L'asino d'oro
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L'asino d'oro

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E l'unico romanzo antico in latino pervenuto interamente ad oggi; e insieme al Satyricon di Petronio, pervenutoci solo parzialmente, costituisce l'unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina.

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Information

LIBRO DECIMO

Non so quello che si facesse nel seguente giorno il mio padrone ortolano, ma io fui menato via da colui che fu nella strada così maltrattato. Io era armato sopra le spalle di elmo, di scudo e di lancia, di maniera ch’io spaventai molti viandanti: e così col carriaggio del soldato addosso, per via piana e non molto aspra arrivammo ad una picciola città; e quivi non nella osteria ma in casa d’un cittadino fui consegnato a un servo per lo nuovo padrone, e n’andò prestamente a un suo colonnello, il quale avea il governo di mille fanti. Nel tempo ch’io stetti fermo in quel luogo, intesi una grandissima e scellerata cosa, la quale così come fu vera a voi la racconto.
Aveva il padrone di quella casa un figliuolo e di lettere e d’ogni altra virtù tanto eccellente, che un tale non se ne potrebbe augurare. Morta la costui madre già molto tempo avanti, e menata nuova moglie, aveva generato un altro figliuolo, il quale era d’età di dodici anni. Questa matrigna, più di bellezze che di buon costumi ornata, alla beltà del figliastro aveva posto gli occhi; o che di natura fosse impudica, o che la Fortuna a questo estremo male destinata l’avesse. Sappi, lettore, che non una favola, ma una tragedia leggerai; e però l’animo all’altezza del fatto apparecchia. Ben potè questa misera femmina con silenzio comportar l’amore, mentre che picciolo fu, nel principio uguale alle sue forze; ma poichè le midolle dell’esecrabil fuoco accese la sforzarono cedere allo amore, simulandosi inferma del corpo, copriva la ferita dell’animo, mostrandosi d’occulta febbre assalita; perciocchè l’amore e la febbre ne’ segni di fuori convengono assai: così la difforme pallidezza degli occhi sbattuti, le ginocchia stracche, il sonno interrotto, i tormentati sospiri, e il trepidante polso, febbrosa la mostravano in ogni effetto; se non che oltre alle soprascritte passioni, ancora piangeva. Ahi vane menti de’ medici! il polso della vena, lo stemperato caldo, il faticoso spirare, e le spesse voltazioni or su uno or sull’altro fianco, sono segni incerti e dubbiosi; ma il conoscer l’amorosa passione è agevole a ciascuno intendente, quando si vede alcuno ardente senza corporal calore stimolato. Questa femmina dunque ardente del focoso pensiero, fece chiamare a sè il figliastro, il cui nome avrebbe volentieri levato, per non farlo accorto della sua vergogna. Venne il giovanetto alla camera della moglie di suo padre, e madre del suo fratello. Ma ella lungamente con silenzio tormentata, siccome ella fusse stata entro una palude di dubitazione inviluppata, tutte le parole che pensava essere attissime al suo ragionamento e lodava e vituperava, nè sapeva come si dovesse cominciare. Ma il giovanetto, che ogni altra cosa che questa pensava, con piacevole volto, la domandò della cagion della sua malattia. Allora, parendole che le parole fussero cadute a suo proposito, preso un poco più baldanza, coprendosi il viso col lenzuolo per la vergogna, e accompagnando le sue parole con una larga copia di lagrime, gli prese a dire in questa guisa: La cagione e ’l principio del presente mio male e del mio grandissimo dolore, e la medicina mia e la mia salute se’ tu medesimo; cotesti splendentissimi occhi tuoi, passati per gli occhi miei alle fimbrie del mio cuore, mi hanno acceso entro al misero petto tanto il grandissimo fuoco, che più sopportar nol posso: abbi adunque misericordia di colei che muore per tua cagione, nè ti spaventino il vincolo e la necessità paterna; e perciocchè tu sarai quegli che gli preserverai la povera mogliera, che senza l’aiuto tuo non si può più sostenere in vita, e la quale, in te riconoscendo la di lui immagine, nel tuo volto ama, e meritamente, il suo marito: l’essere noi due qui soli ne porgono quella fidanza e quella comodità che tu vuoi; e quello che non saprà persona, ancora ch’e’ si faccia, è quasi come s’e’ non si facesse. Andò tutto sottosopra il costumato giovane udendo l’abbominevol domanda: e ancorachè egli abborrisse così grandemente lo enorme peccato, ch’e’ fusto per torsele davanti senza mai altro rispondere; pur meglio riconsigliato, e’ non gli parve da esasperarla col dirle così ad un tratto di no: ma pensò ch’e’ fusse più al proposito con alcuna dilazione di tempo intertenerla, per poter vedere di torle dalla mente sì sozzo e strano pensiero. E però le rispose, che attendesse a guarire, e stesse di buona voglia, che egli le prometteva di renderle bonissimo guiderdone dell’amor suo; e come il padre, assentandosi un poco dalla terra, desse loro agio di poter essere lungamente insieme, e che ella fusse ben guarita, che egli farebbe di sè tutto il suo piacere: e mille anni gli parve di levarsi dinanzi al temerario desio della disonesta matrigna. E pensando infra sè, che una così fatta rovina avesse bisogno d’un gran consiglio, egli giudicò ch’e’ fusse ben riferire ogni cosa ad un saggio vecchione, appresso del quale egli avea utilmente consumata la sua fanciullezza, e ora sostenevane la sdrucciolevole adolescenza. Al quale, come chi conosceva bene quello che una infuriata donna potesse, e quanto strano le paresse non esser compiaciuta, parve con veloci passi che egli fusse da fuggire la imminente tempesta della incrudelita fortuna. Ma avanti che la prudente deliberazione sortisse effetto, la impaziente giovane, a cui un sol giorno era un anno vertente, seppe tanto ben fare, che dando ad intendere al marito, che egli era bene che egli andasse ad alcune sue possessioni assai discosto, imperocchè ella aveva inteso che egli vi andava male ciò che v’era, ella il sospinse fuori per non so quanti giorni: e subito partito ch’e’ fu, fattosi venire il giovane, il costringeva pure ad attenderle la promessa. Ed egli or questa or quella scusa prendendo, s’ingegnava tener pasciuto di parole il suo desiderio, finchè con un suo lungo viaggio egli dinanzi se le levasse. Ma ella, cui la grande speranza aveva fatto troppo più che l’usato impaziente, accortasi per la varietà delle debili scuse, che egli quanto le prometteva più, più si dilungava dallo osservargliele, sdegnata, e voltato in un subito lo scellerato amore in uno odio vie più scellerato, avuto a sè uno schiavetto, che ella aveva menato seco di casa sua, e al quale ogni gran male sarebbe paruto piccolo, con lui si consigliò del modo che si avesse a tenere a vendicarsi della onesta costanzia (ma perfidia la chiamava ella) dello innocente giovane: nè parve lor finalmente cosa più al proposito che con veleno torre la vita al meschinello. Nè prese indugio il fellone servo a dare effetto al crudo pensiero; anzi allora allora andatosene fuori, non prima ritornò a casa, che egli portò in un bicchiere una sua bevanda, la quale avendo mescolata col vino, in camera della madonna dentro ad un armario la pose. E mentre che egli aspettava occasione di porgerlo al giovane, come volle la fortuna, quel più giovane, e figliuol naturale della pessima donna, essendo ritornato una mattina dalla scuola, e avendo fatto un poco di colezione, si gli fece sete; e venendogli per le mani quel bicchiere, il quale la imprudente donna, o per istraccurataggine, o pur perchè così la giudicava il suo peccato; ella aveva lasciato in quello armario senza serrarlo; nè sappiendo quello che entro vi si fusse, tutto se lo bevve: nè piuttosto ebbe bevuto il crudele e destinato pericolo del suo fratello, che egli cascò disteso in piana terra. Della qual cosa accortosi un suo maestro, montato in sulle furie per così terribile e repentino accidente, piangendo e mettendo a romore ogni cosa che vi era, fece ivi correr la madre e tutta la famiglia: i quali tutti, conosciuta la cagion della sua morte, chi l’apponeva ad una persona, e chi ad un’altra; ma quella malvagia femmina, e unico esempio delle malizie delle matrigne, non commossa per l’acerba morte del picciolo figliuolo, non dalla coscienza macchiata da così abbominevol peccato, non dalla rovina di tutta la casa, non dal dolor del povero marito, anzi arrabbiata, infuriata, indiavolata più che mai, cercò modo, con accrescimento d’occasione, di vendicarsi di quella offesa, che essa si aveva fatta da sè stessa. E spacciato subito uno a posta al marito suo, e fattogli annunziar la morte del figliuolo, come più tosto fu tornato in casa, copertasi con una maschera d’una indicibile temerità, gridando, e mettendo a soqquadro la casa, diede ad intendere all’infelice padre, che ’l veleno del figliastro aveva tolto la vita al suo figliuolo. Ma in questo ella non diceva però menzogna; conciossiachè quel veleno, che aveva a trar dal mondo il figliastro, quello stesso aveva morto il suo fratello: e perchè la cosa avesse più del verisimile, ella aggiungeva, che ciò era avvenuto per non avere ella voluto acconsentire alla sua scellerata libidine; e, mentendo, aggiugneva d’essere stata minacciata di morte da lui. Quando questo scopre lo infelice padre, percosso dalla morte del figliuolo, anzi quasi d’amendue, assai più del suo infortunio si doleva: perciocchè il più giovane già si vedea portare davanti alla sepoltura, e ’l maggiore per lo incesto e parricidio sapea di certo dover essere alla morte condannato. Or da’ falsi lamenti della moglie ingannato, ognora più di rabbioso odio contra il figliuolo s’infiammava. E appena erano l’esequie compiute, che ’l miserabil vecchio si parte dalla sepoltura, e siccome era col volto lagrimoso ne va al palagio; e quivi con lagrime e con preghi s’adoperava alla morte di quel figliuolo, che solo gli era restato, chiamandolo incesto per lo paterno letto macchiato, parricida per l’ucciso fratello, e assassino per aver minacciata la matrigna di morte. E con tanta indignazione aveva mossa la plebe e la corte, miserabilmente parlando, che ognun gridava, dicendo: Questo sì grave peccato doversi pubblicamente punire, lapidandolo, senza perder tempo in accusa nè difesa. Ma gli ufficiali, per tema del proprio pericolo, ora pregando i signori, ora acquetando il popolo, persuasero che dirittamente e secondo il costume antico fosse la sentenza diligentemente intesa, nè a guisa di barbarica fierezza o di tirannica potenza fosse condannato alcuno senza udire la sua ragione; e che esempio tanto crudele non si mettesse in usanza, che per indignazione e non per giuste prove s’uccidesse alcuno. Piacque a ciascuno questo parere, e però furono chiamati in corte i consiglieri. Fu secondo il costume della legge citato il reo, e denunziata la causa all’accusatore. Ma con quai parole l’uno accusasse e l’altro si difendesse, non saprei io dire, perchè io mi stava legato alla mangiatoia: e questo che fin qui v’ho riferito, intesi dal parlare che facevano insieme le persone. Ora, poichè la contenzione del parlare fu finita, non piacque ai giudici di terminar questi così gravi peccati per conghietture o sospizioni, ma per ferme prove e certa verità. Onde parve loro che quel servo fosse quivi presentato. Così quel servo, continuo compagno della forca, fu condotto, senza smarrirsi punto, al cospetto di tante onorevoli genti, nè sbigottito della coscienza del male che egli avea fatto; anzi cominciò, mostrando molta paura, a dipingere una certa sua favola, dicendo che questo giovane, sdegnato del fastidio della matrigna, lo avea domandato, che in sua vendetta volesse uccidere il figliuol di lei, promettendogli gran premio, e che ricusando questo, egli lo minacciò di morte; per la qual tema egli fu costretto a comperar quel veleno, il quale stimava lui avere poi di sua mano dato al fratel minore. Pareva molto presso all’immagine del vero quello che questo ribaldo mentiva; con tante simulazioni di paura e semplicità di parole aveva quella scellerità ordita. Nè rimase alcun giudice tanto amico al giovane, che non giudicasse doversi porre al tormento. Ed essendo già per iscritti brevi il parer d’ognuno gittar nel bossolo le fave nere e bianche; e dipoi quella sentenza non si poteva distornare, che dandosi il malfattore in mano al manigoldo, davasi esecuzione alla sentenza, quando un medico di molta integrità e autorità in quella corte, gettò la mano sopra la bocca del bossolo, coprendolo sì che alcuno non vi potesse por dentro le fave; e rivolto agli altri, così disse: Io mi allegro poter dire, cha insino a questa età sia da voi riputato buono, nè posso patire, un manifesto omicidio essere da tutti noi commesso, i quali per giuramento siamo astretti di giudicare il diritto: ma che sarà, se io solo contra l’affermazione d’un altro mi oppongo? Io però son quello che mi stimate voi, ed egli è un servo ribaldo degno di mille forche. Io so che la mia coscienza non m’inganna, e però udite la cosa com’ella sta veramente. Questo ribaldo, son già molti giorni che m’ha sollecitato ch’io gli venda veleno subitano, offerendomi in prezzo cento ducati d’oro; dicendo averne bisogno per dare ad un certo infermo, il quale cruciato il giorno e la notte da una immedicabile idropisia e da mille altri dolori, avea desiderio, la mercè della morte, uscir di tante fatiche; e voleva ch’io gliel’ordinassi: perch’io veggendo questo ladroncello andare cincischiando le parole, mentre egli cotali sue artificiose scuse ritrovava, cominciai a dubitare ch’egli non volesse fare qualche gran male, e fui per dargli commiato; ma pensando poi fra me, che se io gliel negava, ch’egli se ne andrebbe ad un altro manco avveduto di me, che ne lo compiacerebbe, io giudicai che fusse bene dargli una pozione, e gliele diedi, ma di che natura ella fusse, voi l’intenderete più giù di sotto. E tenendo per cosa certa, che questa cosa si avesse col tempo a ricercare, io non volli prender subito il prezzo ch’egli m’avea offerto; ma voltomigli, dissi: Perciocchè io dubito ch’e’ non ce ne abbia di quelli che sieno falsi o leggieri, mettera’li qui in questo sacchetto, e segnera’li col tuo anello; e poscia un altro dì, quando avremo maggiore agio, ce n’andremo al banco, e faremogli vedere: e giuntolo in questa guisa, io gli feci suggellar quel sacchetto col suo suggello. Ora io me l’ho fatto portar dietro da un mio fante, ed ecco ch’io ve lo fo palese: vegga egli e riconosca il suo suggello, e dica in che modo può essere incolpato questo giovane di aver dato quel veleno al suo fratello, il quale ha comprato questo vile schiavo. - Mentre che il valente uomo diceva queste parole, quel pessimo, divenuto come un corpo disotterrato, e tremando dentro a verga a verga, gittava di fuore alcune gocciole d’un sudor freddo come un ghiaccio; e movendo i piedi ora innanzi e ora indietro, e or gittando il capo in qua a ora in là, cominciò con una bocca piccina a masticare non so che inezie, in modo che niuno ragionevolmente l’avrebbe potuto giudicare innocente. Nondimanco il temerario ribaldo, fattosi colla sua audacia incontro al timore, e via discacciatolo, ripreso ardire, e cominciato a ritrovar le vecchie astuzie, colla medesima prontezza d’animo, accusando quel medico di menzogna, negava tutto quello ch’egli avea detto. Ma il ben vissuto vecchio, per non macchiar la netta sua fama nell’ultimo degli anni suoi, con ogni instanza s’ingegnava di mostrare la verità della cosa: e però fatto trarre ad un degli esecutori della giustizia lo anello di dito a quel servo, e confrontatolo col segno di quel sacchetto, e trovato ch’egli era così come il medico diceva, l’ebbero per indizio sufficiente da metterlo alla tortura. Ma nè corda, nè dado, nè stanghetta, nè uovo, nè acqua, nè fuoco, nè cosa del mondo il poterono mai far cangiare d’opinione. Allora il medico, mosso da una giustissima indignazione: Io non patirò, disse, io non patirò che contro ad ogni debito di ragione voi condenniate questo povero giovane alla morte, e che costui, schernito il vostro tribunale, se n’esca libero sanza danno alcuno e senza pena; e darovvi al presente così evidente argomento, che egli non ci fia che replicare. Voi avete dunque a sapere, che volendo questo pertinace scellerato, come già vi ho detto, che io il provvedessi di quel veleno, nè mi parendo che egli fusse convenevole ad un buon medico esser cagione della morte di veruno, come quegli che sapeva che la medicina era stata per salute e non per danno dell’umana generazione dimostrata agli uomini dal cielo; e dubitando, come eziandio di sopra vi ho accennato, che se io così subitamente gliel negava, che la inopportuna repulsa non lo facesse o cercare altrui, o a ferro o a cosa peggiore volgere il pensiero; io gli diedi non veleno, ma una pozion di mandragola, che fa dormire sì profondamente, che mentre che dura la di lei operagione, colui che l’ha presa non diviene altrimenti che se fusse morto. Nè vi maravigliate, che questo empio di tutti gli empj sopporti così leggiermente ogni martoro; imperocchè egli non è così fuori di cervello, che e’ non consideri, che la morte che egli per la sua indicibile ribalderia ha meritato, dee esser tale, che tutti i martirj che voi gli avete dato, sono appo quella e dolci e leggieri: e però se quel fanciullo ha preso la pozione, che io colle mie mani ho temprato, egli vive, e si riposa, e dorme; e come più tosto la fortezza della natura avrà discacciato la folta nebbia di quel sonno, la nostra luce di nuovo bella come prima gli apparirà: ma se egli è morto davvero, ricercate d’altronde la cagione, nè dubitate che costui ne sia stato il mezzano.
Dette che ebbe queste parole il pietoso vecchione, e’ parve a tutti, che egli fusse, sanza indugiar niente, da andare al luogo dove era sepolto il giovane, per chiarirsi di questo fatto: nessuno del palazzo, nessuno gentiluomo, nessuno della minima plebe rimase, che non andasse a veder così fatto miracolo. E giunti ch’e’furono al luogo, il padre del giovane fu quelli che colle sue mani volle rimuover la pietra d’in sul monumento. Nè voleva star più il pietoso soccorso; imperocchè già aveva la natura discacciata da sè la oscura sonnolenza, ed era il giovane ritornato dal regno di Plutone. Perchè il padre, abbracciatolo con quella tenerezza che voi vi potete pensare, per non avere parole sufficienti alla presente allegrezza, tacendo il trasse fuori della sepoltura, e così vestito delle funebri vesti, come egli era, il presentò dinanzi al podestà. Il quale, avendo poscia compiutamente inteso la scellerata opera dello iniquo servo e della scelleratissima donna, diede a ciascuno il meritato guiderdone; e al buon medico di comun consenso fu lasciato il pregio avuto dal servo per pagamento della sonnolente bevanda: e quel padre, che era in pericolo di perdere due figliuoli, barattandogli colla pessima moglie, che fu perpetuamente sbandeggiata, allor vivi e innocenti gli riebbe, quando la Fortuna pareva che morti e colpevoli glieli volesse torre.
Nè vi andò guari dopo così fatto accidente, che quel soldato, che senza vendita altrui mi aveva comprato, e senza danari suoi mi aveva fatto suo, dovendo per comandamento del suo capitano portar certe lettere, allor mi vendè diciotto lire a due fratelli, i quali stavano con un signore di casa Orsina, chiamato il signor Giordano: uomo, oltra la nobiltà del sangue e le maravigliose ricchezze, tanto piacevole e tanto gentile, quanto altro che fusse stato gran tempo fa in quelle contrade: e un di loro lo serviva a far berlingozzi, ciambellette, zuccherini, e altre così fatte cose; e l’altro gli amministrava la cucina. E perciocchè egli accadeva loro spesso andar dietro al padrone ora in questo castello e ora in quell’altro, di comune concordia, perciocchè e’ facevano compagnia insieme di tutti i lor guadagni, egli mi presero a cagione che io portassi loro dietro la cucina e le masserizie del fornaio dove bisognava: e in tutto quel tempo ch’io era stato asino, io non provai mai la miglior fortuna, nè mi diedi mai così bel tempo: e questo era che, lassiamo star ch’io durava una pochissima fatica, e stava i begli otto dì per volta ch’io non usciva dalla stalla, i miei padroni sparecchiato che eran la sera le ricche tavole, egli portavano in una dispensa, della quale essi due tenevan la chiave, e dove io aveva la stanza mia, tutte le cose che avanzavano: pezzi di porci cinghiali, polli interi interi, starne, fagiani, pasticci, pesci, uova, cacio d’ogni sorte finissimo, pan bianchissimo, berlingozzi, zuccherini in forma di rosette, di uccelletti, d’animali d’ogni ragione, che era una gentilezza a vederli: e aveano una usanza, che quasi ogni sera dopo cena, serrato molto ben la dispensa, e’ se n’andavano a sollazzo a casa certe amiche loro, e portavan lor tanta roba, ch’egli era un cordoglio. Aveva io a camminar pochi passi, nè vi era tramezzo alcuno, che uscito della mia stalla, io saltava nella dispensa: e non era, ancora ch’io fussi asino, così privo d’ingegno, che co’ denti non mi sapessi scioglier la cavezza; e però non domandate se per un tratto io mi empieva il corpo di quelle buone vivande; che, come io vi ho detto pur ora, io non era asino così davvero, che potendo mangiar di quei dilicatissimi cibi, io gli lasciassi per mangiar del fieno. E sarebbemi durata un tempo questa comodità, senza che niuno se ne fusse accorto, se io, come da principio, con un poco di avvertenza fussi andato così gentilmente delle molte cose che vi erano togliendone dove una e dove un’altra; ma io, presa fidanza, come si fa del felice esito del picciolo furto a farne un maggiore, cominciai non solo a divorarmi le miglior cose che v’erano, ma mangiava le vivande intere intere. Della qual cosa accortisi i due fratelli, poichè e’ l’ebbero messe, secondo che lor pareva, in più sicuro luogo, e che l’ebbero annoverate, e guardate con maggior diligenza che prima, e veduto che nulla giovava; avendo non picciol sospetto l’un dell’altro, ciascuno appostando di scoprire il ghiotto, senza far parola, stava in orecchi per corvi l’altro. Finalmente un di loro, lasciato andare il rispetto del fraterno vincolo dall’un de’ lati, disse all’altro: Questo tuo andarmi ingannando ogni giorno, e furando le miglior cose che ci sono, e vendendole ascosamente farti la borsa gagliarda, sicchè il guadagno sia quasi tutto il tuo, e le fatiche vadano a mezzo, oramai non mi pare nè giusto nè ragionevole, ed io non lo posso più comportare: finalmente, se questa nostra compagnia non ti piace, partiamola, e facciamo in guisa che nelle altre cose noi possiamo esser buon fratelli, chè in questa io non ci veggio ordine, se noi non ci allontaniamo; ch’io veggio questa cosa avviarsi in luogo, ch’egli non sarebbe per un pezzo pace fra noi. Allora seguitò il primo: Per mia fe’, fratel mio, ch’io lodo cotesta tua prudenza; posciachè quando tu hai furato a modo tuo, tu m’hai prevenuto col rammaricarti, acciocchè io non mi rammarichi di te; e quello, di che io tacito mi dolea, a cagione ch’egli non s’intendesse mai ch’io infamassi un mio fratello d’una così fatta poltroneria, tu ne hai fatto schiamazzo, avendo tutti i torti dal canto tuo: or sia ringraziato Iddio, ch’egli è tornato il tempo di Ciolle Abate: vedi, che la tacita indignazione non ci farà simili ad Eteocle e Polinice. E dette queste parole, amendue presero gran saramenti, ch’e’ non erano colpevoli di quel danno; e rimaser d’accordo, e senza perdonare a spesa veruna, per giugnere questo ladroncello. E dicean fra loro: L’asino, il qual solo puote entrare in quella cella, non mangerebbe così fatti cibi, e i topi non vi possono entrare, li quali, come già fecero l’arpie alle tavole di Fineo, avessero a divorar quelle vivande: e nondimeno le più elette cose e le migliori sparivano da una ora a un’altra. Ed io pasciuto in questo mezzo di quei buon bocconi, aveva fatto una trippa, che io pareva pregno: la pelle era divenuta morbida come un velluto, e il pelo mi riluceva, ch’e’ pareva ch’io fussi stregghiato ogni mattina. Ma questa mia bellezza fu cagione di discoprire il ladro; imperocchè veggendo quelli miei padroni la mia non usata grassezza, e accorgendosi che il fieno era la mattina nella rastrelliera come e’ vel mettevano la sera, e’ cominciarono ad entrare nella maggior gelosia del fatto mio, che voi mai vedeste: e però diedero ordine di chiarirsi del tutto. E fatto le viste d’andare a spasso al modo usato, posciach’egli ebbero serrata la porta, e’ si misero per una fessura dell’uscio a veder quello ch’io faceva; e non istettero molto a disagio, ch’e’ s’accorsero ch’io andava scegliendo qui e qua i miglior bocconi che vi fussero. Nè avendo più riguardo al danno loro, anzi riempiutosi in un tratto d’una estrema maraviglia, per vedere cotanta diligenza in uno asino, misero un riso così sconcio, che tutta la casa trasse a quel romore. E mostrosi l’uno all’altro la disonesta gola d’un così fatto animalaccio, fecero tanto il fracasso, ch’e’ pervenne all’orecchie del signore, Il quale per avventura passava là oltre vicino: e domandato che importassero le lor grasse risa, e inteso la cagione, volle anche egli vedere questo miracolo; e tante le risa abbondarono eziandio a lui, ch’e’ fu quasi per crepare. E fatto subito subito aprir la porta, volle vedere se io avea temenza delle brigate: perchè io, veggendo che la Fortuna divenutami più benigna, mi pur rideva in qualche parte, e preso fidanza del lor piacere, senza muovermi donde io era, attesi a maciullare; insino a tanto che il padrone, tutto allegro del nuovo spettacolo, comandò ch’io fussi menato, anzi egli colle sue mani mi menò, nella sala dove egli mangiava: e fattomi apparecchiare una tavola, vi fece mettere su tante e sì elette vivande, ch’e’ ne sarebbe stato bene un liofante. Ed io ancorchè fussi assai ben satollo, desiderando di compiacerli il più ch’io poteva, come se affamato fussi mi mangiava ciò che mi era posto innanzi. Ed eglino immaginandosi quello che più solesse essere a schifo ad un asino, e con ogni diligenza cercandone, me lo ponevano alla bocca, per pienamente tentare la mia mansuetudine: carne nell’aceto, uccelli ripieni di pepe e altre spezierie, pesci ne’ più strani guazzetti che voi mai gustaste; e non mancò chi mi portasse un quarto di capretto con uno scodellino di salsa. E mentre ch’io ogni cosa rassettava, tutto il convito si risolveva con riso. Allora un certo buffon magro, che era lì presente, voltosi al signore, disse: E perchè non date voi anco un poco di vino a questo buon compagnone? E’ non ha parlato male il ribaldone, rispose il signore: e voltosi ad un di quei giovani che davan bere, seguitò: Emo, piglia quel tazzone, e lavalo molto bene, e dà a questo nostro novello parasito un tazzon di vin greco del miglior che sia in cantina; e digli, come io gliene ho fatto la credenza. Stette tutto il convito in una grandissima aspettazione di questo fatto; nè io impaurito miga per questo, rassettatemi l’estremità delle labbra in guisa della lingua, ne bevvi tutto in uno sorso quel grandissimo tazzone di vino. Hai tu mai veduto a Roma quei conviti che si fanno dal Re che e’ chiamano della Fatta? che quando quegli che tiene il luogo del Re, beve, tutto il convito lieva il romore, gridando: il Re beve, il Re beve; cotal fu il romore di tutti quei che erano nella sala, a gridare: buon pro ti faccia, buon pro ti faccia; quando io ebbi tracannato quel vino. Allora il signore, chiamato quei de miei padroni, comandò ch’e’ fusse lor dato due volte il doppio di quello ch’e’ mi avevano comperato: e toltomi per suo servidore, mi consegnò ad un suo carissimo, e molto caldamente me gli raccomandò; il quale e per sua buona natura, e per fare cosa grata al padrone, assai umanamente mi nutricava; e per meglio guadagnarsi la grazia sua, cercava accrescendo le mie arguzie di accrescere i suoi piaceri. E la prima cosa, egli m’insegnò stare a sedere a tavola come le persone, fare alle braccia, saltare, andar diritto in su’ piè di dietro; e quello che pareva ad ognuno maraviglioso, egli m’insegnò usare i cenni in luogo delle parole, e che quello ch’io voleva e quello ch’io non voleva bere, che col muover d’un ...

Table of contents

  1. Titolo
  2. BREVE DISCORSO DELLA VITA DI APULEIO.
  3. Al molto magnifico e nobilissimo signore Lorenzo Pucci
  4. LIBRO PRIMO
  5. LIBRO SECONDO
  6. LIBRO TERZO
  7. LIBRO QUARTO
  8. LIBRO QUINTO
  9. LIBRO SESTO
  10. LIBRO SETTIMO
  11. LIBRO OTTAVO
  12. LIBRO NONO
  13. LIBRO DECIMO