Non sprechiamo questa crisi
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Non sprechiamo questa crisi

Mariana Mazzucato

  1. 160 pages
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Non sprechiamo questa crisi

Mariana Mazzucato

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Nessuno è più efficace di Mariana Mazzucato nel produrre gli strumenti che servono a vincere una battaglia di idee.

"The Guardian"

Crollo del Pil mondiale, blocco delle merci e degli scambi, infinite moltitudini precipitate in povertà e senza più un lavoro. Questo è l'effetto della pandemia di Covid-19 da un punto di vista economico. Possiamo uscirne in tempi rapidi? E come? Dobbiamo non solo sperare di tornare quanto prima alla 'normalità', ma riuscire a trasformare questa crisi in una opportunità per ripensare il nostro modello di sviluppo. Mariana Mazzucato, una degli economisti più autorevoli e influenti del nostro tempo, ci mostra come l'alternativa non solo è possibile ma quanto mai indispensabile.

La sfida cui i governi di tutto il mondo si trovano davanti è enorme: la necessità di attuare misure di sostegno al reddito dei cittadini e di aiuti alle aziende in difficoltà, il rafforzamento delle prestazioni sanitarie dirette agli utenti, un livello di collaborazione senza precedenti fra le nazioni, dalla corsa al vaccino alla gestione dei tamponi e del tracciamento dei contagi. Purtroppo, nell'ultimo mezzo secolo, il messaggio politico prevalente in molti paesi è stato che i governi non possono – e quindi in sostanza non devono – governare. Da tempo politici, dirigenti di imprese ed esperti si lasciano guidare da un'ideologia che si concentra ossessivamente su misure statiche di efficienza per giustificare i tagli alla spesa, le privatizzazioni e le esternalizzazioni. Ecco la ragione per cui i governi hanno ora a disposizione un numero di strumenti più limitato per rispondere alla crisi. Ed è proprio questa la lezione del Covid-19: la capacità di uno Stato di gestire una crisi di grande portata dipende da quanto ha investito nella capacità di governare, fare e gestire, cioè di dare forma a mercati che producano una crescita sostenibile e inclusiva, finalizzata all'interesse pubblico.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858143216

1.
La crisi del Covid-19 è un’occasione
per cambiare il capitalismo

Il mondo vive una situazione critica. La pandemia da Covid-19 si sta rapidamente diffondendo in tutti i pae­si, con una portata e una gravità che non si vedevano dai tempi della devastante influenza spagnola del 1918. Se non si provvederà a intraprendere un’azione globale coordinata per contenerla, il contagio diventerà presto anche economico e finanziario.
La gravità della crisi richiede l’intervento dei governi, che cominciano a muoversi. Gli Stati stanno iniettando stimoli nell’economia e al tempo stesso cercano disperatamente di rallentare la diffusione della malattia, per proteggere le popolazioni vulnerabili e contribuire alla creazione di nuove terapie e vaccini. La rilevanza e l’intensità di questi interventi ricordano un conflitto militare: è una guerra contro la diffusione del virus e il tracollo economico.
E tuttavia c’è un problema. L’intervento che si richiede necessita di una struttura molto diversa rispetto a quella scelta dai governi. A partire dagli anni Ottanta, è stato chiesto ai governi di fare un passo indietro, lasciando che siano le imprese a imprimere la direzione e a creare ricchezza, e di intervenire solo per risolvere i problemi quando si presentano. Il risultato è che non sempre i governi sono adeguatamente preparati e attrezzati per affrontare crisi come quella del Covid-19 o l’emergenza climatica. Se si parte dal presupposto che i governi debbano attendere il verificarsi di un enorme shock sistemico prima di decidersi a intervenire, arriveranno sempre impreparati.
Così facendo, si indeboliscono le istituzioni essenziali che forniscono servizi pubblici e beni pubblici in senso lato, come il National Health Service del Regno Unito, dove dal 2015 ci sono stati tagli alla spesa sanitaria per un miliardo di sterline.
Il ruolo preminente degli affari nella vita pubblica ha determinato anche una perdita di fiducia in ciò che lo Stato può fare da solo, e questo ha portato alla creazione di numerosi e problematici partenariati fra pubblico e privato che privilegiano gli interessi del business rispetto al bene pubblico. Per esempio, è stato ben documentato che i partenariati pubblico-privato nel settore ricerca e sviluppo spesso favoriscono i cosiddetti farmaci «blockbuster» a scapito di altri, meno appetibili dal punto di vista commerciale, ma estremamente importanti per la salute pubblica, fra cui antibiotici e vaccini per una serie di malattie con potenziale epidemico.
A ciò si aggiunge la mancanza di una rete di sicurezza e protezione per le persone che lavorano in società caratterizzate da disuguaglianze crescenti, specie chi, privo di tutele, opera nell’ambito della cosiddetta gig economy, ossia l’economia a chiamata.
Ma oggi ci si presenta l’occasione di approfittare di questa crisi per capire come fare capitalismo in modo diverso. Occorre ripensare il ruolo dello Stato: anziché limitarsi a correggere i fallimenti del mercato quando si verificano, i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo plasmando e creando mercati che offrano una crescita sostenibile e inclusiva, oltre a garantire che le partnership con le imprese in cui confluiscono fondi pubblici siano guidate dall’interesse pubblico, e non dal profitto.
Innanzitutto, i governi devono investire in, e in alcuni casi creare, istituzioni che contribuiscano a prevenire le crisi e a facilitarne la gestione quando si presentano. Il budget di emergenza del governo britannico, pari a 12 miliardi di sterline per il servizio sanitario nazionale, è un’iniziativa lodevole, ma altrettanto importante è l’attenzione agli investimenti a lungo termine per potenziare i sistemi sanitari, invertendo le tendenze degli ultimi anni.
In secondo luogo, i governi devono coordinare meglio le attività di ricerca e sviluppo, orientandole verso obiettivi di salute pubblica. La scoperta dei vaccini richiederà un coordinamento internazionale di proporzioni titaniche, esemplificato dallo straordinario lavoro della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi). Ma i governi nazionali hanno anche un’enorme responsabilità nel plasmare i mercati guidando l’innovazione per conseguire obiettivi pubblici, come hanno fatto ambiziose organizzazioni pubbliche quali la Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) negli Stati Uniti quando, nel cercare di risolvere il problema di far comunicare i satelliti, finanziò quella che oggi è la rete Internet. Un’iniziativa analoga nel settore sanitario porterebbe a convogliare i finanziamenti pubblici nella soluzione dei grandi problemi sanitari.
Terzo, i governi devono strutturare i partenariati pubblico-privato così da garantire che ne traggano vantaggio sia i cittadini sia l’economia. La sanità è un settore che a livello globale riceve miliardi di denaro pubblico: negli Stati Uniti, il National Institutes of Health (Nih) investe 40 miliardi di dollari all’anno. Dall’epidemia di Sars del 2002, il Nih ha speso 700 milioni di dollari in ricerca sul coronavirus. Visti gli ingenti finanziamenti pubblici destinati all’innovazione sanitaria, i governi dovrebbero vigilare sui processi per garantire che i prezzi siano equi e che non si abusi dei brevetti, oltre a salvaguardare la fornitura dei medicinali e controllare che i profitti vengano reinvestiti nell’innovazione, anziché essere dirottati nelle tasche degli azionisti.
E devono anche garantire, qualora si rendano necessarie forniture di emergenza – come medicinali, letti ospedalieri, maschere o ventilatori –, che le stesse aziende che beneficiano di sussidi pubblici nei periodi di congiuntura favorevole non speculino alzando indebitamente i prezzi quando le cose vanno male. L’accesso universale e a prezzi accessibili è essenziale non solo a livello nazionale, ma anche internazionale. Questo vale in special modo nelle pandemie: non c’è posto per il pensiero nazionalistico, come il tentativo di Donald Trump di acquisire in esclusiva per gli Stati Uniti la licenza per il vaccino contro il coronavirus.
Infine, è quindi giunto il momento di mettere in pratica la dura lezione della crisi finanziaria globale del 2008. Quando le aziende, dalle compagnie aeree alla grande distribuzione, si fanno avanti con richieste di salvataggio e altre forme di assistenza, è importante non limitarsi a distribuire denaro. Si possono dettare condizioni affinché i salvataggi siano strutturati in modo da trasformare i settori destinatari degli aiuti, portandoli a far parte di una nuova economia, incentrata sulla strategia del Green New Deal di ridurre le emissioni di carbonio, investendo al tempo stesso sui lavoratori per aiutarli ad adattarsi alle nuove tecnologie. E bisogna farlo adesso, fintanto che lo Stato si trova in posizione di forza. Sfruttiamo questo momento per ripensare il sistema capitalistico con un approccio che restituisca centralità a tutte le parti in causa. Non permettiamo che questa crisi vada sprecata.

2.
La triplice crisi del capitalismo

Il Covid-19 è un evento di vasta portata che mette in luce la fragilità di un’economia sempre più globalizzata e interconnessa, e non sarà certo l’ultimo.
Il capitalismo, infatti, sta affrontando almeno tre grandi crisi. Una crisi sanitaria indotta dalla pandemia ha rapidamente innescato una crisi economica con conseguenze ancora sconosciute per la stabilità finanziaria, e tutto questo si gioca sullo sfondo di una crisi climatica che non può essere affrontata con il solito approccio del «business as usual». Non dimentichiamoci che, fino a soli due mesi fa, i media ci proponevano immagini spaventose di vigili del fuoco, e non operatori sanitari, sopraffatti dalla fatica e dal superlavoro.
Questa triplice crisi ha portato alla luce diversi problemi rispetto al nostro modo di «fare capitalismo», che devono essere tutti affrontati nello stesso momento in cui siamo alle prese con l’emergenza sanitaria. Altrimenti, risolveremo semplicemente i problemi in un settore per crearne di nuovi altrove, così come accadde con la crisi finanziaria del 2008. I politici inondarono il mondo di liquidità senza indirizzarla verso opportunità di investimento valide. Di conseguenza, il denaro finì di nuovo in un settore finanziario che era (e rimane) inadatto allo scopo.
La crisi del Covid-19 sta mettendo in evidenza altri difetti ancora presenti nelle nostre strutture economiche, non ultima la crescente precarietà del lavoro, dovuta all’affermarsi della gig economy e al decennale deterioramento del potere contrattuale dei lavoratori. Molto più semplicemente, il telelavoro non è un’alternativa praticabile per la maggior parte dei lavoratori; e sebbene i governi stiano estendendo alcune tutele ai lavoratori con contratti regolari, gli autonomi potrebbero restare abbandonati al loro destino.
Peggio ancora, i governi stanno concedendo prestiti alle imprese in un momento in cui il debito privato è già storicamente elevato. Negli Stati Uniti, il debito totale delle famiglie poco prima dell’attuale crisi era di 14.150 miliardi di dollari1, ovvero 1.500 miliardi in più rispetto al 2008 (in termini nominali). E non dobbiamo mai dimenticare che è stato l’alto livello di indebitamento privato a causare la crisi finanziaria globale.
Purtroppo, nell’ultimo decennio, molti paesi hanno perseguito l’austerità, come se il problema fosse il debito pubblico. Il risultato è stato quello di erodere proprio le istituzioni del settore pubblico di cui abbiamo bisogno per superare crisi come la pandemia da coronavirus. Dal 2015, come si è detto, il Regno Unito ha tagliato i bilanci della sanità pubblica di un miliardo di sterline (poco meno di 1,1 miliardi di euro), sovraccaricando di lavoro i medici in formazione (molti dei quali hanno abbandonato del tutto il servizio sanitario nazionale) e riducendo gli investimenti a lungo termine necessari per garantire che i pazienti siano curati in strutture sicure, all’avanguardia e dotate del personale necessario. E negli Stati Uniti – che non hanno mai avuto un sistema sanitario pubblico adeguatamente finanziato – l’amministrazione Trump ha costantemente tagliato i finanziamenti e le funzioni di diverse istituzioni di primaria importanza, fra cui i Centers for Disease Control2.
Oltre a queste ferite autoinflitte, un settore imprenditoriale eccessivamente «finanziarizzato» succhia valore dall’economia premiando gli azionisti attraverso programmi di riacquisto di azioni, anziché sostenere la crescita a lungo termine con investimenti in ricerca e sviluppo, salari e formazione dei lavoratori3. Di conseguenza, le famiglie si sono impoverite e non dispongono più di riserve finanziarie; per questo incontrano maggiori difficoltà nella fruizione di beni di base come la casa e l’istruzione.
La cattiva notizia è che la crisi del Covid-19 sta aggravando tutti questi problemi. Quella buona è che possiamo approfittare dell’attuale stato di emergenza per cominciare a costruire un’economia più inclusiva e sostenibile. Il punto non è ritardare o bloccar...

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