Il trionfo della morte
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Il trionfo della morte

About this book

Esempio di romanzo psicologico, nel quale la trama e l'intreccio cedono il posto all'introspezione della coscienza del protagonista, Giorgio Aurispa, nella cui mente si svolge l'intera vicenda romanzesca. Il romanzo, che apre con un passo dell'Al di la del bene e del male di Friedrich Nietzsche nell'esergo, sviluppa il tema del superomismo cosi come interpretato dall'allora trentunenne d'Annunzio.

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Information

Libro primo

Il passato

I.

Ippolita, quando vide contro il parapetto un gruppo di uomini chini a guardare nella strada sottoposta, esclamò soffermandosi:
- Che sarà accaduto?
Ella ebbe un piccolo moto di timore; e appoggiò involontariamente la mano sul braccio di Giorgio come per trattenerlo.
Giorgio disse, osservando i gesti di quegli uomini:
- Si sarà gettato giù qualcuno.
Soggiunse:
- Vuoi che torniamo indietro?
Ella esitò un poco, tra la curiosità e il raccapriccio. Rispose:
- No; seguitiamo.
Seguitarono pel viale estremo, lungo il parapetto. Involontariamente Ippolita accelerava il suo passo verso il gruppo dei curiosi.
In quel pomeriggio di marzo il Pincio era quasi deserto. Nell'aria grigia e sorda morivano i romori rari.
- È così - disse Giorgio. - Qualcuno s'è ucciso.
Ambedue si soffermarono, in vicinanza del gruppo. Tutti quegli uomini guardavano con occhi intentissimi il lastrico sottostante. Erano plebei oziosi. I loro volti diversi non esprimevano alcuna pietà e alcuna tristezza; l'immobilità dello sguardo metteva ne' loro occhi una specie di stupefazione bestiale.
Un giovinastro sopraggiunse, avido di vedere.
- Non c'è più - gli fece un tale, prima che colui si sporgesse; ed aveva nella voce un indefinibile accento tra di scherno e di giubilo, come rallegrandosi che lo spettacolo non potesse più da altri esser goduto. - Non c'è più. L'hanno già portato via.
- Dove?
- A Santa Maria del Popolo.
- Morto?
- Morto.
Un altro, un uomo scarno e verdiccio che portava intorno al collo una larga sciarpa di lana, si sporse molto; e, togliendosi di bocca la pipa, domandò ad alta voce:
- Che c'è rimasto?
La sua bocca era tòrta da un lato, rappresa come per una bruciatura, convulsa come se assaporasse una saliva amara di continuo rigurgitante; e la sua voce era profonda, come se uscisse da luoghi cavernosi.
- Che c'è rimasto?
Un carrettiere, giù nella strada, si chinava a piè della muraglia. I riguardanti tacquero, immobili, aspettando la risposta. Scorgevano soltanto, su le pietre, una chiazza nerastra.
- Poco sangue - rispose il carrettiere, ancóra curvo, cercando qualche cosa nella chiazza con la punta di una canna.
- E poi? - chiese di nuovo l'uomo della pipa. Il carrettiere si sollevò, tenendo in cima della canna qualche cosa che quei di sopra non vedevano.
- Capelli.
- Di che colore?
- Biondi.
Le voci, nel precipizio chiuso fra le due alte muraglie, avevano un rimbombo singolare.
- Giorgio, andiamo! - supplicò Ippolita, turbata, un poco pallida, scotendo l'amante che si sporgeva dal parapetto, in vicinanza del gruppo, attratto dall'atrocità della scena.
Oltrepassarono il luogo tragico, in silenzio. In ambedue persisteva il pensiero di quella morte, dolorosamente; e la loro tristezza era visibile.
Egli disse:
- Beati i morti perché non dubitano più.
Ed ella:
- È vero.
Uno scoramento infinito rendeva stanche le loro parole. Ella soggiunse, abbassando il capo, con un misto di amarezza e di compianto:
- Povero amore!
- Quale amore? - le chiese Giorgio, assorto.
- Il nostro.
- Tu lo senti dunque finire?
- Non in me.
- In me forse?
Una irritazione mal repressa inaspriva la voce di lui. Egli ripetè, guardandola:
- In me? Rispondi.
Ella tacque, riabbassando il capo.
- Non rispondi? Ah, tu sai bene che non diresti il vero.
Poi, dopo un intervallo in cui ambedue provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima, egli seguitò:
- Incomincia così l'agonia. Tu non te ne accorgi ancóra; ma io, da che tu sei tornata, ti guardo continuamente ed ogni giorno sorprendo in te un segno nuovo…
- Che segno?
- Un cattivo segno, Ippolita… Orribile cosa amare ed avere questa lucidità in tutti gli istanti eguale!
La donna scosse il capo, con un atto quasi violento; e si oscurò. Ancóra una volta, come tante altre volte, i due amanti divennero l'uno contro l'altra ostili. Ciascuno dei due si sentiva ferire dall'ingiustizia del sospetto e si ribellava, interiormente, con una collera sorda; ch'erompeva talora in parole crude e irreparabili, in accuse gravi, in recriminazioni enormi. Una invincibile smania li assaliva, di torturarsi a vicenda, di pungersi, di martoriarsi il cuore.
Ippolita si oscurò e si chiuse, corrugando i sopraccigli, serrando la bocca, mentre Giorgio la guardava con un sorriso irritante.
- Incomincia così - egli riprese persistendo in quel sorriso acerbo, in quello sguardo acuto. - Tu provi in fondo all'anima una inquietudine, una specie d'impazienza vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicina, tu senti che qualche cosa in fondo all'anima ti si leva contro di me, quasi una ripugnanza istintiva, che tu non sai soffocare. E divieni taciturna; e devi fare uno sforzo immane per dirmi una parola; e intendi male quel ch'io ti dico; e involontariamente, anche in una risposta insignificante, la tua voce è dura.
Ella non l'interruppe neppur con un gesto. Ferito da quel silenzio egli seguitò; e lo spingeva non soltanto la smania acre di tormentare la sua compagna, ma anche un certo gusto disinteressato delle investigazioni reso più acuto e più letterario dalla cultura. Egli, infatti, cercava di mettere nelle sue parole la sicurezza e l'esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli analisti; ma come nei soliloquii la sua considerazione mentale formulata esagerava ed alterava lo stato interno a cui si riferiva, così nei colloquii spesso la preoccupazione della perspicacia oscurava la sincerità del suo sentimento e lo traeva in errore su i moti intimi altrui ch'egli voleva scoprire. 11 suo cervello, ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva tutto, fuori e dentro. Egli dava al suo spirito attitudini arteficiose e irreparabili.
Seguitò:
- Bada; io non ti rimprovero. Tu non hai colpa. Ciascuna anima umana contiene in sé una data quantità di forza sensitiva da spendere in un amore. Necessariamente quella quantità si consuma nel tempo come ogni altra cosa. Quando è esaurita, nessuno sforzo vale ad impedire che l'amore finisca. E tu mi ami già da molto tempo; da quasi due anni! Il due di aprile cade il secondo anniversario. Ci hai pensato?
Ella scosse la testa. Egli ripetè, come a sé medesimo:
- Due anni!
Camminarono verso un sedile, e sedettero. Nel piegarsi, Ippolita aveva un'aria di grave stanchezza, quasi di abbattimento. Una pesante carrozza nera passò nel viale, facendo stridere la ghiaia; dalla via Flaminia giunse fioco lo squillo d'una cornetta; il silenzio rioccupò i dintorni arborati; gocce di pioggia, rare, cadevano.
- Sarà funebre questo secondo anniversario - riprese a dire Giorgio, implacabile contro la taciturna. - Eppure, bisognerà che noi lo celebriamo. Io ho il gusto delle cose amare.
Ippolita mostrò il suo dolore in un sorriso impreveduto. Poi disse, con impreveduta dolcezza:
- Perché tutte queste cattive parole?
E guardò Giorgio negli occhi, a lungo e a dentro. Ambedue, di nuovo, provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima. Ella sapeva bene da quale orribile male fosse compreso il suo amante; ella sapeva bene l'oscura causa di quell'acredine. Soggiunse, perché egli parlasse, perché egli esalasse la sua pena:
- Che hai?
Egli era rimasto come confuso da quell'accento di bontà, che non aspettava. Sentendosi da quell'accento indovinare e commiserare, egli sentì in sé crescere la pietà di sé medesimo; e una profonda commozione gli alterò tutto l'essere.
- Che hai? - ripeté Ippolita toccandogli una mano, quasi per aumentare sensualmente il potere della sua dolcezza.
- Che ho? - egli rispose. - Amo.
Le sue parole avevano perduto ogni punta. Mostrando la sua piaga immedicabile, egli s'impietosiva su sé medesimo. I vaghi rancori, che serpeggiavano in fondo al suo spirito contro la donna, parvero dileguarsi. Egli riconosceva ingiusto ogni risentimento contro di lei, riconoscendo un ordine superiore di necessità fatali. La sua miseria non proveniva da alcuna creatura umana, ma dall'essenza stessa della vita. Egli non doveva dolersi dell'amata ma dell'amore. L'amore, a cui per natura tutto il suo essere tendeva con invincibile veemenza, l'amore era la più grande fra le tristezze terrene. Ed egli era legato a quella suprema tristezza, forse fino alla morte.
Come egli taceva sopra pensiero, Ippolita gli domandò:
- Tu credi dunque, Giorgio, che io non ti ami?
- Ebbene, sì, guarda: io credo che tu mi ami - egli rispose. - Ma puoi tu provarmi che domani, che fra un mese, che fra un anno, che sempre sarai egualmente felice d'esser mia? Puoi tu provarmi che ora, in questo attimo, sei tutta mia? Che cosa posseggo io di te?
- Ogni cosa.
- Nulla, o quasi nulla. Io non posseggo quel ch'io vorrei possedere. Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a penetrarlo. Delle tue sensazioni, dei tuoi sentimenti, dei tuoi pensieri io non conosco se non una minima parte. La parola è un segno imperfetto. L'anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi l'anima. Anche nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due, separati, estranei, interiormente solitarii. Io bacio la tua fronte; e sotto la fronte si muove forse un pensiero che non è mio. Ti parlo; e forse una mia frase ti risveglia nello spirito un ricordo d'altri tempi, non del mio amore. Un uomo passa, un uomo ti guarda; e nel tuo spirito si produce un qualunque moto ch'io non posso sorprendere. E io non so quante volte un riflesso della tua vita anteriore illumini il momento presente… Oh, di quella vita, io ne ho una paura folle! - Sono accanto a te; mi sento tutto invaso dalla delizia che mi viene in certe ore dalla tua sola presenza; ti accarezzo, ti parlo, ti ascolto; mi abbandono. D'un tratto, un pensiero mi agghiaccia. Se io, inconsapevolmente, suscitassi in te una memoria, il fantasma d'una sensazione già provata, una malinconia dei più lontani giorni? Io non ti saprò mai dire la mia sofferenza. Quel calore, che mi dava il sentimento illusorio di non so qual comunione fra me e te, cade d'un tratto. Tu mi sfuggi, ti allontani, diventi inaccessibile. Io rimango solo, in una solitudine spaventevole. Dieci, venti mesi d'intimità non sono più nulla. Tu mi sembri estranea come quando non mi amavi. Ed io non ti accarezzo più, non parlo più; mi chiudo; evito qualunque manifestazione esteriore; ho paura che ogni minimo urto possa sollevare nel fondo del tuo spirito quei sedimenti oscuri che vi ha accumulati la vita irrevocabile. E allora cadono su noi quei lunghi silenzi angosciosi, in cui le forze del cuore si consumano inutilmente, miseramente. Io ti domando: «A che pensi?» Tu mi rispondi: «A che pensi?» Io non so il tuo pensiero; tu non sai il mio. Il distacco si fa sempre più profondo; diventa un abisso. E il guardare in quell'abisso è un'angoscia così forte che, per una specie d'istinto cieco, io mi getto sul tuo corpo, ti stringo, ti soffoco, impaziente di possederti. La voluttà è alta, come non mai. Ma quale voluttà può compensare l'immensa tristezza che sopraggiunge?
Ippolita disse:
- Io non provo questo. Io ho più abbandono. Forse, amo di più.
Di nuovo, questa affermazione di superiorità punse l'infermo.
Ippolita disse:
- Tu pensi troppo. Tu segui troppo il tuo pensiero. Il tuo pensiero ti attrae forse più che io non ti attragga, perché è sempre nuovo e sempre diverso; mentre io ho già perduta ogni novità. Nei primi tempi del tuo amore, tu eri meno pensoso e più spontaneo. Non avevi ancóra preso il gusto delle cose amare, perché eri più largo di baci che di parole. Già che, come tu dici, la parola è un segno imperfetto, non bisogna abusarne. Tu ne abusi, quasi sempre con crudeltà.
Poi, dopo un intervallo di silenzio, allettata ella stessa da una frase, non potendo resistere al desiderio di proferirla, soggiunse:
- L'anatomia presuppone il cadavere.
Come l'ebbe proferita, si pentì. La frase le parve volgarissima, poco feminina, acerba. Ella si rammaricò di non aver conservato quel tono di dolcezza e d'indulgenza, da cui dianzi Giorgio era rimasto confuso. Ancóra una volta ella mancava al proposito d'essere per l'amico una paziente e delicata medicatrice.
- Vedi, - ella disse, mostrando nella voce quel rammarico - tu mi guasti.
Egli appena sorrise. Ambedue sentivano che in quella disputa non avevano ferito se non l'amore.
La carrozza prelatizia ripassò, al piccolo trotto di due cavalli neri dalle code intonse. Gli alberi prendevano un'apparenza spettrale, come più l'aria s'illividiva nel tramonto umidiccio. Plumbee violacee le nuvole fumigavano, sul Palatino, sul Vaticano. Una striscia di luce gialla come solfo, diritta come una spada, rasentava il Monte Mario, dietro i cipressi aguzzi.
Giorgio pensava: «Mi ama ella ancóra? E perché è così irritabile? Sente ella forse che io dico la verità o ciò che sta per essere la verità? L'irritazione è un sintomo. Ma questa irritazione sorda e continua non è anche in fondo a me? Io so in me la causa vera. Sono geloso. Di che? Di tutto: - delle cose che si riflettono ne' suoi occhi… »
Egli la guardò. «È bellissima, oggi. È pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata. Quando ella si colorisce, mi pare un'altra. Quando ella ride non posso difendermi da un vago sentimento ostile, quasi d'ira contro il suo riso. Non però sempre.»
Il suo pensiero si perse nel pomeriggio. Notò fuggevolmente una segreta rispondenza tra l'aspetto della sera e l'aspetto dell'amata, godendone. Dal pallore di quel volto bruno traspariva come una leggera soffusione di viola sotto la pelle; ed ella aveva intorno al collo un piccolo nastro giallo, delicatissimo, che lasciava scoperti i due nèi bruni. «È molto bella. Il suo viso ha quasi sempre un'espressione profonda, significativa, appassionata. Qui sta il segreto del suo fascino. La sua bellezza non mi stanca mai; mi suggerisce sempre un sogno. Di che si compone la sua bellezza? Non saprei dire. Materialmente, non è bella. Qualche volta, guardandola, io ho provata la sorpresa penosa di una disillusione. I suoi lineamenti mi sono apparsi nella loro materiale verità, non modificati, non illuminati dalla forza di un'espressione spirituale. Ella ha però tre divini elementi di bellezza: la fronte, gli occhi, la bocca: divini.»
Gli si ripresentò al pensiero il riso. «Che mi raccontava ella, ieri? Mi raccontava non so più che cosa, di sua sorella: un piccolo fatto comico avvenuto in casa di sua sorella, a Milano, quando ella era là… Che ridere!… Ella dunque poteva ridere, lontana da me; poteva essere gaia. Ed ho le sue lettere. Tutte le sue lettere sono piene di tristezza, di pianto, di desiderio disperato.»
Egli provò un'acuta puntura, e poi una inquietudine tumultuosa come se fosse d'innanzi a un fatto grave ed irreparabile ma non bene chiarito. Avveniva in lui il consueto fenomeno della esagerazione sentimentale, per via d'imagini associate. Quell'innocente scoppio di risa si mutava in una ilarità continua, di tutti i giorni, di tutte l'ore, per tutto il periodo dell'assenza. Ippolita aveva vissuto lietamente, d'una vita volgare, tra gente ch'egli non conosceva, tra gli amici del cognato, tra ammiratori, tra gente stupida. Le sue lettere dolorose mentivano. Un brano d'una lettera gli tornò nella memoria, preciso. - Qui la vita è insopportabile. Amici ed amiche ci assediano; non ci lasciano in pace un'ora. Tu sai la cordialità milanese… - Una chiara visione gli sorse nello spirito: Ippolita in mezzo a una folla borghese d'impiegati, d'avvocati, di mercanti. Ella sorrideva a tutti, stendeva a tutti la mano, ascoltava i discorsi melensi, rispondeva una frase sciocca, si mescolava a quella volgarità.
In quel momento gli pesò sul cuore tutta la sofferenza provata in due anni al pensiero della vita che la sua amante conduceva, tra gente sconosciuta, nelle ore in cui ella non poteva restare con lui. «Che fa ella? Chi vede? Con chi parla? Quale atteggiamento ha verso quelle persone che ella conosce, con cui ella convive?» Eterne interrogazioni, senza risposta.
Il tormentato pensò: «Ognuna di quelle persone le toglie qualche cosa; toglie qualche cosa a me. Io non saprò mai quali influenze quelle persone abbiano esercitato su di lei; quali sentimenti, quali pensieri abbiano suscitato in lei. Ella è bella, piena di seduzioni; ha quel genere di bellezza che flagella gli uomini e li fa desiderosi. In mezzo a quella orribile folla, ella è stata deside...

Table of contents

  1. Titolo
  2. Trionfo della morte
  3. A Francesco Paolo Michetti
  4. Libro primo
  5. Libro terzo
  6. Libro quarto
  7. Libro quinto
  8. Libro sesto