— Il treno per Aquila? — domandò —Ettore Boni
al primo ferroviere che vide fermo sul marciapiede, sotto la vasta
tettoia di cristallo affumicata e fragorosa.
— In fondo! — gli fu risposto.
Il cortese funzionario, più autorevole nel suo
laconismo che nella sua divisa di panno regolamentare, gli aveva
dato le più chiare indicazioni; fu per la propria inesperienza che
il viaggiatore non trovò il treno lì per lì, e andò errando un bel
pezzo confuso tra un monte di merci, di carretti e di bagagli, tra
una folla di altri viaggiatori frettolosi che affluivano da tutte
le porte, tra lunghe file di carrozzoni fermi e vuoti, allineati
come casette d’un villaggio fantastico nella semioscurità della
tettoia, tra due locomotive che manovravano in senso opposto e
parevano sul punto di cozzare, sfolgorando dagli enormi occhi
rossi, ansimando e fischiando breve, fra un gran strepito d’assi,
di catene e di ruote.
— Aquila? — ripetè Ettore a un uomo gallonato,
ch’egli aveva scambiato a primo aspetto per un capostazione e
ch’era, invece, o un graduato della regia marina o un solenne
personaggio alle dipendenze d’un solennissimo albergatore. L’uomo
gallonato ci teneva in modo superlativo ai suoi galloni e reputava
alquanto oltraggioso un errore di quella specie, e lo punì col
silenzio e con un’occhiata di sdegno che parve la punta d’una
freccia.
Prima di arrischiare una terza domanda a un
terzo che gli apparve fornito di qualche autorità – una particella,
anche minima, di potere splende su un uomo meglio di una medaglia –
Ettore aperse bene gli occhi per squadrarlo attentamente e
classificarlo nella benemerita famiglia dei ferrovieri. L’impiegato
si teneva dritto contro l’orlo d’uno sportello, e guardava tra i
viaggiatori come per distinguere i proprî.
— Aquila è qui? — ripetè il giovane con
umiltà.
— L’ultima vettura! — disse l’impiegato,
accennando in fondo, e soggiunse, con un grido: — Treno
Foligno-Ancona!
Ettore s’affrettò per quanto glielo
permettevano due valige pesanti, che reggeva a fatica su un fianco
e sull’altro, e finalmente poggiò il piede sul predellino della
vettura Roma-Castellamare.
— Permettete, signori — fece, spingendo a
stento una valigia per lo sportello aperto.
— Presto, presto, si parte! — gridò una voce
dal fondo. Qualche istante dopo, una mano sgarbata lo spinse di
dietro, lo sportello si chiuse, il treno si scosse, ed egli cascò
ginocchioni sul pavimento a regoli della vettura, con la seconda
valigia in mano sulla prima già deposta. Voleva vendicarsi
dell’urto brutale con un’imprecazione; ma la vista di tre
fanciulle, sedute nel compartimento, gliela trattenne sulle labbra.
Invece, espresse naturalmente un’esclamazione ammirativa,
rialzandosi col miglior garbo che poteva e facendo miracoli per
tenersi in equilibrio nell’atto di collocar le valige nella rete.
In verità era un po’ confuso, e lo sentiva al calore del viso, per
parecchie ragioni, una più grave dell’altra: il bagaglio, d’una
volgarità troppo evidente – è strano come la grossolanità di un
oggetto debba direttamente influire sulla impalpabilità dello
spirito, fino a umiliarlo – la caduta, la cravatta un po’ logora, e
le mani, nella sua condizione di studente, non sempre pulite. Se le
guardò con una rapida occhiata e rilevò che erano monde
d’inchiostro; cosa che lo ricompose un pochino, e lo fece sedere
abbastanza tranquillo nel centro del divano, di faccia a due delle
fanciulle, fra la terza seduta in un angolo e un signore dal pizzo
bianco seduto nell’altro.
Il primo attimo d’un incontro con visi nuovi è
di ostilità; il secondo può essere di simpatia. Ma se i visi nuovi
sono in maggioranza di giovinette la simpatia può nascere nel primo
istante. Piccolo punto nero nella beata visione di quelle tre paia
d’occhi sorridenti gli fu il pensiero di dover tutta la notte far a
meno del sigaro: privazione questa che, ad un cavaliere meno forte
o più risoluto, avrebbe suggerito l’idea di cambiar di vettura alla
prima fermata. Egli invece se ne stette al suo posto dolcemente
rassegnato, tenendo gli occhi fermi in un punto vago, per non
sollevar diffidenze nell’animo paternamente severo o sospettoso del
signore dal pizzo bianco, il quale lo guardava con un atteggiamento
non chiaramente definibile, certo più seccato che benevolo, perchè
con l’ingresso improvviso d’uno straniero in quell’intimità
familiare, era svanita la speranza di riposar tranquillamente in
quella vettura, come nel proprio letto, per il resto della
notte.
Intanto, si misero tutti e cinque a seguire le
ondulazioni del treno, che lasciava i numerosi binarî, sparsi di
fiammelle verdi e rosse e si lanciava nelle tenebre, accelerando le
sue pulsazioni metalliche. L’aria viva gonfiava e sbatteva le
tendine, che starnazzavano come uccelli acchiappati in una rete, e
nei primi istanti fu un refrigerio alla caldura e all’afa della
città; ma poi diventò così impetuosa e frizzante che Ettore
consultò con gli occhi i compagni sull’opportunità di sollevare i
vetri.
— Sì — parvero assentire tutti; e, lieto del
tacito mandato che gli apriva un usciolino alla società dei suoi
compagni di viaggio, egli s’affrettò ad eseguirlo. Nell’atto,
traballò più volte e si schiacciò un dito – se ne schiacciano di
dita ogni giorno sulle ferrovie italiane, nei tentativi di
abbassare o sollevare finestrini! – ma s’ebbe un compenso nel
cortese aiuto offertogli generosamente dal signore dal pizzo
bianco, il quale, vedendolo barcollare come una statua in
processione, lo prese con la mano per la falda della giacca, e la
tenne così finchè non lo rivide ritornato sicuramente al
divano.
— Va all’Aquila lei? — gli domandò poi con
cortesia.
— Sì — rispose l’interrogato, felice di
attaccare conversazione.
— A studiare?
— Sì, a studiare.
Le signorine non erano uscite ancora da quella
specie d’impaccio in cui le aveva costrette l’ingresso inatteso di
Ettore. Tutte e tre si studiavano di star, come meglio potevano,
ferme, ostinatamente decise a non cedere al violento dondolìo del
treno che oscillava di qua e di là, come la lampada illustre
generatrice del pendolo. In certi momenti, quel dondolìo si mutava
in un formidabile sussulto di terremoto, che saliva dalle piante
dei piedi al cervello, dandogli un singolare stordimento.
— Accidenti! — esclamò a un sussulto più
energico, il signore dal pizzo bianco.
A quell’esclamazione, un po’ troppo familiare,
diciamo anche volgare, Ettore lo riconobbe aquilano, la figliuola
maggiore sorrise, la seconda fissò gli occhi severi in viso al
padre, la più piccola osservò:
— Pare un viaggio di mare!
Proprio così. Su tutte le strade ferrate
italiane non c’è peggior vettura di quella Roma-Castellamare. Messa
in coda al treno Foligno-Ancona, per essere sganciata a Terni e
agganciata al treno per Aquila che l’aspetta, risente degli urti di
tutte le carrozze, sballottando in maniera atroce i malcapitati
suoi prigionieri. Una mano che sbatta un sorcio nella trappola,
prima di gettarlo alle unghie del gatto, dà una molto pallida idea
del loro martirio. Ma che fare? Non potendo di meglio, si comincia
a ridere, aspettando con strana ansietà gli urtoni più forti,
provando una specie di delusione se il treno per un tratto si mette
a correre uguale, senza scosse notevoli. Quindi Ettore si mise a
ridere; e le tre bocche giovinette risero anch’esse, e il ciglio
alquanto corrugato del babbo si spianò anch’esso. A quei tre
sorrisi graziosi e a quello soltanto consensuale del babbo, egli si
sentì più vicino alle giovanette, parendogli d’aver attaccato già
un filo d’ideale comunione con loro. Se fosse stato di giorno, a
quel punto certo la conversazione sarebbe cominciata; ma a
quell’ora, la stanchezza pesava su tutti, e il rimbombo della corsa
impediva di parlare, e la luce troppo scarsa della lampada
conciliava piuttosto il sonno. Senza la presenza di lui, la
questione del riposo sarebbe stata pienamente ed elegantemente
risolta: il babbo disteso dall’angolo destro alla metà del divano;
la piccina dall’angolo sinistro, coi piedini contro i piedoni
paterni; le altre due sorelle sul divano dirimpetto; e il genietto
del sonno avrebbe tirato silenzioso la morbida cortina dell’oblio
su quei quattro giusti. Ma con lui era entrato lo scompiglio fra
quelle pareti in continuo sussulto. Il padre non poteva, senza
mancare alla più elementare convenienza, stampargli sulla falda
della giacca il grave suggello delle sue orme; la piccina,
dall’altro lato, rifuggiva dallo stabilire, fosse anche per mezzo
dei piedi, un contatto con un estraneo: le sorelle, che sedevano
dirimpetto, la seconda e la maggiore, non osavano, per cento
considerazioni d’estrema importanza, sdraiarsi senz’altro sul loro
sedile, chè sarebbe stato come rivelar parte della loro intimità. E
per lui, che pativa anche dell’impaccio di tutti, era una pena lo
spettacolo di quelle tre teste penzolanti, di quei sei occhi gravi
di sonno, di quei tre corpi incessantemente trabalzanti; ma una
curiosità più acuta della pena lo teneva vigilante nell’attesa del
séguito.
Anche Ettore – perchè negarlo? – sentiva
acutamente il disagio, e si sarebbe goduto volentieri un cantuccio
di treno, pur nello stordimento della sua musica infernale; ma
nemmeno lui poteva chinare la testa sulla mano, puntando il gomito
sul bracciale, senza dar manifesto segno di debolezza. Se ne rimase
con gli occhi sbarrati, guardando ora l’una ora l’altra delle
fanciulle, le quali, con sforzo evidente, cercavano di star deste,
e di cancellare dalle sue impressioni anche il sospetto della loro
stanchezza. La piccina, per sostener lo sforzo, prese a guardare un
giornale raccattato sul sedile, ma ottenne l’effetto opposto, e si
agitò smaniosa nell’angolo. Le altre, ora, cedevano, sciolte un po’
dalla soggezione del suo sguardo, ai varî impulsi del treno,
ondeggiando come figurine di carta, scosse a intervalli dal vento.
Ma dormire! «Ohibò!» parevan dire. E si guardavano in viso,
consultandosi, guardavano il babbo, consultandolo, guardavano un
poco anche l’estraneo, consultandolo un pochino. Sembrava che
l’estraneo dicesse: «Fate pure, liberamente. So bene che le
fanciulle dormono, e spesso più degli uomini. Non temete che io
profani, nemmeno col pensiero, il vostro riposo innocente. Che le
fanciulle siano assalite dal sonno, è fatto universalmente noto,
anche ai maschi indiscreti… Voi, certo, osservate che altro è
sapere, altro è vedere. Giusto. Ma le leggi variano secondo le
necessità, e in treno si può dormire innanzi agli estranei senza
offendere il decoro di nessuno, tanto meno il proprio. E poi io non
sono indiscreto, e farei finta di nulla. Anch’io soffro dello
stesso male, e come se ci fosse un po’ di spazio, m’allungherei
beato, facendomi della giacca un guanciale!». Il suo consenso non
parve chiaro alle due fanciulle, che si limitarono ad appoggiare il
gomito, l’una di qua, l’altra di là, sulla sporgenza del
finestrino, e a inclinare pianamente la testa sulla palma, come due
statue che si fan riscontro in una sala.
— Vuoi lo scialle? — domandò il padre alla
piccina.
— Sì — fece la piccina, con un cenno della
testa e degli occhi pieni di sonno.
S’avvolse il capo; alcuni riccioli le
sfuggirono sulla fronte; s’inclinò tutta sulla vita, e stette in un
mirabile atteggiamento di riposo.
«La piccina è disinvolta» Pensò Ettore, e poi:
— Coraggio! l’esempio è dato — disse con gli occhi alle altre due,
che lo guardavano sorprese; scandolezzate, anzi,
dall’incitamento.
— No. — rispose la maggiore, col tacito
linguaggio dello sguardo. — In coscienza, non possiamo. Che ci
direbbe, se ci vedesse dormire? E non significa nulla, se mia
sorella dorme. Il mio atteggiamento ha un valore diverso. Il mio
sorriso, i miei sguardi, i miei accenti dicono cose che la
sorellina non esprime e non può esprimere, e il mio sonno pure; e
il mio sonno ha il carattere delle cose inviolabili. Che direbbe,
se mi vedesse dormire?
— Parola, non direi nulla! — accennò il
giovane, sempre in silenzio.
La sua assicurazione non parve sincera alla
sorella, maggiore, la quale volle mostrargli quanta forza avesse, e
si rilevò, come rinnovata, e parve decisa a qualunque prova, con la
bella testa coraggiosa eretta sulle spalle. Ma l’altra, una
personcina sottile di madonnina di cera, un visino affilato, quasi
carezzato delicatamente dal pennello che l’aveva coronato di
capelli biondi, parve gli chiedesse indulgenza, ed egli fu vinto da
pietà per quegli occhi cerulei, rassegnati e pazienti.
— Ma s’accomodi pure, signorina! — le voleva
dire; e glielo fece intender col voltar la testa da un lato, col
finger d’esser occupato a frugarsi in tasca, col cavar l’orologio e
consultarlo con grande attenzione, con l’accomodarsi in viso una
maschera di indifferenza. In verità non era indifferente, e la
leggera sofferenza della fanciulla lo attraeva, suo malgrado, verso
di lei. Che fare per persuaderla che egli non avrebbe rilevato quel
momento di abbandono! Le diede lui l’esempio, e chinò il mento sul
petto, fingendo d’esser sorpreso improvvisamente dal sonno. Fece
così per darle il tempo necessario di vincere la sua esitanza,
l’ultimo ritegno di quel suo delicatissimo riserbo femminile; ma
essa non volle impadronirsi con la frode di ciò che le poteva
essere apertamente concesso; ed egli la rivide, quando riaprì gli
occhi, nello stesso atteggiamento in cui l’aveva lasciata, il
gomito sulla sporgenza del finestrino e la guancia sulla palma.
Allora pensò di scendere a patti: una
concessione a lui, e libero sonno a lei.
— Non la pipa, signorina — pensò di dialogare
— … la mia è troppo grumata per esser sofferta dalle sue
narici… Nemmeno il sigaro… L’odore del sigaro certo non le sarebbe
sopportabile… Ma una sigaretta… Una sola sigaretta, signorina! È da
tanto tempo che ho le labbra secche e smaniose dell’acre sapor del
tabacco. E il patto le conviene, signorina; io mi volto verso il
suo degnissimo babbo, signorina, e in tutto il tempo che una
sigaretta impiega a bruciare, non guarderò che lui di profilo, più
fermo d’una macchina sull’oggetto da fotografare. Lei, intanto,
potrà adagiarsi a suo comodo, distendersi, raccogliersi, serrare le
ciglia di seta, e… dormire, se crede.
Il contratto era conveniente per lei e per lui;
ed egli volle indagarle nel volto l’effetto dell’esecuzione. Essa
seguì l’atto delle mani del giovane, osservò con interesse
l’estrazione dell’astuccio delle sigarette dalla tasca interna
della giacca, vide spuntare la sigaretta, parve assentire.
— Allora, quando è così, accendo — egli disse
con gli occhi.
Sfregò il cerino contro il dorso della scatola
con un po’ di trepidazione, temendo che il contratto non convenisse
al babbo; ma questi, invece, gli trattenne il braccio, impedendogli
di estinguere la fiammella ed esclamando:
— Un momento, chè accendo anch’io.
— Tenga — rispose Ettore, dandogli la
scatola.
Il signore dal pizzo bianco cavò pacatamente
dalla giacca una pipetta di legno, ne scosse un residuo di cenere,
cacciò nel fornello un ferro acuminato per assicurarsi della
libertà del passaggio alla canna, e vi spinse con l’indice della
sinistra, dalla destra raccolta a scodellino, il tabacco
necessario.
— Temevo di darle, noia — aggiunse. — Credevo
che lei così giovane fosse ancora immune da questo viziaccio.
Dimenticavo che adesso i bambini preferiscono la sigaretta alla
cioccolata. Invece ai tempi miei c’era più ritegno…
E narrò come ai tempi suoi – Ettore l’ascoltava
senza prestargli soverchia fede, perchè certa sua scienza istintiva
lo avvertiva che gli uomini son simili in tutti i tempi – come ai
tempi suoi le cose volgessero con maggior senso delle convenienze,
con perfetta coscienza dei doveri dei giovani, che aspettavano fino
a una certa età per far conoscenza col vizio, e che, fattane la
conoscenza, lo nascondevano con gran cura ai maggiori, per un
delicato senso di rispetto. Egli aveva già moglie ed una bambina,
ai suoi tempi, e pure se vedeva appressarsi il padre, s’affrettava
a nascondere il sigaro.
— Se lei considera come un segno di rispetto
l’astenersi dal fumare in presenza degli anziani, — gli osservò il
giovane cortesemente — per dimostrarle il mio, getto via la
sigaretta.
— No, — gli fece il signore dal pizzo bianco —
dicevo in generale. Fumi, fumi pure! Lei è un eccellente ragazzo, e
a me piace di fumare in compagnia. Se fuma dei sigari, ho qui un
toscano scelto, un vero toscano di Firenze.
E glielo porse, ed egli l’accese, e giù si mise
a trarre boccate da fare invidia a un fumaiuolo.
E allora si voltò, e vide la giovanetta, con la
quale aveva stretto il contratto, raccolta nell’angolo colle
palpebre chiuse, con una mano sotto la guancia, l’altra penzoloni,
che seguiva insieme con la punta dei piedini, sorpassanti l’orlo
del divano, il ritmo balzano del treno. Ma la maggiore era ancora
vigile: le pupille nere, intensamente vive nel volto roseo, il
petto eretto sulla vita snella, pareva la scolta fedele delle
minori sorelle. Non fu vista mai sbadigliare, non diede segno
alcuno di stanchezza; non udì, non volle udire mai Ettore che la
esortava tacitamente al riposo.
— Allora, cercherò di riposar io! — disse
Ettore fra sè e sè, incoraggiato dall’esempio del babbo, che era
caduto nella grave concentrazione del sonno, con la pipa non ancora
spenta fra le labbra. E appoggiò il fianco a una valigia,
sforzandosi di rimpicciolirsi, per non disturbare il signore da un
lato e la piccina dall’altro. E dormì di quel sonno strano e
tumultuoso che si gode, o piuttosto si soffre, sulle strade
ferrate, di quel sonno che è assenza di tempo e non di coscienza,
che s’interrompe a ogni stazione e si riprende a ogni nuovo segnale
di partenza, che sembra una corsa per un baratro senza fondo, con
un rombo perpetuo negli orecchi, quasi estraneo alla percezione
sensitiva, con ululati strazianti di ferramenta lontani e vicini,
vicini e lontani, con cupe risonanze di gallerie che sembrano
sfasciarsi, con imprecazioni che sorgono improvvise dagli abissi,
quasi bufera di morte addensata sul mostruoso veicolo lanciato
perdutamente nello spazio.
A tratti, egli aperse gli occhi e ogni volta
incontrò quelli della fanciulla dell’angolo destro, la quale non un
solo minuto cedette all’impulso prepotente delle palpebre gravi,
non un solo istante volle spostarsi dalla rigida linea d’uno
squisito decoro femminile. E aveva nell’aspetto la serena dolcezza
d’un angelo familiare.