Il Piacere
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Il piacere e il suo protagonista Andrea Sperelli introducono nella cultura italiana di fine Ottocento la tendenza decadente e l'estetismo.

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Information

Libro I

I

L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville patrizie passavano d'innanzi agli sportelli, biancastre, quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.
Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri, soli; ma d'improvviso passava la carrozza nera d'un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandra di bestiame.
A mezzo chilometro dal ponte ella disse:
- Scendiamo.
Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un'illusion visuale che l'ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.
Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:
- Io parto stasera. Questa è l'ultima volta…
Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza. Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne del polso:
- Non più! Non più!
Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d'improvviso entrar nell'anima come l'orgoglio d'una vita più libera, una sovrabbondanza di forze.
- Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre…
Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.
Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell'illuminazione del sole. Il fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s'incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.
Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de' primi giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le rose.
- Ti ricordi? Ti ricordi?
- Sì.
- E quella sera de' fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori… Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?
- Sì, sì.
- Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: «Già ella non mi ama più!» Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n'era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà…
- Segui, segui! - disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti.
- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora… Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie… Ti ricordi?
- Sì. Segui!
Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte alla luce, andavasi chinando all'amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.
Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell'essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.
Elena, sollevandosi, disse:
- Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?
Si diressero allora verso l'osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell'occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
Come i due entrarono, nella gente dell'osteria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d'ardor bestiale. E l'ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente.
Mentre Elena beveva l'acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava il bambino, lamentandosi.
- Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!
Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l'interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano.
- Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può più inghiottire; non può più dormire…
La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto d'impazienza.
- Venite, venite! - disse Andrea ad Elena, prendendole il braccio, dopo aver lasciato sul tavolo una moneta. E la trasse fuori.
Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell'Aniene ora andavasi accendendo ai fuochi dell'occaso. Una linea scintillante attraversava l'arco; e in lontananza le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d'olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l'Urbe il cielo cresceva in rossore.
- Povera creatura! - mormorò Elena con suono profondo di misericordia, stringendosi al braccio d'Andrea.
Il vento imperversava. Una torma di cornacchie passò nell'aria accesa, in alto, schiamazzando.
Allora, d'improvviso, una specie di esaltazione sentimentale prese l'anima di quei due, in conspetto della solitudine. Pareva che qualche cosa di tragico e di eroico entrasse nella loro passione. I culmini del sentimento fiammeggiarono sotto l'influenza del tramonto tumultuoso. Elena si arrestò.
- Non posso più - ella disse, ansando.
La carrozza era ancóra lontana, immobile, nel punto dove essi l'avevano lasciata.
- Ancóra un poco, Elena! Ancóra un poco! Vuoi ch'io ti porti?
Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, si abbandonò alle parole.
«Perché ella voleva partire? Perché ella voleva spezzare l'incanto? i loro destini ormai non erano legati per sempre? Egli aveva bisogno di lei per vivere, degli occhi, della voce, del pensiero di lei… Egli era tutto penetrato da quell'amore; aveva tutto il sangue alterato come da un veleno, senza rimedio. Perché ella voleva fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei, l'avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, non poteva essere. Mai! Mai!»
Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono.
- Fermatevi a Porta Pia - gridò la signora, salendo nella carrozza insieme all'amante.
E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare.
- Elena! Elena!
Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli.
Elena, piegandosi su la spalla dell'amante con una immensa dolcezza di sommessione, disse:
- Addio, amore! Addio! Addio!
Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello.
Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime. Aveva la sensazione confusa e ottusa d'una vertigine; e un freddo sottile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli.
- Addio - ripeté Elena.
Sotto l'arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse.
Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità, di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l'oggetto immediato da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva riacquistato quasi d'un tratto la tranquillità, la conscienza della vita comune, l'equilibrio. Era salito su una vettura publica per tornare a casa; là s'era messo l'abito nero, come al solito, non dimenticando alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell'esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d'oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.
Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore.
Ma il momento si approssimava. L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: «Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?»
L'ansia in lui era verace e l'amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de' sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne' più gravi commovimenti dell'animo.
Cercò d'imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezz...

Table of contents

  1. Titolo
  2. Premessa
  3. Libro I
  4. Libro II
  5. Libro III
  6. Libro IV