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La coscienza di Zeno
Italo Svevo
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La coscienza di Zeno
Italo Svevo
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Information
Storia di un'associazione commerciale
Fu Guido che mi volle con lui nella sua nuova casa commerciale. Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio. Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quellâattivitĂ in compagnia di un amico, mi fosse simpatica. Ma câera dellâaltro ancora. Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un buon negoziante e mi pareva piĂš facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi insegnare dallâOlivi. Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.
Per desiderare quellâassociazione avevo anche altre ragioni. Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benchĂŠ egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli. Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che piĂš mâattaccavo a Guido e piĂš chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.
Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perchĂŠ egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.
Un giorno mi disse:
â Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dĂ un poâ di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale. Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perchĂŠ se ha bisogno di una bilancia chiama il bilancialo, se ha bisogno di legge invoca lâavvocato e per la propria contabilitĂ si rivolge ad un contabile. Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilitĂ ad un estraneo!
Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui. Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilitĂ che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per lâOlivi, ma ero certo dâessere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.
Si parlò chiaramente per la prima volta dellâeventualitĂ di una nostra associazione quandâegli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio. Ordinò senzâaltro due scrivanie per la stanza della direzione. Gli domandai arrossendo:
â PerchĂŠ due?
Rispose:
â Lâaltra è per te.
Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi lâavrei abbracciato.
Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un poâ imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua. Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto. Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero. Se il suo commercio fosse andato bene mâavrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.
Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria. Pareva châegli avesse giĂ pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi. Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietĂ delle sue meditazioni, che mi volsi anchâio a guardare quello châegli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna. Egli non voleva camminare nĂŠ la via percorsa con tanto successo da nostro suocero nĂŠ quella della modestia e della sicurezza battuta dallâOlivi. Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti allâantica. Bisognava seguire tuttâaltra via, ed egli volentieri si associava a me perchĂŠ mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.
Tutto ciò mi parve vero. Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta. Fu cosĂŹ e per la gratitudine della stima châegli mâaveva dimostrato, châio lavorai con lui e per lui, ora piĂš ora meno intensamente, per ben due anni, senzâaltro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale. Fino ad allora fu quello certamente il piĂš lungo periodo châio avessi dedicato ad una stessa occupazione. Non posso vantarmene solo perchĂŠ tale mia attivitĂ non diede alcun frutto nĂŠ a me nĂŠ a Guido ed in commercio â tutti lo sanno â non si può giudicare che dal risultato.
Io conservai la fiducia dâesser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta. Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilitĂ , ma anche di sorvegliare gli affari. Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedĂŹ. Bastava un suo cenno perchĂŠ accorressi a lui. Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.
E scrivo ancora di questi due anni perchĂŠ il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia. Che ragione câera di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione câera di sentirsi bene in quella posizione solo perchĂŠ mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca lâesistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente lâamico che avrei liberamente prescelto. Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza. Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertĂ e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni piĂš odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontĂ , due qualitĂ che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.
Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno. E fu un grande affetto il mio! AllorchĂŠ egli scomparve, per lungo tempo sentii comâegli mi mancava ed anzi lâintera mia vita mi sembrò vuota poichĂŠ tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.
Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, lâacquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine. Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire lâufficio. Per la scelta dellâufficio, fra me a Guido câera una divergenza di opinione che la ritardò. Da mio suocero e dallâOlivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, lâufficio vi era contiguo. Guido protestava con una smorfia di disgusto:
â Quegli uffici triestini che puzzano di baccalĂ o di pellami! â Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava. Un bel giorno il venditore dei mobili glâintimo di ritirarli perchĂŠ altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, lâultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della cittĂ . Ă perciò che il magazzino non lo ebbimo mai piĂš.
Lâufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre. Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con lâiscrizione in lettere lapidarie: ContabilitĂ ; poi, delle altre due porte lâuna ebbe il bollettino: Cassa e lâaltra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato. Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili. La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale. La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofĂ e di varie comodissime poltrone.
Poi venne lâacquisto dei libri e dei varii utensili. Qui la mia parte di direttore fu indiscussa. Io ordinavo e le cose arrivavano. Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio. Allora credetti di scoprire la grande differenza che câera fra me e Guido. Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire. Quandâegli arrivava a sapere quello che sapevo io e non piĂš, lui comperava. Ă vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare nĂŠ vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto. Io sarei stato piĂš dubbioso anche nellâinerzia.
In quegli acquisti fui molto prudente. Corsi dallâOlivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilitĂ . Poi il giovine Olivi mâaiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilitĂ a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente. Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli mâavrebbe spiegato anche quello.
Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quellâufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione. Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno. Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa. Ma il piccolo Luciano, lâunico nostro impiegato per il momento, dichiarava che lĂ dove câera la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa. Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi unâispirazione:
â A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.
Era una cosa che mâera stata detta a Trieste.
â Bravo! â disse Guido. â Anchâio lo ricordo ora. Curioso che lâavevo dimenticato!
Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse piĂš di maneggiare tanto denaro. Gli assegni giravano dallâuno allâaltro in tutti glâimporti che si voleva. Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.
Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido. Il nostro galoppino è oggidĂŹ un commerciante di Trieste assai rispettato. Egli mi saluta ancora con una certa umiltĂ attenuata da un sorriso. Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi allâimpiegata. Ricordo châegli aveva accarezzato per lungo tempo lâidea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro. Spiegò lâessenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della piĂš viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe. Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perchĂŠ Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio. Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!
Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos. Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica. Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che câinsegnò il modo di realizzare quegli assegni. Poi, perchĂŠ a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando allâOlivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finchĂŠ non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dellâincomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.
Guido sentĂŹ il bisogno di dire allâOlivi che gli facilitava il cosidetto impianto:
â Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico !
Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:
â Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli. Si starebbe meglio!
Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.
Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dellâavere. Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese. Poi fu tanto dotto di contabilitĂ che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile. Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilitĂ conferisse al mondo un nuovo aspetto. Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.
Si può dire châegli entrò in commercio armato della massima prudenza. Rifiutò una quantitĂ di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con lâaria tranquilla di chi sa meglio:
â No! â diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo châegli non aveva mai visto. Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come lâaffare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilitĂ . Era lâultima cosa châegli avesse appreso e sâera sovrapposta a tutte le sue nozioni.
Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso. Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che câimpedivano ogni sana operositĂ . A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari. Guido fece questa riflessione:
â Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!
La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dellâindirizzo. Lâesperimento ricordava qualche cosa di simile châio avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto. Naturalmente io non raccolsi nĂŠ spedii le circolari da lui eliminate, perchĂŠ non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quellâeliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.
La mia buona sorte mâimpedĂŹ di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte mâimpedĂŹ pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari. Lo dico ad alta voce perchĂŠ altri a Trieste pensa che non sia stato cosĂŹ: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con unâispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca. Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno. Ero lâammonitore! Lo spingevo allâattivitĂ , allâoculatezza. Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.
Accanto a lui io mi feci molto inerte. Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva lâaffare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.
Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senzâarrecarci alcun danno. Il solo che câinviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido. Guido finĂŹ con lâaccondiscendere perchĂŠ erano piccolezze, eppoi perchĂŠ il primo affare liquidato cosĂŹ doveva portare fortuna. Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantitĂ di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere. Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben piĂš attiva della nostra.
Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della cittĂ , fu per noi un ritrovo gradevole. Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno sâincontrarono da noi la domanda e lâofferta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quellâinnocente di Luciano, il quale, quando si parlava dâaffari, sâagitava come altri della sua etĂ quando sente dire di donne.
Allora mâera facile di divertirmi da innocente con glâinnocenti perchĂŠ non avevo ancora perduta Carla. E di quellâepoca ricordo con piacere la giornata intera. La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano allâufficio, senzâalcunâeccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.
Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:
â Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?
Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato. Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland. Non sâimprovvisava mica cosĂŹ una casa di commercio! E anche Augusta sâacquietava alle mie spiegazioni.
Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso. Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente. Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne. Quando non avevo da fare nĂŠ da pensare, lo vedevo anchâio con piacere saltellare per lâufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro. Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, cosi rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido fornĂŹ di non essere degno di dirigere una casa commerciale. Ciò provava unâassenza assoluta di serietĂ . Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.
Perciò mi parve di dover dedicarmi io allâeducazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttĂ qualche calcio quando Guido non câera. Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io lâavessi urtato per errore. Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finchĂŠ Guido non arrivava nellâufficio non vâera pace. Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi. Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò piĂš di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.
â Strano! â disse Guido. â Fortuna che so chi tu sia, perchĂŠ altrimenti diffiderei di te. I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.
Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi lâantipatia del cane.
Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto. Occupatosi con tanta passione di contabilitĂ , egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con lâOlivi, io mi vi opposi e difesi glâinteressi del vecchio Cada. Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero. Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta. Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva giĂ il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo. A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva. Buenos Aires era molto lontana e cosĂŹ la corrispondenza durò finchĂŠ durò la nostra casa. Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.
La quinta persona am...
Per desiderare quellâassociazione avevo anche altre ragioni. Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benchĂŠ egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli. Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che piĂš mâattaccavo a Guido e piĂš chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.
Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perchĂŠ egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.
Un giorno mi disse:
â Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dĂ un poâ di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale. Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perchĂŠ se ha bisogno di una bilancia chiama il bilancialo, se ha bisogno di legge invoca lâavvocato e per la propria contabilitĂ si rivolge ad un contabile. Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilitĂ ad un estraneo!
Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui. Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilitĂ che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per lâOlivi, ma ero certo dâessere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.
Si parlò chiaramente per la prima volta dellâeventualitĂ di una nostra associazione quandâegli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio. Ordinò senzâaltro due scrivanie per la stanza della direzione. Gli domandai arrossendo:
â PerchĂŠ due?
Rispose:
â Lâaltra è per te.
Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi lâavrei abbracciato.
Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un poâ imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua. Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto. Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero. Se il suo commercio fosse andato bene mâavrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.
Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria. Pareva châegli avesse giĂ pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi. Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietĂ delle sue meditazioni, che mi volsi anchâio a guardare quello châegli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna. Egli non voleva camminare nĂŠ la via percorsa con tanto successo da nostro suocero nĂŠ quella della modestia e della sicurezza battuta dallâOlivi. Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti allâantica. Bisognava seguire tuttâaltra via, ed egli volentieri si associava a me perchĂŠ mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.
Tutto ciò mi parve vero. Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta. Fu cosĂŹ e per la gratitudine della stima châegli mâaveva dimostrato, châio lavorai con lui e per lui, ora piĂš ora meno intensamente, per ben due anni, senzâaltro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale. Fino ad allora fu quello certamente il piĂš lungo periodo châio avessi dedicato ad una stessa occupazione. Non posso vantarmene solo perchĂŠ tale mia attivitĂ non diede alcun frutto nĂŠ a me nĂŠ a Guido ed in commercio â tutti lo sanno â non si può giudicare che dal risultato.
Io conservai la fiducia dâesser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta. Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilitĂ , ma anche di sorvegliare gli affari. Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedĂŹ. Bastava un suo cenno perchĂŠ accorressi a lui. Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.
E scrivo ancora di questi due anni perchĂŠ il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia. Che ragione câera di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione câera di sentirsi bene in quella posizione solo perchĂŠ mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca lâesistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente lâamico che avrei liberamente prescelto. Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza. Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertĂ e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni piĂš odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontĂ , due qualitĂ che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.
Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno. E fu un grande affetto il mio! AllorchĂŠ egli scomparve, per lungo tempo sentii comâegli mi mancava ed anzi lâintera mia vita mi sembrò vuota poichĂŠ tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.
Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, lâacquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine. Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire lâufficio. Per la scelta dellâufficio, fra me a Guido câera una divergenza di opinione che la ritardò. Da mio suocero e dallâOlivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, lâufficio vi era contiguo. Guido protestava con una smorfia di disgusto:
â Quegli uffici triestini che puzzano di baccalĂ o di pellami! â Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava. Un bel giorno il venditore dei mobili glâintimo di ritirarli perchĂŠ altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, lâultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della cittĂ . Ă perciò che il magazzino non lo ebbimo mai piĂš.
Lâufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre. Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con lâiscrizione in lettere lapidarie: ContabilitĂ ; poi, delle altre due porte lâuna ebbe il bollettino: Cassa e lâaltra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato. Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili. La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale. La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofĂ e di varie comodissime poltrone.
Poi venne lâacquisto dei libri e dei varii utensili. Qui la mia parte di direttore fu indiscussa. Io ordinavo e le cose arrivavano. Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio. Allora credetti di scoprire la grande differenza che câera fra me e Guido. Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire. Quandâegli arrivava a sapere quello che sapevo io e non piĂš, lui comperava. Ă vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare nĂŠ vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto. Io sarei stato piĂš dubbioso anche nellâinerzia.
In quegli acquisti fui molto prudente. Corsi dallâOlivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilitĂ . Poi il giovine Olivi mâaiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilitĂ a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente. Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli mâavrebbe spiegato anche quello.
Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quellâufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione. Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno. Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa. Ma il piccolo Luciano, lâunico nostro impiegato per il momento, dichiarava che lĂ dove câera la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa. Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi unâispirazione:
â A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.
Era una cosa che mâera stata detta a Trieste.
â Bravo! â disse Guido. â Anchâio lo ricordo ora. Curioso che lâavevo dimenticato!
Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse piĂš di maneggiare tanto denaro. Gli assegni giravano dallâuno allâaltro in tutti glâimporti che si voleva. Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.
Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido. Il nostro galoppino è oggidĂŹ un commerciante di Trieste assai rispettato. Egli mi saluta ancora con una certa umiltĂ attenuata da un sorriso. Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi allâimpiegata. Ricordo châegli aveva accarezzato per lungo tempo lâidea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro. Spiegò lâessenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della piĂš viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe. Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perchĂŠ Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio. Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!
Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos. Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica. Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che câinsegnò il modo di realizzare quegli assegni. Poi, perchĂŠ a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando allâOlivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finchĂŠ non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dellâincomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.
Guido sentĂŹ il bisogno di dire allâOlivi che gli facilitava il cosidetto impianto:
â Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico !
Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:
â Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli. Si starebbe meglio!
Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.
Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dellâavere. Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese. Poi fu tanto dotto di contabilitĂ che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile. Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilitĂ conferisse al mondo un nuovo aspetto. Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.
Si può dire châegli entrò in commercio armato della massima prudenza. Rifiutò una quantitĂ di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con lâaria tranquilla di chi sa meglio:
â No! â diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo châegli non aveva mai visto. Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come lâaffare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilitĂ . Era lâultima cosa châegli avesse appreso e sâera sovrapposta a tutte le sue nozioni.
Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso. Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che câimpedivano ogni sana operositĂ . A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari. Guido fece questa riflessione:
â Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!
La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dellâindirizzo. Lâesperimento ricordava qualche cosa di simile châio avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto. Naturalmente io non raccolsi nĂŠ spedii le circolari da lui eliminate, perchĂŠ non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quellâeliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.
La mia buona sorte mâimpedĂŹ di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte mâimpedĂŹ pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari. Lo dico ad alta voce perchĂŠ altri a Trieste pensa che non sia stato cosĂŹ: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con unâispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca. Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno. Ero lâammonitore! Lo spingevo allâattivitĂ , allâoculatezza. Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.
Accanto a lui io mi feci molto inerte. Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva lâaffare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.
Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senzâarrecarci alcun danno. Il solo che câinviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido. Guido finĂŹ con lâaccondiscendere perchĂŠ erano piccolezze, eppoi perchĂŠ il primo affare liquidato cosĂŹ doveva portare fortuna. Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantitĂ di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere. Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben piĂš attiva della nostra.
Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della cittĂ , fu per noi un ritrovo gradevole. Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno sâincontrarono da noi la domanda e lâofferta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quellâinnocente di Luciano, il quale, quando si parlava dâaffari, sâagitava come altri della sua etĂ quando sente dire di donne.
Allora mâera facile di divertirmi da innocente con glâinnocenti perchĂŠ non avevo ancora perduta Carla. E di quellâepoca ricordo con piacere la giornata intera. La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano allâufficio, senzâalcunâeccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.
Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:
â Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?
Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato. Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland. Non sâimprovvisava mica cosĂŹ una casa di commercio! E anche Augusta sâacquietava alle mie spiegazioni.
Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso. Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente. Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne. Quando non avevo da fare nĂŠ da pensare, lo vedevo anchâio con piacere saltellare per lâufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro. Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, cosi rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido fornĂŹ di non essere degno di dirigere una casa commerciale. Ciò provava unâassenza assoluta di serietĂ . Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.
Perciò mi parve di dover dedicarmi io allâeducazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttĂ qualche calcio quando Guido non câera. Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io lâavessi urtato per errore. Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finchĂŠ Guido non arrivava nellâufficio non vâera pace. Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi. Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò piĂš di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.
â Strano! â disse Guido. â Fortuna che so chi tu sia, perchĂŠ altrimenti diffiderei di te. I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.
Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi lâantipatia del cane.
Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto. Occupatosi con tanta passione di contabilitĂ , egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con lâOlivi, io mi vi opposi e difesi glâinteressi del vecchio Cada. Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero. Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta. Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva giĂ il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo. A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva. Buenos Aires era molto lontana e cosĂŹ la corrispondenza durò finchĂŠ durò la nostra casa. Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.
La quinta persona am...