Uno, nessuno, e centomila
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Uno, nessuno, e centomila

About this book

Questo romanzo, l'ultimo di Pirandello, riesce a sintetizzare il pensiero dell'autore nel modo piu completo. L'autore stesso lo definisce come il romanzo "piu amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita". Il protagonista Vitangelo Moscarda, infatti, puo essere considerato come uno dei personaggi piu complessi del mondo pirandelliano, e sicuramente quello con maggior autoconsapevolezza. Dal punto di vista formale, stilistico, si puo notare la forte inclinazione al monologo del soggetto, che molto spesso si rivolge al lettore ponendogli interrogativi e problemi in modo da coinvolgerlo direttamente nella vicenda, il cui significato e senza dubbio di portata universale. A dispetto della sua lunga gestazione, l'opera non e né frammentaria né disorganizzata; al contrario, puo essere considerata come l'apice della carriera dell'autore e della sua tensione narrativa.

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Information

Libro quarto

I. Com'erano per me Marco di Dio e sua moglie Diamante.

Dico «erano», ma forse sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non ho piĂș mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov’essi si fingono d’essere. So di certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:
– Tu sei Marco di Dio?
E lui mi risponderebbe:
– Sí. Marco di Dio. –
– E cammini per questa via?
– Sí. Per questa via.
– E codesta ù tua moglie Diamante?
– Sí. Mia moglie Diamante.
– E questa via si chiama cosí e cosí?
– Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse, tanti lampioni, ecc. ecc.
Come in una grammatica d’Orlendorf.
Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtĂ  di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.
L’eternitĂ  s’ù sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l’altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare piĂș lontano della piĂș lontana stella del cielo.
Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due sciagurati, a cui perĂČ la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall’altro poi persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non giĂ  per guadagnare quel poco ogni giorno che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall’oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati.
Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli dire cosĂ­. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perchĂ© non m’era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolaritĂ  delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si potesse diventare milionari dall’oggi al domani. Ma se questo, ch’ù stato giĂ  dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolaritĂ  delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolaritĂ  per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che realmente si possa da un giorno all’altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata regolaritĂ  delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o verosimili per chi viva fuori d’ogni regola, come appunto quell’uomo lĂŹ.
Si credeva inventore.
E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, e lĂ : diventa milionario!
Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d’uno dei nostri piĂș reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d’arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo.
Aveva potuto l’artista tradurre senza danno nella creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne lode.
Il delitto era nella creta.
Non sospettĂČ il maestro che in quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov’era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piĂș lodevole, mentre, oppresso dall’afa d’un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo.
Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilitĂ  che il finto dava a vedere nella creta; gridĂČ ajuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d’improvviso in quel momento d’afa.
Ora, siamo giusti: bestia, sĂ­; schifosissima, in quell’atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piĂș forse Marco di Dio anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarĂČ d’aver sempre conosciuto nel suo sbozzatore?
So che offendo con questa domanda la vostra moralitĂ . Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio potĂ© sorgere una tale tentazione Ăš segno evidente ch’egli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. Potrei farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piĂș turpi) sono pur piene le vite dei santi. I santi le attribuivano alle demonia e con l’aiuto di Dio, potevano vincerle. CosĂ­ anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all’improvviso il ladro o l’assassino. L’oppressione dell’afa d’un pomeriggio estivo non Ăš mai riuscita a liquefare la crosta della vostra abituale probitĂ  nĂ© ad accendere in voi momentaneamente la bestia originaria. Potete condannare.
Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione?
– VolgaritĂ ! – esclamate. – Non era piĂș, allora, Giulio Cesare. Lo ammiriamo lĂ  dove Giulio Cesare era veramente lui.
Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui soltanto lĂ  dove voi l’ammirate, quando non era piĂș lĂ , dov’era? chi era? Nessuno? uno qualunque? e chi?
BisognerĂ  domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a Nicomede re di Bitinia.
Batti e batti, alla fine v’ù entrato in mente anche questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sĂ­, un Giulio Cesare qual egli, in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore incomparabilmente piĂș grande degli altri; non perĂČ quanto a realtĂ , vi prego di credere perchĂ© non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di Nicomede re di Bitinia.
Il guajo Ăš questo, sempre, signori: che dovevano tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come potĂ©, innaturalmente lo fu, e impudicissima e anche piĂș volte recidiva.
Il satiro in quel povero Marco di Dio scappĂČ fuori, a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in quell’atto d’un momento, fu condannato per sempre. Non trovĂČ nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piĂș bislacchi disegni per sollevarsi dall’ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come nĂ© da che parte.
Diceva da una decina d’anni che sarebbe partito per l’Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l’Inghilterra la settimana ventura. E studiava l’inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicchĂ© quelle due pagine dell’apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturitĂ :
– Is Jane a happy child? –
E la moglie rispondeva pronta e seria:
– Yes, Jane is a happy child. –
PerchĂ© anche la moglie la settimana ventura sarebbe partita per l’Inghilterra con lui.
Era uno sgomento, e insieme una pietĂ , questo spettacolo d’una donna, com’egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall’oggi al domani con un’invenzione, per esempio, di «cessi inodori per paesi senz’acqua nelle case». Ridete? La loro serietĂ  era cosĂ­ truce per questo; dico, perchĂ© tutti ne ridevano. Era anzi feroce. E tanto piĂș feroce diventava quanto piĂș crescevano, attorno ad essa, le risa.
E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anzichĂ© compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d’odio. PerchĂ© la derisione degli altri era ormai l’aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta la derisione, rischiavano di soffocare.
Mi spiego perciĂČ come per loro il peggior nemico fosse stato mio padre.
Non si permetteva infatti solamente con me mio padre quel lusso di bontĂ  di cui ho parlato piĂș sĂș. Si compiaceva anche d’agevolare, con munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro infelicitĂ  di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la ricchezza!
– Quanto? – domandava mio padre.
Oh, poco. PerchĂ© era sempre poco ciĂČ che bastava a costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.
– Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco

– Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso, proprio

– Quanto?
– Oh, poco!
E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto, basta. E quelli allora, com’ù facile intendere, non gli restavano grati del non aver voluto godere beffardamente fin all’ultimo della loro totale disillusione e del potere attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E nessuno con piĂș accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.
Il piĂș accanito di tutti era stato questo Marco di Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio feroce. Non senza ragione, perchĂ© anch’io, quasi a mia insaputa, seguitavo a beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietĂ , di cui nĂ© Firbo nĂ© Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.

II. Ma fu totale.

Totale, perchĂ© bastĂČ muovere in me appena appena, cosĂ­ per giuoco, la volontĂ  di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perchĂ© s’alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtĂ .
E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest’orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d’aprile, e lucida e precisa come uno specchio.
PerchĂ©, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pĂłrre graziosamente la mia volontĂ  fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell’ombra di me che viveva realtĂ  in un altro; cosĂ­ solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessitĂ  non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sĂ© nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell’ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sĂ­, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare cosĂ­, perchĂ©, non potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioĂš, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtĂ , lo annientasse cosĂ­ agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?
Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d’un simile atto non poteva esser quella che m’immaginavo: di presentarmi cioù a domandare a tutti, dopo:
– Vedete adesso, signori, che non ù vero niente che io sia quell’usurajo che voi volete vedere in me?
Ma quest’altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti:
– O oh! sapete? l’usurajo Moscarda ù impazzito!
PerchĂ© l’usurajo Moscarda poteva sĂ­ impazzire, ma non si poteva distruggere cosĂ­ d’un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un’ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l’usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papĂ , il fondatore della banca, con le sopracciglia, sĂ­, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido GengĂš di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sĂ© tutti gli altri Moscarda ch’io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo GengĂš di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato.
Rischiai, cioĂš, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastĂČ. Dovevamo anche rischiar la vita, perchĂ© io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.
Ma non anticipiamo.

III. Atto notarile.

Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. PerchĂ© (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dí
 dell’anno
 , regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontĂ  della nazione re d’Italia nella nobile cittĂ  di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cav. Elpidio, d’anni 52 o 53.
– Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?
Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa lĂ , che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d’animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa piĂș naturale del mondo entrare nello studio d’un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa?
Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sĂ­ o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piĂș consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della cosĂ­ detta realtĂ  delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v’accade d’arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all’amico che vi sta accanto:
– Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?
E quello no, non lo vede, perchĂ© vede un’altra cosa ...

Table of contents

  1. Titolo
  2. Libro primo
  3. Libro secondo
  4. Libro terzo
  5. Libro quarto
  6. Libro quinto
  7. Libro sesto
  8. Libro settimo
  9. Libro ottavo
  10. Note a pie' di pagina