse, chiedendo un tabulato, si può arrivare al telefono di chi ha chiamato e, con un po’ di fortuna, identificarlo.»
«Già fatto» disse, con una punta di orgoglio, il collega.
Valeri restò un attimo interdetto. Non se lo aspettava. Lo guardò stupito, prima gli espresse il suo apprezzamento e poi gli chiese: «Mi togli una curiosità? Uno come te, che ci faceva chiuso in archivio?».
«È una lunga storia» rispose Matteo.
«Allora me la racconterai un’altra volta. Ora dobbiamo uscire. Prepara la macchina.»
Landini si avviò, ma l’Indiano lo bloccò a metà della stanza. «La pistola l’hai presa?» L’altro aprì la giacca e gliela mostrò. Poi, scese in garage a recuperare l’auto di servizio. Era visibilmente di buon umore, come non gli capitava da tanto di esserlo al lavoro.
Roma, Istituto di medicina legale
Il sovrintendente Pierluigi Bonario non la prese per niente bene.
«Di nuovo con questa storia? Ispettore, guarda che sto cominciando a offendermi. Mi stai dando del ladro, per caso?» si spazientì quando l’Indiano gli chiese, ancora una volta, se qualcuno avesse trovato la collana.
«Ma no… non mi riferisco a te. Parlavo del personale della polizia mortuaria o di questi dell’obitorio. La collana potrebbe essere caduta nel furgone durante il trasporto della salma. Oppure, per terra quando è stata sistemata sulla lettiga» cercò di metterla meglio Valeri.
«Ma le hai viste le foto fatte dalla Scientifica prima della rimozione del cadavere? La collana c’era?» chiese Bonario.
«Il fascicolo dei rilievi della Scientifica non è ancora arrivato» rispose Valeri con un certo imbarazzo.
«Allora mi confermi che avete un pregiudizio nei nostri confronti! Senti, di’ al tuo capo che parlerò con il mio sindacato di questa storia. Non mi faccio trattare così. Diglielo al Cane… a me non fa paura.» Bonario se la stava prendendo sul serio.
L’Indiano si sorprese nel constatare quanto fosse estesa nell’ambiente la fama che si era costruito Tognozzi. Per evitare complicazioni, decise di soprassedere e cambiò argomento: «Va bene, via. Fai finta che non ti abbia detto nulla. Parliamo d’altro. L’autopsia l’hanno fatta?».
«Sì, è stata eseguita ieri pomeriggio dal dottor Abbafati» rispose il sovrintendente, ancora risentito.
«Vorrei parlarci. Dove lo trovo?»
«Nel suo ufficio. Primo piano, seconda porta a destra» indicò con distacco, come se stesse parlando con una persona qualsiasi che chiede informazioni.
Valeri ringraziò e salutò il collega, sforzandosi di assumere un atteggiamento amichevole, per quanto possibile, vista l’atmosfera che si era creata tra i due. Poi salì a parlare con il medico legale, mentre Matteo Landini lo aspettava in macchina.
Si affacciò alla porta del suo ufficio e si presentò mostrando il tesserino.
«Buongiorno dottore, sono l’ispettore…»
«Lo so chi è» tagliò corto l’altro. «Ci siamo visti l’altro giorno, sotto il cavalcavia della stazione. Una faccia come la sua non si dimentica. È qui per l’eritreo, giusto? Si accomodi. Cosa posso fare per lei?»
Valeri si sedette sulla poltrona davanti alla scrivania di Abbafati. Nell’aria aleggiava un gradevole profumo di formalina. Alle pareti c’erano alcuni poster che riportavano le parti anatomiche di un essere umano. Nell’angolo a destra, un finto scheletro, appeso e disarticolato, sembrava sorridergli mostrandogli i denti.
«Ho saputo che ieri pomeriggio è stata fatta l’autopsia. Volevo solo sapere se è emerso qualcosa di interesse investigativo» chiese l’Indiano.
«Le voci girano, a quanto pare. Ispettore, come lei ben sa, io rispondo solo al magistrato che mi ha affidato l’incarico. Sarà mia cura fargli avere la consulenza appena avrò finito di redigerla.»
«Certo, dottore. Infatti, mi riferivo alla possibilità di avere qualche anticipazione in modo informale. Se possibile.»
Abbafati ci pensò un po’, poi chiese: «Ma, di questa storia, non se ne sta occupando la Stradale?».
«Sì, però ci siamo anche noi sul caso, per tutta una serie di ragioni che sarebbe troppo complicato spiegare ora.»
Abbafati si fece convincere.
«Capisco. Va bene, allora andiamo giù, così le mostro le cose più importanti che abbiamo riscontrato.»
Il corpulento medico legale si alzò e uscì dall’ufficio seguito dall’ispettore Valeri. Presero l’ascensore e scesero nei sotterranei dove si trovavano le celle frigorifere mortuarie.
«Lei va a pesca, ispettore?» chiese il dottor Abbafati, mentre si apriva la porta scorrevole.
«Io vivo su una barca, dottore. Quelle volte che esco in mare, mi piace anche pescare. Perché mi fa questa domanda?»
«Perché a terra troverà larve di Sarcophaga carnaria, meglio conosciute come bigattini, ottime come esche. Se vuole, ne può prendere qualcuna. Altrimenti, stia attento a non calpestarle. Quando vengono schiacciate fanno un rumore che trovo insopportabile» spiegò con naturalezza il medico.
L’Indiano, non riuscendo a capire se Abbafati stesse scherzando o facesse sul serio, preferì non commentare. In ogni caso, un’occhiata al pavimento mentre camminava la diede, e qualche piccolo verme bianco riuscì a scansarlo.
Il medico sfilò la lettiga dove era stata riposta la salma di Jemal e diede inizio a una vera e propria lezione di medicina legale.
«Vede, ispettore? Qui abbiamo una ferita lacero-contusa, di forma irregolarmente stellata, in regione frontale mediana, con altre contusioni escoriate circostanti. Probabilmente causate dall’impatto della testa con il terreno dopo la caduta. A conferma, troviamo anche alcune contusioni escoriate alla piramide nasale con frattura alle ossa sottostanti e soffusione ecchimotica alla guancia sinistra, evidente a livello zigomatico. Poi, si evidenziano varie contusioni ecchimotiche ed escoriate nella regione toracica, sulla superficie anteriore del bacino, in corrispondenza delle spine iliache. Verifichiamo l’extrarotazione dell’arto inferiore destro e varie contusioni escoriate a entrambe le regioni rotulee, la frattura del femore destro e della tibia sinistra. Insomma, tutte ferite compatibili con l’urto di un’autovettura e con la caduta dal cavalcavia. Poi c’è questa, che differisce dalle altre ferite. Vede?»
Massimo cercava di seguire con attenzione la spiegazione, ma davanti a sé vedeva solo un corpo martoriato, coperto di lividi e ricucito, dopo l’autopsia, come un tacchino farcito da mettere in forno con un po’ di patate intorno.
«Cosa devo vedere?» chiese.
«Questa» rispose il medico, quasi spazientito, indicando un taglio di un paio di centimetri sul fianco sinistro del cadavere.
«Sì, la...