L'idiota della famiglia
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L'idiota della famiglia

Gustave Flaubert dal 1821 al 1857

Jean-Paul Sartre, Massimo Recalcati, Corrado Pavolini

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Gustave Flaubert dal 1821 al 1857

Jean-Paul Sartre, Massimo Recalcati, Corrado Pavolini

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Über dieses Buch

Jean-Paul Sartre manifestĂČ fin da bambino la sua ossessione per Gustave Flaubert imparando a memoria le pagine finali di Madame Bovary. La sua ammirazione divenne astio quando, ormai adulto, riconobbe nel romanziere di SalammbĂŽ un esteta borghese, connivente con la classe cui apparteneva e che pure disprezzava. Volle vedere in Flaubert un avversario, il suo opposto intellettuale e politico; quell'opposto che, come Ăš noto, tanto somiglia all'immagine restituita dallo specchio. Forse per questo Sartre accettĂČ di inseguire l'ombra dell'altro scrittore in una magistrale biografia, di trattare il proprio contrario con l'empatia necessaria a comporre un ritratto che fosse anche un riflesso traviato di sĂ©.Chi era dunque Gustave Flaubert? L'idiota della famiglia, un bambino preda di lunghi stati d'assenza stuporosa, lo sguardo perso a inseguire miraggi? Oppure, per chi lo conobbe adolescente, l'istrionico attore mancato, il guitto maldestro gravato dalla dannazione di suscitare il riso? O forse l'incurabile nevrotico dell'epistolario, che accarezzava con la mente la corolla di tenebre delle sue malinconie, senza mai lasciarne sfiorire i petali? E come ha potuto divenire un genio quel bambino che i genitori e il fratello avevano destinato a una vita da ebete?Libro eretico e inclassificabile, ridefinizione dell'etica sartriana della libertĂ , cruciale incontro tra due giganti della letteratura francese, L'idiota della famiglia – cui si aggiunge oggi la penetrante prefazione di Massimo Recalcati – Ăš un viaggio nel dedalo della psiche flaubertiana, nell'arte come via di fuga e rieducazione sentimentale, nell'anomalia claustrofobica della scrittura; ed Ăš insieme un tentativo di chiarire in che modo la storia, la societĂ , il contesto familiare – in una parola, l'Altro – diano forma alla vacillante sintesi di un individuo. Al fondo di tutto, un'unica, enorme domanda: che cosa si puĂČ sapere davvero di un uomo?

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Information

PARTE PRIMA

La costituzione

1. Un problema

Leggere
Quando il piccolo Gustave Flaubert, smarrito, ancora «animalesco», emerge dalla prima etĂ , le tecniche lo attendono. E i ruoli. Comincia l’addestramento: e sembra non senza successo; nessuno ci dice, per esempio, che egli abbia avuto difficoltĂ  a camminare. Invece sappiamo che questo futuro scrittore si Ăš impuntato quando si Ăš trattato della prova primordiale, del tirocinio delle parole. Cercheremo di vedere, fra un momento, s’egli ebbe, fin dall’origine, qualche difficoltĂ  a parlare. Quel che Ăš certo Ăš che fece cattiva figura nell’altra prova linguistica, iniziazione e rito di passaggio, lo studio dell’alfabeto: un testimone riferisce che il bambino imparĂČ molto tardi le lettere e che i suoi lo stimavano allora un bambino tardivo. Per parte sua Caroline Commanville fa il seguente racconto:
«Mia nonna aveva insegnato a leggere al figlio maggiore. Volle fare altrettanto col secondo, e si mise all’opera. La piccola Caroline, accanto a Gustave, imparĂČ subito, egli non ci riusciva, e dopo essersi ben sforzato di capire quei segni che non gli dicevano nulla, si metteva a piangere a calde lagrime. Eppure era avido di conoscere, e il suo cervello non stava inerte
 (Un po’ piĂč tardi papĂ  Mignot gli legge ad alta voce.) Nei drammi suscitati dalla difficoltĂ  d’imparare a leggere, l’ultimo argomento di Gustave, irrefutabile a suo giudizio, era questo: “PerchĂ© imparare, dal momento che PapĂ  Mignot legge?”. Ma l’etĂ  del collegio si avvicinava, bisognava per forza sapere
 Gustave ci si mise risolutamente e, in qualche mese, raggiunse i suoi coetanei».
Questi cattivi rapporti con le parole, vedremo che hanno deciso della sua carriera. E poi, bisogna prestar fede, si dirĂ , alla nipote di Flaubert. E perchĂ© no? Essa viveva nell’intimitĂ  di suo zio e di sua nonna: Ăš da costei che le vengono le sue notizie. Tuttavia non si avrĂ  gran voglia di farle interamente credito a causa del brio, un po’ calcato, del racconto. Caroline sfronda, semplifica, addolcisce; se invece l’incidente narrato non le sembra compromettente, ci fa un po’ di frangia, sforzando la precisione a spese della veritĂ . Basta una lettura per trovare la chiave di codeste deformazioni doppie e contrarie: lo scopo Ăš di riuscire gradita senza abbandonare il tono salottiero.
Torniamo sul brano che ho appena citato: non avremo la minima difficoltĂ  a intravvedere l’infanzia ingrata di Gustave nella sua veritĂ . Ci dicono che il bambino piangeva a calde lagrime, che era avido di conoscere e che la sua impotenza lo desolava. Poi, un poco piĂč sotto, ci viene mostrato uno svogliato fanfarone, ostinato nel suo rifiuto d’imparare: a che scopo? papĂ  Mignot legge per me. È il medesimo Gustave? SĂŹ: ma il primo atteggiamento Ăš provocato da una constatazione che fa lui stesso: avversitĂ  delle cose, incapacitĂ  della sua persona. L’Altro Ăš lĂŹ, naturalmente; Ăš il testimone, Ăš l’ambiente che lo forza, Ăš l’esigenza. Ma non Ăš lui a suscitare la pena del bambino, rapporto che si crea spontaneo tra gli imperativi inanimati dell’alfabeto e le sue proprie possibilitĂ . «Debbo ma non posso.» Il secondo atteggiamento suppone un rapporto agonistico tra il bambino e i suoi. Caroline Commanville ci dice, quasi di passata, che accadevano delle scene; e questo ci basta. Tali scene non si verificarono subito. Ci fu il momento della pazienza, poi quello dell’afflizione, finalmente quello dei rimproveri: all’inizio s’incrimina la natura, piĂč tardi si accusa il piccino di cattiva volontĂ . Egli risponde, facendo il gradasso, che non sente il bisogno d’imparare a leggere; ma Ăš giĂ  vinto, giĂ  condizionato: pretende di spiegare il suo rifiuto d’istruirsi, dunque lo ammette; i genitori non vogliono saper altro e tutte le loro impazienze sono giustificate. L’umiltĂ  disarmata e l’orgoglioso dispetto che induce la vittima ad addossarsi la maligna volontĂ  di cui Ăš falsamente accusata, queste due reazioni sono separate da molti anni. Vi fu, in casa Flaubert, un certo malessere quando Gustave, messo di fronte ai suoi primi compiti umani, si mostrĂČ incapace di assolverli. Codesto malessere, accresciuto di giorno in giorno, durĂČ a lungo, s’inasprĂŹ. Si fece violenza al bambino. Una simile violenza, a malapena evocata e tuttavia cosĂŹ leggibile, basta per incrinare quel racconto bonario. Una strana confusione della signora Commanville viene ad accentuare il nostro imbarazzo: essa lascia intendere che Gustave e Caroline Flaubert impararono a leggere insieme. Ora Gustave aveva quattro anni di piĂč della sorella minore. Supponendo che la signora Flaubert abbia cominciato ad istruirlo verso i cinque anni, l’ultima nata, di dodici o tredici mesi, assisteva alle lezioni dalla culla. I tre figli di Achille-ClĂ©ophas hanno dunque, uno dopo l’altro, ricevuto dalla signora Flaubert lezioni private, il secondo nove anni dopo che il maggiore aveva imparato a leggere, la terza quattro anni dopo che il secondo vi si provĂČ per la prima volta. Ecco che tuttavia la signora Commanville, senza spaventarsi di sĂŹ grandi intervalli, convoca nello stesso paragrafo i suoi due zii e la propria madre. PerchĂ©, dal momento che non studiarono insieme? Leggete bene: la signora Flaubert si fece insegnante del brillante Achille; con Gustave, ricomincia l’esperienza. Per la ragione che i suoi primi successi l’avevano convinta dei propri doni pedagogici: Achille dovette essere un fanciullo prodigio. E Caroline, l’ultima venuta, madre della narratrice, imparĂČ senza bisogno d’applicarsi. Ficcato in mezzo tra queste due meraviglie, Gustave, inferiore sia a questa che a quello, fa una misera figura. Come se la signora Commanville si fosse lanciata in un simile paragone – che non s’imponeva affatto – per ricordare al pubblico che le insufficienze del futuro scrittore si trovavano largamente compensate dall’eccellenza dei due altri bambini. Lo zio era maggiorenne quando la nipote venne alla luce; quando Madame Bovary apparve, essa aveva undici anni; non importa; persino a lei, che non ne vide se non il seguito, i primi anni di Gustave parvero inquietanti; egli ebbe quel ritardo, poi la «crisi di nervi» di cui sentĂŹ certamente parlare ben presto, e non ci fu bisogno d’altro: essa utilizzerĂ  codesta gloria ma non ne resterĂ  mai abbagliata. La signora Commanville nata Hamard, Ăš una Flaubert da parte di madre; fin nell’elogio funebre di suo zio, essa tiene a ricordare la propria appartenenza alla piĂč celebre famiglia di scienziati della Normandia. Per salvare l’onore dei Flaubert, essa affianca un genio confinante con l’idiozia a due buoni soggetti, due cervelloni, vera progenitura di scienziati. Se codesta stessa signora, mezzo secolo dopo gli avvenimenti, non seppe trattenersi dal paragonare i tre bambini, s’indovina facilmente quel che Gustave dovette affrontare tra il 1827 e il 1830. Ma avremo l’occasione di tornare a lungo su questi paragoni. Si trattava di mostrare che Gustave, con la sua carenza, si trovĂČ al centro di una tensione familiare, la quale non cesserĂ  di accrescersi finchĂ© egli non avesse raggiunto «i ragazzi della sua età».
È tuttavia sicuro che il bambino non sapesse leggere prima dei nove anni? Quando vi si volesse credere, come ammettere che Gustave sapesse scrivere da cosĂŹ poco tempo quando indirizzava a Ernest Chevalier, il 31 dicembre 1830, ossia a nove anni, la lettera stupefacente di cui avremo altre occasioni di riparlare? A rileggerla essa colpisce per la sua fermezza: frasi concise e vigorose, vere; l’ortografia Ăš un po’ fantasiosa: non piĂč del necessario. Non c’ù dubbio: l’autore Ăš padrone delle sue figurazioni grafiche. Propone d’altronde al suo amico Ernest di «mandargli le sue commedie». Il brano non Ăš molto chiaro: si tratta di commedie che ha giĂ  scritto o di quelle che conta di scrivere quando Ernest «scriverĂ  i suoi sogni»? In ogni caso la parola scrivere ha giĂ  per lui il doppio significato che ne costituisce tutta l’ambiguitĂ : designa insieme il semplice atto di tracciare parole su un foglio e l’impresa singolare di comporre «scritti». Pensavamo di trovare un ex-idiota appena uscito dalle nebbie: cadiamo su un letterato. Impossibile. È vero: un diverso ambiente, l’intelligenza di un’educatrice, i consigli di un medico, tutto puĂČ servire ai bambini ritardati; basta loro un’occasione. E per molti di lento comprendonio, l’accesso al mondo della lettura si presenta come una vera e propria conversione religiosa, a lungo e insensibilmente preparata, di colpo resa attuale. Ma sono progressi improvvisi, che compensano i ritardi di un’annata. Di due, a rigore, non piĂč. Gustave, a credere a sua nipote, aveva da riguadagnarne quattro o cinque.
No: analfabeta a nove anni, il bambino sarebbe troppo gravemente menomato perchĂ© si possa concepire il suo sprint finale. Gustave seppe leggere nel 1828 o ’29, cioĂš a dire fra i sette e gli otto anni. Prima, il suo ritardo non avrebbe preoccupato altrettanto; dopo, egli non avrebbe mai potuto riguadagnarlo.
Quel che rimane vero Ăš che i Flaubert sono in pensiero. A lungo, Gustave non ha potuto cogliere i legami elementari che fanno di due lettere una sillaba, di piĂč sillabe una parola. DifficoltĂ , queste, che se ne portano dietro altre: come far di conto senza saper leggere? Come ricordare i primi elementi di storia e geografia se l’insegnamento resta orale? Di ciĂČ oggi non ci si preoccupa: i metodi sono piĂč sicuri e, soprattutto, si accetta l’allievo cosĂŹ com’ù. In quell’epoca c’era un ordine da seguire e il bambino doveva piegarvisi. Dunque, Gustave era in ritardo su tutta la linea.
IngenuitĂ 
Non interamente, perĂČ: papĂ  Mignot gli leggeva ad alta voce, il bambino assorbiva una cultura diffusa, giĂ  letteraria; i romanzi ne eccitavano l’immaginazione, la fornivano di nuovi schemi, egli imparava come si adoprano i simboli. Un bambino, se s’incarna per tempo in Don Chisciotte, inserisce in se stesso, a propria insaputa, il principio generale di tutte le incarnazioni: sa ritrovarsi nella vita d’un altro, vivere come un altro la propria vita. Sfortunatamente niente di tutto ciĂČ era visibile. L’acquisito, trasparenze nuove, radure dell’anima, riflessi, era di tal natura da moltiplicare il numero dei suoi stupori: in ogni caso non lo riduceva. La signora Flaubert non seppe niente di questi suoi esercizi. E cominciĂČ a nascere il dubbio: Gustave non sarebbe per caso un idiota? Ritroviamo i suoi allarmi nello spigliato racconto della signora Commanville:
«Il bambino era di un’indole tranquilla, meditativa, e d’una ingenuitĂ  di cui ha conservato qualche traccia tutta la vita. Mia nonna mi ha raccontato che restava lunghe ore con un dito in bocca, assorto, con un’espressione quasi sciocca. Quando aveva sei anni, un vecchio domestico, Pietro, divertendosi della sua innocenza, gli diceva, per non essere importunato dal piccolo: “Va a vedere
 in cucina se io ci sono”. E il bambino andava a interrogare la cuoca: “Pietro m’ha detto di venire a vedere se Ăš qui”. Non capiva che volevano imbrogliarlo e, alle risate, restava pensieroso, intravvedendo un mistero».
Testo curioso e menzognero; sotto il buon umore di Caroline, fa capolino la veritĂ : Gustave era un povero di spirito, d’una inverosimile credulitĂ  patologica; piombava spesso in lunghe ebetudini, i genitori lo scrutavano in viso e temevano che fosse idiota. Non si puĂČ ammettere che tali confidenze fossero fatte gaiamente, in un sollievo trionfale; sarebbe un conoscer male la madre di Gustave: essa non ha mai creduto al genio, e neppure al talento, di suo figlio. In primo luogo queste parole per lei non avevano senso: vedova di un cervellone, soltanto i cervelloni avevano diritto alla sua stima; spirito pratico, non riconosceva dell’ingegno che agli uomini capaci e stimati per tali, perchĂ© la capacitĂ  consentiva loro di vendere i propri servizi al prezzo piĂč alto. Da questo punto di vista doveva apprezzare il figlio maggiore piĂč del secondo. Ed Ăš ciĂČ che probabilmente faceva, pur senza volergli troppo bene. Col cuore inclinava verso l’altro; e poi aveva qualche contrasto con la nuora. Ma pensava di restare a Croisset per dovere: Gustave era un malato, sarebbe morto o diventato pazzo senza le cure materne. Non c’ù nulla di piĂč strano di questa coppia di solitari feriti, ognuno dei quali si rintanava lontano dagli uomini in quella casa in riva all’acqua e pretendeva di non restarvi che per soccorrere l’altro. Ma la gelida sollecitudine della signora Flaubert dimostra la poca stima che essa aveva di suo figlio; prima l’idiozia, poi l’allarme del padre, placato per un momento, poi all’improvviso risorto quando Gustave ebbe diciassette anni, gli anni sterili di Parigi e, infine, la crisi di Pont-l’EvĂȘque, il mal caduco, finalmente l’isolamento volontario e l’oziositĂ , tutti codesti infortuni le sembravano collegati da un filo segreto: nel cervello del piccino qualcosa si era guastato, forse fin dalla nascita: l’epilessia – era il nome che veniva dato alla «malattia» di Flaubert – era, insomma, l’idiozia perdurante. Egli parlava, grazie a Dio, ragionava, ma non per questo era meno incapace in assoluto di esercitare un mestiere, ciĂČ che si era temuto di dover prevedere fin dal suo sesto anno. Scriveva, certamente, ma cosĂŹ poco: che cosa faceva lassĂč, nella sua camera? Sognava, si gettava sul divano, sopraffatto da un nuovo attacco, oppure ricadeva nelle sue vecchie ebetudini. Lavorava, diceva, a un nuovo mostro che chiamava «la Bovary»; la madre, prevedendo che corresse incontro a uno smacco, si augurava che egli non terminasse mai la propria opera. Mai voto fu piĂč saggio: ella se ne rese conto quando apprese che quegli osceni scarabocchi stavano per disonorare la famiglia e che l’autore sarebbe stato trascinato sul banco dell’infamia. La piccola Caroline Hamard era allora sui dodici anni e i particolari che essa ci riferisce, la sua nonna glieli comunicĂČ negli anni che seguirono allo scandalo. È chiaro che la vedova aveva il sentimento di confidarle un doloroso segreto, apprensioni malauguratamente ribadite: «Fin da bambino tuo zio ci ha dato un mucchio di preoccupazioni». La signora Flaubert fu una madre che non capiva il figlio, perchĂ© era vedova d’un marito che essa non aveva capito: esasperĂČ Â«l’irritabilità» del figlio minore addossandosi per devozione tutti i giudizi sbagliati che quello Sposo adorabile aveva espresso su di lui. Caroline fu la sua confidente: Gustave traeva una gioia vendicativa dal fare l’educazione di sua nipote: io, il forzato dell’abbecedario, istruito dalle mie sofferenze, illustro il mondo a questa bambina senza che le costi una lagrima. Ma la nonna aveva prevenuto contro di lui la nipotina, che prevenuta rimase, qualunque cosa egli facesse, e, incapace di apprezzare lo zio, meglio si applicĂČ a utilizzarlo che a volergli bene. Per dare al brano citato tutto il suo senso, bisogna vedervi la trascrizione in stile edificante del malevolo chiacchiericcio di due comari, una delle quali Ăš una donna lagnosa che sta invecchiando, l’altra una piccolo-borghese, e neanche tanto buona, dai dodici ai quindici anni: costoro sbranano l’inquilino del piano di sopra, l’una per disperazione, e spesso per suscettibilitĂ  ferita, l’altra per giovanile malignitĂ  conformista. Ed Ăš la nonna che ha potuto dire: «Un’ingenuitĂ  di cui ha conservato qualche traccia». Caroline Ăš incapace di fare una riflessione cosĂŹ giusta; d’altronde bisogna aver visto coi propri occhi, nella sua realtĂ , l’innocenza del bambinetto per ritrovarla nell’adulto sotto vari travestimenti. Venendo dalla signora Flaubert, e sostenuta sull’aneddoto che conosciamo, l’intenzione Ăš chiara: questo romanziere, che pretende di leggere nei cuori, non Ăš che un babbeo, un credenzone che ha conservato nell’etĂ  matura l’eccezionale credulitĂ  dell’infanzia. Quanto all’esempio riferito, sorprende. A sei anni, i bambini «normali» si orientano non senza fatica nello spazio e nel tempo: sull’essere, sull’io, esitano, la loro ragione si confonde. Ma questo vecchio che vedono, che toccano e che discorre con loro, qui ed ora, non si darĂ  loro a bere che sia nel medesimo istante al capo opposto dell’appartamento. A sei anni, no. NĂ© a cinque, e neppure a quattro: se «vanno a vedere in cucina», gli Ăš che non possiedono del tutto l’uso delle parole, che non le avranno capite che a metĂ  o che si precipitano senza troppo ascoltare, per la gioia di correre a perdifiato. Invero, l’unicitĂ  dei corpi e la loro localizzazione sono caratteri semplici e manifesti: occorre un lavoro della mente per riconoscerli, ma che cosa farĂ  esso se non rendere interiori le sintesi passive dell’esteriore? Lo sdoppiamento, al contrario, o l’ubiquitĂ  di un essere individuato, sono punti di vista della mente, contraddetti dall’esperienza quotidiana e che nessuna immagine mentale puĂČ puntellare. Infatti tali nozioni sono caratterizzate dalla loro stessa complessitĂ : non si puĂČ estrarle se non dalla disintegrazione dell’identitĂ ; per concepire un simile gemellarsi dall’identico, bisogna essere adulti e teosofi. Un bambino tardivo puĂČ conservare a lungo una visione confusa dell’individualitĂ  localizzata, ma egli ne sarĂ  allontanato sempre piĂč da queste dicotomie: perchĂ© soltanto per pensare che un individuo si sdoppi bisogna dapprima saperlo individualizzare. Gustave Ăš dunque l’eccezione? Sarebbe grave: tanto piĂč che egli arriva fino a interrogare la cuoca e che, anche dopo la beffa, non si accorge di esser stato preso in giro. Per fortuna, la regola Ăš rigorosa, come ho appena mostrato, e non tollera neppure la famosa eccezione che la confermerebbe. Altrimenti detto, questa storia Ăš un’invenzione pura e semplice.
La fiducia come spiegazione
Questo esempio di ingenuitĂ  non Ăš che un simbolo. Caroline ne ha trovato rassicurante la balordaggine e gli ha dato il colpo di pollice che ci voleva. Simbolo di che? D’un mucchio di piccoli avvenimenti familiari, troppo «privati», secondo lei, per essere raccontati. PerchĂ© il bambino credesse al suo interlocutore, non ebbe mai bisogno, stiamo pur sicuri, d’una simile distorsione mentale: gl...

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