Un Re Lear delle steppe
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Un Re Lear delle steppe

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Un Re Lear delle steppe

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Un re Lear della steppa e un racconto costruito da Turgenev sul modello del Re Lear di William Shakespeare.

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Information

X.

Un giorno – si era in giugno e già scendeva la sera – ci fu annunziata la visita di Martino Petrovich.
Mia madre si meravigliò: da più di otto giorni egli non si era fatto vedere, e fino allora non era mai venuto così tardi a farci visita.
— Deve essere accaduta qualche cosa — disse mia madre a mezza voce.
Infatti il volto di Carlof, il quale, appena entrato, si lasciò cadere su di una sedia, aveva un'espressione così strana, era così pallido e angosciato, che mia madre non potè frenare un grido.
Martino Petrovich alzò lentamente i suoi piccoli occhi e la guardò, rimase per alcuni istanti in silenzio, sospirò profondamente, tacque di bel nuovo, e finalmente cominciò a dire delle parole confuse: era venuto per una cosa… . una cosa… .
E dopo aver borbottato altre parole sconnesse, improvvisamente si alzò e se ne andò.
Mia madre suonò il campanello e ordinò a un domestico di corrergli dietro e di ricondurlo a ogni costo; ma Martino Petrovich aveva avuto il tempo di risalire nel suo carrozzino e si era allontanato.
La mattina seguente mia madre, che era rimasta preoccupata di quello strano contegno del nostro vicino e dell'espressione del suo volto, stava per mandargli un messo, quando lo vide entrare. Il gigante sembrava un po' più tranquillo della sera precedente.
— Ebbene — disse mia madre appena lo vide, — dimmi, che cosa avevi ieri sera? In verità ho pensato che tu avessi perduto il bene della ragione!
— No, stimatissima signora, la ragione non l'ho perduta — rispose Martino Petrovich, — ma devo parlarvi di una cosa molto importante e domandarvi un consiglio.
— Sentiamo!
— Però, ho paura che voi… .
— Parla parla, via; non mi tenere in pena inutilmente. Forse sei stato ripreso dalla tua solita malinconia?
Carlof corrugò la fronte.
— No, non è stata la malinconia: quella mi capita adesso soltanto al tempo della luna nuova. Però permettetemi, stimatissima signora, di farvi una domanda: Che cosa ne pensate della morte?
Mia madre trasalì spaventata.
— Di che? — domandò.
— Della morte. Credete che essa possa risparmiar qualcuno in questo mondo?
— Oh, Martino Petrovich — rispose mia madre, — a che ti tormenti con questi pensieri? Lo sai bene che nessuno degli uomini è immortale; anche tu, con tutta la tua gigantesca corporatura, un giorno dovrai morire.
— Sì, anch'io un giorno dovrò morire — disse Carlof, chinando il capo.
E con voce lenta e cupa aggiunse:
— Ho avuto una visione notturna.
— Che dici?
— Una visione notturna — ripetè Carlof. — In sogno io ho sempre delle visioni.
— Tu?
— Sì, io; non lo sapevate?
Sospirò profondamente, poi riprese:
— Ebbene, stimatissima signora, ascoltate: otto giorni fa, la vigilia di San Pietro, dopo il desinare, mi ero coricato per riposarmi alquanto e mi addormentai. Improvvisamente vidi un puledro nero nero come uno scarafaggio che cominciò a saltare e a digrignare i denti.
Carlof tacque un momento.
— E poi? — domandò mia madre.
— Poi, da un momento all'altro, il puledro mi dà un calcio poderoso al gomito sinistro, proprio nel punto più sensibile… . Mi svegliai e mi accorsi che non potevo muovere il braccio sinistro e nemmeno la gamba sinistra. Pensai che fosse una paralisi; ma un po' alla volta potei muovere così la gamba come il braccio; solo che per molto tempo sentii, e sento ancora, un formicolìo alle articolazioni. Ecco, appena apro la mano sento di nuovo il formicolìo.
— Ma, Martino Petrovich, avrai dormito posando col corpo sul braccio sinistro.
— No, stimatissima signora, non è questo: la visione che io ho avuta e il formicolìo sono un annunzio della mia morte.
— Oh, questa è bella! — lo interruppe mia madre.
— Un annunzio, ripeto — disse Carlof. — Devo tenermi pronto a morire; e perciò, stimatissima signora, sono venuto per comunicarvi quanto segue. Siccome non voglio — proseguì gridando, — siccome non voglio che la morte sorprenda impreparato questo servo del Signore, così ho deciso di dividere, mentre sono ancora vivo, le mie sostanze fra le mie figliuole Anna ed Eulampia.
Martino Petrovich si fermò un momento, mandò un sospiro e aggiunse:
— E intendo di farlo senza perdere un momento.
— È una decisione ragionevole, capisco — rispose mia madre: — però, mi pare che non ci sia alcuna ragione di affrettarsi tanto.
— E poichè — riprese Martino Petrovich, alzando ancor più il tono della voce, — e poichè intendo che la cosa venga fatta in piena regola e nelle forme imposte dalla legge, e poichè non ho il coraggio d'incomodar voi, stimatissima signora, prego il vostro figliuolo Demetrio Semenovich, e nello stesso impongo al mio parente Bickof come suo obbligo e suo dovere, di assistere alla rogazione dell'atto legale e alla consegna dei miei beni alle mie due figliuole, la coniugata Anna e la nubile Eulampia; la quale cerimonia solenne si compirà dopodomani, alle ore dodici, nella mia tenuta di Jeskovo, detta anche Kosulkino, alla presenza della competente autorità, alla quale è stato già fatto il debito invito.
Martino Petrovich stentò non poco a snocciolare questa filastrocca, che evidentemente aveva imparata a memoria, e nel recitarla mandò non pochi sospiri. Si sarebbe detto che gli mancasse l'aria: il suo volto, dapprima pallido, un po' alla volta era diventato pavonazzo, e ripetutamente egli si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte.
— E hai già redatto l'atto di donazione? — domandò mia madre. — Hai trovato il tempo di farlo?
— Sì, stimatissima signora.
— E lo hai scritto tu stesso?
— Non tutto, mia benefattrice: mi ha aiutato mio genero, Volodka.
— E hai presentato il documento alle autorità?
— L'ho presentato, e il tribunale lo ha legalizzato e il funzionario che deve procedere alla lettura dell'atto ha già fissato la data per la cerimonia.
Mia madre sorrise.
— Vedo che hai sbrigato tutte le pratiche necessarie, e molto presto. Non avrai risparmiato denaro, m'immagino…
— Non ho risparmiato denaro, stimatissima signora.
— Ebbene, per conto mio, che Demetrio assista pure alla cerimonia; anzi, ti manderò anche Souvenir e dirò anche a Kvicinski di recarsi dopodomani a Jeskovo. E Gavrilo Fedulich l'hai invitato?
— Sì — rispose Carlof con una certa esitazione, — anch'egli, come mio futuro genero, deve venire…
Evidentemente Martino Petrovich aveva esaurito tutta la sua eloquenza; inoltre, mi era sembrato sempre che egli non vedesse troppo di buon occhio l'uomo che mia madre aveva scelto come marito per Eulampia: forse egli avrebbe voluto trovarle un partito migliore.
Il gigante si alzò e fece, come potè, una riverenza.
— Stimatissima signora — disse, — vi ringrazio infinitamente.
— Ebbene, dove vai ora? — domandò mia madre. — Aspetta, ti farò dare un po' di colazione.
— No, grazie — rispose Carlof: — non posso: devo tornare a casa.
E movendosi di fianco, secondo la sua abitudine, si avviò verso la porta.
— Aspetta un momento! — disse mia madre. — Dunque tu dividi la tua sostanza fra le tue figlie senza riservarti nulla?
— Naturalmente senza riservarmi nulla.
— E dove andrai ad abitare?
Carlo alzò le braccia stupefatto.
— Dove andrò ad abitare? Oh bella, in casa mia, come ho fatto finora. In questo non c'è da fare nessun cambiamento.
— Hai tanta fiducia nelle tue figliuole e in tuo genero?
— Oh, quanto a quel pitocco di Volodka, ci penso io a tenerlo a posto, e poi egli non ha alcun diritto a immischiarsi in queste faccende. Quanto alle mie figliuole, devono darmi da mangiare e da bere, devono vestirmi e calzarmi e darmi alloggio finchè vivo: questo, stimatissima signora, è il loro sacrosanto dovere! Del resto, non dovranno mantenermi a lungo: mi sento già la morte dietro le spalle.
— Dio manda la morte secondo la sua santa volontà — rispose mia madre; — e le tue figliuole hanno indubbiamente il dovere di mantenerti; però, non te ne avere a male, Martino Petrovich, però Anna è una donna molto fiera, tutti lo sanno: Eulampia, poi… .
— Oh, Natalia Nicolaievna — interruppe Carlof, — che dite mai! Le mie figliuole negarmi obbedienza? Via, nemmeno per sogno! Volete che si mettano contro di me, contro il loro padre? Ma… ma, è possibile? Esse che hanno passato tutta la vita obbedendo e tremando davanti a me? E ora… così da un momento all'altro… Oh, mio Dio!…
E fu preso da un assalto di tosse così forte, che pareva fosse lì lì per soffocare.
— Bene, bene — disse mia madre per calmarlo.
— Solo non capisco perchè tu voglia procedere ora alla divisione dei beni; tanto, dopo la tua morte, tutto sarebbe andato a loro. Io temo che la ragione di tutto ciò sia un nuovo assalto di malinconia.
— No, stimatissima signora — rispose Carlof, — non si tratta della mia solita malinconia: io obbedisco a una forza superiore, e ho deciso di procedere alla divisione della sostanza perchè voglio stabilire io stesso che cosa tocchi a ciascuna delle due, affinchè, dopo aver ricevuto questo beneficio, esse me ne siano grate… e rispettino la mia volontà…
La voce di Martino Petrovich si fece di nuovo esitante.
— Basta, basta! — si affrettò a dire mia madre: — non vorrei che tornasse a mostrarsi il puledro nero!
— Non me ne parlate, Natalia Nicolaievna — disse Carlof, — non me ne parlate: vi assicuro che era la morte. Ora, addio; e voi, signorino, ricordatevi che vi aspetto dopodomani.
Mentre Carlof si allontanava, mia madre gli guardava dietro scuotendo la testa.
— Ciò non mi promette nulla di buono — mormorò, — nulla di buono.
Poi, volgendosi a me, soggiunse:
— Hai notato che, mentre parlava, batteva le palpebre come uno che venga colpito in pieno viso dai raggi del sole? Brutto segno: chi fa così è minacciato da qualche sventura. Dopodomani andrai a Jeskovo con Kvicinski e con Souvenir.

XI.

Il giorno stabilito, la nostra grande carrozza di famiglia a quattro posti tirata da sei cavalli bai e guidata dal primo cocchiere, il grosso Alessio dalla barba grigia, si fermò maestosamente davanti alla porta della nostra casa. L'importanza dell'atto che Carlof si accingeva a compiere e la solennità con la quale egli ci aveva invitati ad assistervi avevano fatto impressione a mia madre, ed era stata lei stessa che aveva ordinato di attaccare l'equipaggio di gala e aveva comandato a me e a Souvenir di indossare il vestito di festa: così essa intendeva far onore al suo «protetto». Quanto a Kvicinski, egli portava sempre la marsina nera e la cravatta bianca.
Durante tutto il percorso Souvenir non cessò di cicalare come una gazza, e ogni momento accennava all'eventualità che il suo caro cognato facesse donazione di qualche cosa anche a lui; ma subito dopo si metteva a imprecare contro di lui chiamandolo ora un lupo mannaro, ora un idolo pagano.
Finalmente Kvicinski, che era un uomo cupo e piuttosto bilioso, non ne potè più, e parlando col suo solito accento polacco disse:
— Non potreste fare a meno di dire tante sciocchezze? Non potete star zitto un momento? Avete bisogno di spacciare continuamente le vostre inconcludenti scempiaggini? («Inconcludente» era il suo aggettivo preferito).
— Ecco, subito, subito!… — brontolò rabbiosamente Souvenir, e tacque guardando coi suoi occhi guerci fuori del finestrino.
Non era ancora passato un quarto d'ora e i cavalli che battevano un trotto regolare avevano appena incominciato a riscaldarsi sotto i loro bei finimenti nuovi, quando arrivammo in vista della casa di Carlof. La nostra carrozza entrò, passando per il portone spalancato, nel cortile; il battistrada, un ragazzo che coi piedi arrivava appena all'estremità della sella, fece udire per l'ultima volta il suo grido; i gomiti del vecchio Alessio si alzarono contemporaneamente per tirare le redini; udimmo un lieve «brrr» e la carrozza si fermò.
Non un cane ci accolse coi suoi latrati; perfino i figlioletti dei servi e dei contadini, che di solito si vedevano girare sempre nel cortile coi loro lunghi camiciotti, perfino essi erano spariti. Ma il genero di Carlof ci aspettava sulla soglia della porta. Mi ricordo d'aver notato che ai due lati della scala erano state collocate delle piante di betulla.
— Per Bacco, quale solennità! — mormorò Souvenir saltando per il primo fuori dalla carrozza.
Infatti, sembrava che tutto avesse un'aria di solennità: il genero di Carlof portava una cravatta di velluto con un fiocco di raso e una marsina nera straordinariamente stretta, e il piccolo cosacco Maximka, che faceva capolino dietro le spalle di Slotkin, si era impomatato tanto che aveva i capelli tutti sgocciolanti.
Entrammo nel salotto, e in mezzo alla stanza vedemmo sorgere davanti a noi come un monte Martino Petrovich, che stava immobile, seduto su di una poltrona. Non so quali sentimenti provassero Souvenir e Kvicinski alla vista di quella figura colossale, ma quanto a me...

Table of contents

  1. Titolo
  2. RACCONTO (Versione dal russo)
  3. I.
  4. II.
  5. III.
  6. IV.
  7. V.
  8. VI.
  9. VII.
  10. VIII.
  11. IX.
  12. X.
  13. XI.
  14. XII.
  15. XIII.
  16. XIV.
  17. XV.
  18. XVI.
  19. XVII.
  20. XVIII.
  21. XIX.
  22. XX.
  23. XXI.
  24. XXII.
  25. XXIII.
  26. XXIV.
  27. XXV.
  28. XXVI.
  29. XXVII.
  30. XXVIII.
  31. XXIX.
  32. XXX.