Nei primi giorni lo stupore ingombrò talmente l'anima sua, che gli altri sentimenti ne restarono attutiti e come soffocati. Rivedendosi a Salerno, nell'antica casa dei suoi, tra i vecchi genitori e i vecchi servi, per le vie della città rimasta press'a poco la stessa, egli provò come l'impressione d'un sogno che lo riportasse d'un tratto agli anni remoti della prima gioventù, a consuetudini di vita dimenticate, ma subitamente riprese come se mai non le avesse lasciate. Roma, il giornale, la politica, la guerra, la rivoluzione, l'amore, il dolore, tutto era offuscato, quasi dimenticato nell'evocazione della prima vita vissuta tra quelle mura, nella risurrezione di memorie, di impressioni, di affetti tanto lungamente e così profondamente nascosti, che egli aveva potuto crederli finiti e dispersi. Più grato e insieme più triste, tenero e amaro, per il rimorso della lunga dimenticanza passata e la paura della morte vicina, era il sentimento dal quale si sentiva invaso dinanzi al padre e alla madre. Vecchi, erano vecchi entrambi; la madre scarna e bianca, il padre curvo e calvo, gravi e taciturni entrambi, entrambi premurosi ma come frenati da un senso di soggezione dinanzi al figlio celebre, vissuto alla metropoli. Negli atti, nelle parole, negli sguardi era evidente il loro timore che la vita della piccola città e della famiglia semplice non gli piacesse, che non gli piacesse la qualità dei cibi, i modi della gente, l'arredo della casa, l'accento del dialetto. Lo avevano accolto a braccia aperte, col sorriso negli occhi e sulle labbra, ma senza molestarlo di soverchie domande sui casi suoi, sulle sue intenzioni. Egli aveva detto che si sarebbe fermato un pezzo, ed essi ne erano rimasti più confusi che lieti. Vedendosi fatto segno alle cure più intelligenti, allo zelo più discreto, all'affetto quasi rispettoso di quei vecchi, egli si sentiva premere e stringere il cuore da un rimorso intollerabile. Era stato l'amore, l'orgoglio, lo struggimento di entrambi, e così aveva corrisposto alla loro idolatria; abbandonandoli, dimenticandoli, lasciandoli invecchiare soli e dolorosi. Le due sorelle avevano da tanto tempo lasciata la casa, che quasi vi erano divenute estranee, dedite tutte ai mariti ed ai figli; e i vecchi non avevano sorrisi se non per i nipotini: una diecina di ragazzi e bimbe quasi tutti bellissimi, ma vivaci e rumorosi tanto, che, nonostante lo studio, egli non riusciva talvolta a nascondere il proprio fastidio. I vecchi gli davano ragione, pure scusando i monelli e non sapevano come fare per incuter loro verso lo zio la soggezione che essi provavano dinanzi al figlio. A certi momenti questa era tanta, e tanto evidente, che egli sentiva il dovere di protestare e ribellarsi; pure non significava la propria indegnità, non diceva una sola parola che esprimesse il suo pentimento, come essi non ne dicevano una che significasse il loro dolore. Avevano riposto in lui tutte le loro affezioni, tutte le loro speranze; ed egli era corso dietro ad altre speranze e ad altre affezioni; ed ecco: si ritrovavano ora insieme, delusi tutti: egli dall'esistenza, essi da lui! Che dire? Tante cose gli salivano alle labbra; ma non si potevano né dire né udire senza pianto e senza strazio. Meglio tacere, meglio prender esempio da loro, che avevano pure tante cose da dirgli, e le soffocavano.
Egli le comprendeva, le intuiva da parole che sembravano indifferenti, da atteggiamenti, da silenzii più eloquenti degli stessi discorsi. Accarezzando i nipotini, lodandone la bellezza, i vecchi cercavano sulle faccette di quelle creature una rassomiglianza, guardavano lui, facevano paragoni; poi ammutolivano. Si struggevano, era evidente, d'avere una creatura sua, l'erede del nome, il continuatore delle tradizioni familiari. Quando parlavano dei matrimonii contratti dai suoi coetanei, molto tempo innanzi, tanto da essere padri di giovanetti e di adolescenti, la loro voce si spegneva, i loro sguardi lo evitavano. Se il discorso cadeva sugli affari, sui commerci, sulle industrie, sulla cultura dei campi, sulla ricchezza, lodando la pratica attività, essi biasimavano implicitamente quella che va dietro ad altre cose. Non dicevano, no, che egli aveva fatto male a non prendere in moglie una ricca fanciulla del suo paese; ma tale era il pensiero che li crucciava. Il loro pensiero era che se egli si fosse creata una famiglia, se avesse dovuto badare a una casa propria, e crescere i propri figli e lavorare per lasciarli nella maggiore agiatezza possibile, la sua vita avrebbe avuto uno scopo concreto, al suo cuore non sarebbe rimasto tempo e modo di struggersi in vane tristezze. Essi vedevano la sua tristezza crescere e giganteggiare secondo che la prima impressione del ritorno nella casa natale si attenuava, e ne restavano contristati essi medesimi, e come vieppiù intimiditi.
Il tempo scorreva per lui lento, pigro, vuoto, mortale. Passati i primi giorni, durante i quali aveva badato a sistemar le sue cose, a riconoscersi nelle memorie domestiche e cittadine, non seppe più che fare. Impossibile scrivere a Roma, rammentarsi a qualcuno di coloro che ci aveva lasciati; considerava anzi come una singolare fortuna che nessuno scrivesse a lui: troppa amarezza, troppo disgusto aveva raccolto lassù; la sola cosa che ardentemente desiderasse era poter cancellare, svellere, distruggere ogni vestigio, in sé ed intorno a sé, della sua vita romana. Ma l'impresa era disperata. Quand'anche i parenti e gli estranei non gli avessero chiesto notizie degli ultimi avvenimenti, egli udiva ancora il mugghio terribile della moltitudine sollevata, il crepitio sinistro delle fucilate, gli urli e i gemiti dei morenti; e mescolato e confuso col ricordo della pubblica sciagura stava quello del suo proprio dolore. Uno solo di quei lutti lo avrebbe fiaccato; uniti, si aggravavano a vicenda e gli rendevano la vita intollerabile. A certi momenti, era come se l'aria gli mancasse, come se la gola gli si serrasse. Frugando tra i vecchi libri e le vecchie carte, ritrovando i volumi e i quaderni sui quali aveva studiato la storia del suo paese, ripensando ai fremiti d'entusiasmo che gli erano passati per tutte le fibre all'idea della patria grande e gloriosa, il fiele dello scherno gli saliva alle labbra. Un'orda di barbari e un pugno di mulatti ne avevano avuto ragione! Ma il destino era meritato, interamente. Si espandono, conquistano, signoreggiano il mondo i popoli operosi e forti, concordi, non i ciarloni, i vili, i nemici di sé stessi. Ora i partiti erano intenti a lavarsi le mani e ad accusarsi reciprocamente: gli imperialisti rigettavano la colpa delle disgrazie sui liberali, che avevano reso impopolari le imprese coloniali e impedito di largheggiare nei mezzi necessarii a compirle; i liberali addebitavano la rovina all'improntitudine, all'ignoranza, alla sciocchezza degli imperialisti. I repubblicani che chiamavano responsabile la Corte, i socialisti il capitale, i capitalisti l'anarchia, gli anarchici la società, gli umanitarii il militarismo, i militari l'inframmettenza borghese, i borghesi l'incapacità militare; e nessuno aveva il coraggio di confessare la sua parte di torto e ciascuno pareva godesse di una sventura che serviva a denigrare l'avversario.
Era bastato che Francalanza si dimettesse perché la sommossa si chetasse come d'incanto: il danno e la vergogna della nazione si risolvevano con una crisi ministeriale, come la discussione d'un bilancio. Il nuovo Gabinetto doveva mirare alla pace ed all'onore; ma chi voleva subito risarcire l'onore e chi voleva subito stipulare la pace. I conservatori, i militari, gli espansionisti pretendevano la rivincita, che i socialisti, i repubblicani, i democratici vietavano come sicura occasione di nuovi maggiori disastri; i primi erano invece sicuri di ottenerla con niente, e accusavano gli avversarii di imporre la viltà per il discredito che ne sarebbe poi venuto al regime. Il nuovo Governo si barcamenava per il momento tra le due correnti, per non esser subito travolto dall'una decidendosi a seguir l'altra. Alcuni dicevano che si perdeva un tempo prezioso, che volendo riparare la disfatta bisognava subito mandare un'altra squadra al Tropico, mentre quella Repubblica era tutta al suo trionfo, prima che l'America del Nord mettesse nella bilancia il peso della sua autorità; ma a costoro non si dava ascolto, o si rispondeva che una nuova squadra non poteva improvvisarsi, che quella perduta era quanto c'era di meglio, che l'intervento degli Stati Uniti era sicuro, che una guerra con quella nazione sarebbe stata fatale. I giornali amici del nuovo Gabinetto annunziavano che questo aveva ordinato il richiamo di tre classi di leva, l'armamento di tutte le navi disarmate, il concentramento di tutte le forze disponibili alla Maddalena, grandi approvvigionamenti di carbone e di munizioni; ma prima di dare queste notizie avevano messo le mani innanzi: il governo compiva uno stretto dovere di preveggenza, per non essere sorpreso dagli eventi, per ottenere le migliori condizioni di pace; nessun proposito in lui di continuare la guerra, di esporre il Paese a nuovi sbaragli. E i giornali amici del Ministero caduto, i sostenitori degli imprevidenti, degli incauti, dei temerarii, che avevano preparato la catastrofe di Colon, condannavano quei preparativi come inutili se era stabilito di non più combattere, come insufficienti se bisognava imporsi.
Gli ardimentosi volevano l'armamento del naviglio mercantile, il richiamo delle leve di terra, l'invio di due corpi d'esercito alla Tropicale; una spesa di cento milioni; i prudenti rispondevano che il naviglio mercantile consisteva in mezza dozzina di piroscafi lenti e malandati, che non bastavano due corpi d'esercito, che per vincere la Tropicale non ne bastavano quattro, che forse duecentomila uomini non erano troppi, e che la spesa sarebbe salita a un miliardo, a due miliardi. Esagerazione, rispondevano i battaglieri, e del resto trattandosi di ristabilire il prestigio della patria, non bisognava contare; se occorrevano mezzo milione di soldati, tre miliardi di spesa, tre miliardi si dovevano spendere per mandare mezzo milione d'uomini. Federico restava con quei fogli in mano, immobile, senza sguardo, come istupidito. Alcuni, a testimonianza della fiducia che riponevano nella sua opinione, gli domandavano che cosa credeva che bisognasse fare; egli rispondeva loro: "Non so, non so nulla"; e dentro di sé quella parola riecheggiava, sola, piena d'un altro senso. Nulla, non c'era da far nulla, non si poteva aspettare o sperar nulla, non si poteva credere in nulla. Di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gl'idoli che egli aveva venerati avevano rivelato le loro magagne, in tutti aveva trovato presunzione, ignoranza, vanità, intransigenza, difetti e vizii insanabili. Egli rideva della sua antica ricerca d'un uomo capace di salvare la nazione: nessuno poteva nulla salvare. L'Italia, e come ogni altro paese del mondo, e il mondo intero, erano stati salvati e perduti, e risalvati e riperduti, per fatalità inevitabili, secondo leggi ignote. Né l'apparente salvazione era realmente uno stato prospero e felice, né quella che si giudicava rovina era veramente tale.
Perché chiamare rovina la sconfitta patita ora dagli Italiani, o la condizione nella quale si trovavano cento anni prima, al tempo delle dominazioni straniere e delle tirannie paesane? Che cosa avrebbero dovuto fare essi, allora ed ora? Sollevarsi tutti, dal primo all'ultimo; farsi ammazzare tutti per la rivincita e per la libertà? Non lo facevano né l'avevano fatto: segno che il male non era tanto grande quanto alcuni, gli zelanti, i fanatici, lo giudicavano. La maggior parte delle nazioni e dell'intero genere umano non pensavano ad altro fuorché alla fame da saziare, nel modo più agevole e pronto. Quella stessa cieca potenza che aveva messo l'istinto della vita in ogni uomo, aveva anche dato ad alcuni, a pochissimi, l'appetito di qualche idea; ma l'efficacia delle idee sulle cose, che all'anima ingenua era parsa grande, ora pareva meno che nulla all'anima disingannata. Iniziando la sua carriera, egli aveva creduto di dedicare tutte le sue forze al bene pubblico, d'esercitare quotidianamente un apostolato. Quell'opera, che egli aveva creduto provvida e nobile, era stata giudicata iniqua ed impura dai suoi avversarii. Perché credere che la ragione e la verità erano state dalla sua parte, e non da quella degli altri? Nessuna missione egli aveva esercitato: s'era dato al giornalismo dopo essersi accorto che l'arte non era pane per i suoi denti; e al giornalismo ed all'arte s'era dato per poter vivere fuor del paese natale, libero dal giogo dei parenti, sulla via della gloria e della ricchezza. Questo era stato il suo vero ed unico scopo, travestito e decorato col nome di missione sociale!
E che valeva tutto ciò che egli aveva detto e scritto, in tanti anni? Che valeva tutto ciò che avevano detto e scritto gli altri al pari di lui, i più valenti, i sommi?
Le parole umane se ne andavano col vento, gli stessi scritti si cancellavano e si disperdevano; quelli che parevano immortali duravano un poco di più; ma l'oblio li aspettava del pari, dopo secoli invece che anni; ma anni e secoli e millenni non erano altro che momenti nell'eternità.
Un giorno, per una via di campagna, egli vide una lumaca avanzare lentamente, rigando di bava il cammino. Tutti i suoi scritti diffusi sui tanti fogli gli parvero allora come una bava che egli avesse lasciato dietro di sé. Se la lumaca avesse avuto coscienza, avrebbe presunto di letificare e beneficare il mondo con la qualità della sua bava; l'esperienza, reciprocamente, insegnava all'uomo che tutta la sua attività era altrettanto fruttuosa quanto quella dell'animale. Vide anche le formiche e le api intente ad un'opera più intelligente, ma vana del pari. In preda alle passioni della vita, gli uomini non potevano giudicare la inutilità dei loro atti; ma chi, come lui, era uscito fuori alla riva del pelago dopo esservi stato immerso sino ai capelli, riconosceva nel consorzio umano un formicaio più grande, un alveare più complicato, dove tutto si riduceva, come nei piccoli e semplici, a nascere, a crescere, a procreare ed a morire. Questa capacità di arrivare a comprendere la propria vanezza era l'unico privilegio dell'uomo sui bruti. Lustro ed inganno tutto il resto; le trovate dell'ingegno, le indagini del pensiero, le affermazioni della fede.
Dalle alture di San Giovanni si dominavano il mare, le rive, i campi, le colline, le città, i villaggi, i casolari, tutto un pezzo di mondo. Mentre i piroscafi solcavano il golfo sporcando il cielo di fumo, i treni strisciavano tra le valli e i monti, entravano nei trafori ruttando anch'essi, fischiando, rumoreggiando.
Due glorie della scienza, due trionfi della civiltà! Che importava arrivare un poco più presto o un poco più tardi? In che cosa lo stato umano s'era avvantaggiato dell'invenzione di quelle macchine? Quali sofferenze avevano sopportato e sopportavano i popoli che le avevano ignorate ed ignoravano ancora?
Ai vantaggi corrispondevano i rischi; né quelle macchine andavano sole: c'erano uomini nelle loro viscere, dinanzi alle fornaci ardenti ed alle bollenti caldaie, al posto della pena e del pericolo. La via era segnata dai pali del telegrafo: appoggiandosi a qualcuno d'essi, egli udiva una musica eolia. Anche quell'altra invenzione tanto decantata non procurava agli uomini nessun reale benefizio: senza l'elettricità, essi avevano egualmente comunicato fra loro. La scienza non aveva nulla creato: a furia di penose ricerche, a costo di errori madornali, aiutata principalmente dal caso, non aveva fatto altro che adattare in pochi modi qualcuna delle cose esistenti. In miriadi modi si potevano adattare le miriadi delle cose. Ma le condizioni della vita umana restavano inalterate, un ritardo di mezz'ora in un treno diretto faceva smaniare i viaggiatori moderni forse più che non smaniassero per la perdita di un'intera giornata gli antichi. Il progresso era tutto apparenza, illusione e presunzione. Tolta agli uomini la presunzione, che cosa restava loro? Che sapevano essi del loro destino, del mondo, della prima origine delle cause, dell'ultima fine di tutti gli effetti? Nulla, nulla, nulla. E invece di essere modesti, umili e rassegnati, essi erano arroganti, boriosi, inframettenti: gridavano, urlavano, battagliavano, pretendevano la signoria dell'universo, e si piegavano soltanto dinanzi a un Dio fatto a loro immagine e somiglianza.
Le campane delle chiesuole e delle cappelle squillavano in lontananza, chiamavano i fedeli alla predica ed alla preghiera. Sì, gli uomini pregavano Dio; ma ad ogni preghiera rispondeva una bestemmia. Lo invocavano nelle piccole occorrenze della loro piccola vita, perché Egli continuamente mutasse le leggi naturali, e sconvolgesse l'ordine degli avvenimenti; e lo benedivano quando l'evento era propizio e lo maledivano quando era avverso; alcuni lo benedivano sempre, a qualunque costo, credendo che Egli si divertisse a straziarli in questa vita, per poi compensarli in un'altra che nessuno sapeva come era fatta. Costoro erano giudicati folli da coloro che, badando soltanto ai piaceri della vita terrestre, erano bollati come bruti. Ma gli uni e gli altri si ribellavano al giudizio, e nessun giudizio di nessun giudice umano aveva mai credito e rispetto assoluti. Sì, alcuni, quelli che parevano i migliori, predicavano quelle che parevano virtù, ma tutte le prediche non avevano mutato la natura degli uomini, e i vizii erano necessarii all'esistenza delle virtù, che senza quelli non avrebbero avuto più significato. Non c'erano dunque né virtù né vizii, né colpe né meriti: nulla, nulla, nulla.
Dall'alto, nel silenzio profondo, il mondo gli pareva un semplice aspetto, una scena dietro alla quale non c'era nulla. Come tutte le cose tacevano, non sparivano anche al suo sguardo, non si dissolvevano nella chiarità del cielo? E contemplandolo con gli occhi intenti ed ardenti, tutto si cancellava infatti, tutto si disperdeva; ma quando egli credeva di vedere il vuoto ed il nulla restava la sua veggente coscienza. Non si poteva affermare veramente il nulla se non quando anche la coscienza spariva; ma, sparita la coscienza, chi o che cosa poteva pronunziare l'affermazione? La coscienza umana esisteva, era sempre presente ed attiva; e nella coscienza dell'uomo non si rispecchiava già il nulla, ma il tutto: le forme e le essenze, le cose e le idee, i sentimenti ed i fatti, l'universo materiale e morale, il mondo fisico e il metafisico!
Allora, che cos'era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell'esistenza, dalle più semplici alle più complicate, erano forme maligne. Ogni atomo della inerte materia era il prodotto d'una irritazione, d'una infezione, d'un processo morboso. La terra, con i suoi piani ed i suoi monti, gli appariva come un enorme neoplasma, una mostruosa ipertrofia, una terribile sclerosi; le acque, i rivi, il mare, come un flusso, un catarro, un'iperemia; il fuoco come una febbre. L'alterazione si aggravava con la vita organica. In mezzo agli atomi indolenti, nascevano e crescevano le cellule: da questa superfetazione cominciava la sensibilità, cioè i pungoli, le crispazioni, i brividi, i fremiti, le trafitture, i dolori, gli spasimi. E l'unico fine del processo morboso non poteva essere altro, logicamente, che la necrosi.
La vita finiva con la morte perché era tutta un morbo dalle sue prime e più semplici fasi; e perché si manifestava e diffondeva nel corso d'un altro morbo, in mezzo al tumore del mondo. Gli esseri viventi, parassiti e vibrioni di questo tumore, si nutrivano delle sue morte fibre, o si divoravano tra loro; i più perniciosi, i più devastatori erano gli uomini.
Dall'alto, la città distesa sotto la costa, lungo la riva, bianchiccia in mezzo al bruno delle terre e al grigio del golfo, dava immagini d'un cancro piantato in mezzo ai tessuti ed ai vasi. Come un cancro, essa tutto rodeva intorno a sé, i prodotti dei campi e del mare, le altre forme della vita, la materia inerte. Stendeva i suoi tentacoli, mortificava una seconda volta le cose morte; e un simile processo, con maggiore o minore intensità, si ripeteva dove erano uomini; dalle epulidi dei villaggi ai terribili carcinomi delle metropoli, la degenerazione cancerosa si diffondeva da per tutto.
Federico pensava che, quella sua concezione, se egli l'avesse manifestata, avrebbe fatto spavento. Ma il più spaventevole non era appunto che un cervello umano l'avesse potuto elaborare? Nel cervello, nell'anima umana si assommava tutto il male dell'universo, e diveniva cosciente. Altri accoglievano una concezione che pareva contraria a quella del Bene: ma essa non era né contraria alla prima, né fondata come la prima. Il bene è un intervallo del male, come il piacere è una tregua del dolore. Esiste il dolore, il bisogno, la fame, la s...
