La virtu di Cecchina
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La virtu di Cecchina

About this book

Il romanzo La virtu di Checchina, capolavoro della Serao, dopo essere apparso a puntate sulla Domenica Letteraria, venne pubblicato a Catania nel 1884. Ne e protagonista la giovane e piacente Checchina, sposata ad un medico avaro ed insensibile che non la comprende. Ormai rassegnata ad una vita grigia e monotona, Checchina riscopre la gioia grazie alle attenzioni di un marchese, invitato a cena nella loro casa dallo stesso marito. Decisa a concedersi, la ragazza riuscira, a tal fine, a superare tutte le difficolta pratiche tranne una...

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Information

IV.

Al mattino seguente il marchese d’Aragona mandò alla signora Primicerio un mazzo di rose bianche e di vainiglia. Toto era uscito. Checchina si faceva pettinare da Susanna: aveva gli occhi socchiusi e le labbra sbiancate, come chi ha mal dormito. Si fisava nello specchio, senza vedersi, come trasognata: quando vide il mazzo di fiori, si confuse, lo prese pe’l gambo, lo strinse al petto, sbalordita:
— Il cameriere aspetta — disse Susanna, con la voce dura e secca.
— Aspetta? gli dirai… gli dirai, Susanna, che ringrazio tanto il signor marchese… e che lo ringrazia anche mio marito. Va… senti, non sarebbe meglio scrivere un biglietto di ringraziamento?
— So molto io — borbottò l’altra, con una spallata.
— Senti, io non posso passare dinanzi al cameriere in sottana di flanella: fammi il favore, prendi un foglio di carta, una busta, il calamaio, la penna, e porta tutto qui.
Mentre Susanna si attardava, di là, Checchina con la faccia china sul mazzo delle rose, pensava a quello che avrebbe scritto al marchese: era presa dalla vergogna di non saper scriver bene, di far qualche grosso errore di ortografia. Era da tanto tempo che non scriveva più una lettera: e il marchese, sicuramente, doveva ricevere di mirabili bigliettini da quelle fantastiche principesse, sue parenti. Esse dovevano scrivere su quella fine carta che pare raso, che Isolina ci si rovinava a comprarne una scatola, una carta che odora di buono, come tutte le cose di questa gente nobile e ricca. Ella, Checchina, non aveva carta, salvo quei larghi fogli da ricetta, di suo marito, che portavano per intestatura: Antonio Primicerio, medico-chirurgo, consultazioni dall’una alle tre, Via del Bufalo: — larghi fogli che putivano di acido fenico come tutte le cose che Toto toccava, come ella stessa, Checchina, che ogni tanto si fiutava le maniche del vestito, per trovare la traccia di quel cattivo odore.
— Non vi è la busta — disse Susanna, rientrando.
— E come faccio, ora?
— Pieghi in quattro un foglio grande e lo chiuda con la mollica del pane.
— No, preferisco far senza. Di’ al cameriere che ringrazî per me il marchese: ma… senti, bisognerà dargli qualche cosa a questo cameriere?
La serva fece una smorfia, come se non volesse intervenire.
— Ce l’hai una lira, Susanna? — pregò la padrona con la voce e con lo sguardo.
— Come vuole che ce l’abbia? Alla grazia dei quattrini che mi consegna, la mattina! Tutto è caro, il beccaio è fuori del timor di Dio e alla verdura non ci si può avvicinare, per non far peccato d’ira e di superbia. Mi sono rimasti pochi soldi in tasca…
— Contali, Susanna, fossero mai una lira — le tremava la voce e aveva le lagrime negli occhi.
— Appena appena otto soldi e ho da comprare il sale per la minestra e il cacio per la trippa.
— Dà questi otto soldi al cameriere, e che ringrazi il suo padrone e che lo preghi di scusarmi se non ho scritto… Va’, Susanna, al sale ci penseremo…
— Già lo sa lei, che il tabaccaio credito non ne fa.
Checchina chinò la testa: mentre di là, Susanna parlava col cameriere, la padrona arrossiva, arrossiva di scorno per quegli otto soldi così meschini, così miserabili, che quel cameriere, avvezzo alle mance principesche, avrebbe certo disprezzato. Quando udì chiudere la porta, respirò di sollievo.
— … li ha presi?
— Sfido io!
E in silenzio ricominciò a passarle il pettine nella foltezza dei capelli bruni. Checchina, fra le palpebre semichiuse, seguitava a guardare i fiori, a seguire il sottile traforo della lieve carta che li circondava.
— Dove lo vuol mettere quel mazzo?
— Qui…
— Stia attenta che la puzza dei fiori fa male al capo. Glielo avverto perchè una signora dove ero a servizio, ne prese un mal di testa, uno sturbo da morirne.
— Allora li metteremo in salotto.
— E dove li farà bagnare? Non ci sono vasi.
— In un bicchiere…
— Sono tutti troppo piccoli…
— È vero — mormorò la padrona, umiliata — sono troppo piccoli.
— Mi senta — riprese Susanna — che le do un santo consiglio. Il meglio che possa fare, è di mandare questi fiori alla Madonna Immacolata in sant’Andrea delle Fratte. Glie li dia col cuore, come dice il predicatore, e ne avrà doppio merito innanzi a quella Vergine Immacolata. Già… non si sa mai, fiori, dolci, gioielli, sono opera del diavolo e inducono in tentazione. Scansi il pericolo; mandi i fiori alla Madonna.
— Almeno aspettiamo Toto, che li veda; ne avrà piacere — disse Checchina, a voce bassa, vinta da un timore interiore.
— Sì, piacere! Se lui dice che i fiori costano troppi denari e non significano nulla e non servono a nulla, salvo i fiori di tiglio per far sudare e i fiori di camomilla per il mal di pancia!
— Allora portali tu alla Madonna, questi fiori.
Seguì con l’occhio quelle rose bianche dal seno rosato, quella mite vainiglia: poi cercò di scuotersi da quel torpore. S’infilò la giacchetta del suo brutto vestito di casa, cercò di rialzarne il merletto bianco del collo che era tutto gualcito, e andò a sedersi nella stanza da pranzo: per stanchezza, per disgusto, non ebbe la voglia neppure di compire il suo solito giro mattinale nella casa, per vedere se vi fosse polvere sui mobili, se gli angoli delle stanze fossero bene spazzati, se il focolare di mattoni lucidi, a scacchetti bianchi e neri, fosse stato lavato. Si sarebbe buttata sul letto, vestita com’era, per dormire, se la coperta di cotonina rossa e gialla, imbottita di bambagia, non le avesse dato un senso di freddo. Si mise a marcare di rosso con le iniziali A. P. e col numero progressivo, certi strofinacci nuovi, a cui aveva già fatto l’orlo. Lavorò per mezz’ora, come in sogno, cercando di vincere la sonnolenza, applicandosi a contare i fili, mentre le palpebre le battevano.
Lo strofinaccio era caduto per terra, lasciando sul vestito nero la gugliata rossa, come un filo di sangue: a Checchina le mani giacevano in grembo, inerti. Provava certi lenti brividi di freddo per la persona, con una pesantezza vincente della testa. Sui mattoni grezzi del tinello, i piedi, calzati da un vecchio paio di stivali di prunella, s’irrigidivano: trasse innanzi a sè una sedia e li appoggiò al cannello. Aveva una voglia grande di sdraiarsi in una poltrona lunga e soffice, dalla stoffa liscia liscia di seta che scricchiola dolcemente, affondando i piedi in un tappeto caldo e molle. Di queste carezzanti morbidezze egli le aveva parlato: e in quel dormiveglia un po’ penoso, stringendosi tutta nella vesticciuola di lana, ficcando le mani nella larghezza delle maniche, per aver caldo, chinando il capo sul petto, tutta raccolta, ella pensava che dovesse essere di bello, di confortante quel nido caldo, ombroso, profumato, dove si affondava nella piuma e non si udivano rumori. Le ronzava nella testa la voce di lui, così soave, così soave, mentre le parlava.
Nel dormiveglia, pensando, sognando, le pareva udire di nuovo quella voce profonda, toccante, carezzevole, che alle più dolci parole dava un’intonazione musicale: le pareva di respirare nell’aria, intorno a sè, quell’odore fresco, quasi giovanile, di violetta. — Una scossa nervosa la fece trasalire, le fece aprire gli occhi: tremava dal freddo, ora, in quella oscura stanza da pranzo, con quella umidità di novembre. Le mani bruciavano, le braccia le dolevano, in una gamba sentiva un formicolìo, come la puntura di mille spilli. Andò in camera sua, zoppicando, battendo i denti, si avvolse in uno scialle di lana, a quadrettini grigi e azzurri, che era già stato lavato quattro volte. Oh! avesse avuto una pelliccia almeno, come tante altre donne fortunate che incontrava per il Corso, tutte ridenti, chiuse ermeticamente nella rotonda nera che lascia vedere solo l’orlo del vestito; ma con Toto, non era il caso neppur di parlarne. Costavano, le meno care, quarantacinque lire, somma enorme. Uscire con la pelliccia, sarebbe stato tanto bello, tanto signorile, anzichè con quel vecchio mantello di panno nero, il cui passamano aveva perduto tutte le perline ed era diventato rosso. Allora una grande malinconia la invase: la privazione delle cose ricche ed eleganti che aiutano e fanno risplendere la bellezza feminile.
Aprì l’armadio dei vestiti e si diede ad osservarli minutamente, con una cèra afflitta: quello di estate, di lanetta a grandi scacchi gialli e verdi, era troppo chiaro, dava troppo all’occhio, la ingrossava, era troppo freddo, non ci si poteva pensare. Quello di seta nera, lo usava da quattro anni, era liso su tutte le cuciture, specie nel busto, dove le stecche di balena consumano maledettamente la stoffa; era troppo miserabile, sarebbe parsa una stracciona, non lo poteva mettere. Non le restava che il suo vestito di lana foglia morta, quello che portava la sera prima, al pranzo, quello stesso, sempre quello, quell’unico. Non aveva altro, doveva da capo infilarsi quello e fare la medesima figura della sera prima, cioè quella di una povera meschina, che il marito tiene a st...

Table of contents

  1. Titolo
  2. I.
  3. II.
  4. III.
  5. IV.
  6. V.
  7. VI.