Vulcani
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Così il pianeta cambia pelle

Sabrina Mugnos

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  1. 176 Seiten
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Vulcani

Così il pianeta cambia pelle

Sabrina Mugnos

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Über dieses Buch

I vulcani creano e i vulcani distruggono. Muovendosi attraverso questa seducente dualità, l'autrice illustra l'unico fenomeno geologico in grado di cancellare o devastare terre nel giro di poche ore, ma anche di edificarle dal nulla, oltre che di rigenerarle rendendole feconde con i prodotti eruttivi. La loro natura è legata alla collocazione geografica, che a sua volta ne condiziona la tipologia eruttiva. Un libro agile e di facile lettura ma scientificamente rigoroso, in cui si parla di spettacoli naturali e di scienza, ma anche di conoscenza del rischio che i vulcani rappresentano, soprattutto sul nostro territorio.

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Information

Verlag
Hoepli
Jahr
2019
ISBN
9788820391188
1
La danza delle zolle
Un po’ pesca e un po’ cipolla
Poche centinaia di milioni di anni dopo la sua formazione (datata a 4,7 miliardi di anni fa), la Terra era un luogo ancora infernale, squassata dalla rapida rotazione di alcune ore e dalle potenti forze mareali esercitate dalla vicinissima Luna (distante circa un ventesimo in meno di oggi).
Solo dopo circa un miliardo di anni il suo volto cominciò ad assumere sembianze più familiari, con l’azzurro dei mari punteggiato dalle prime masse rocciose solide.
Man mano che la temperatura diminuiva, anche nel suo interno avvenivano dei cambiamenti: gli elementi più pesanti come i metalli confluivano verso il centro, lasciando in superficie quelli via via più leggeri. Per tale ragione, oggi troviamo una struttura paragonabile sia a una pesca che a una cipolla: il cuore, a una profondità di circa 6300 km, è occupato da una palla di ferro rovente grande poco meno della Luna (il nucleo interno), che con i suoi 5500 °C circa conserva ancora il calore della creazione (il nocciolo della pesca). Ad avvilupparlo, un guscio liquido (il nucleo esterno) fatto di una lega ferro-nichel, tenuto in movimento dalla rotazione intorno all’asse e all’origine del campo magnetico planetario. Il tutto ricoperto dal mantello (la polpa della pesca) che si compone principalmente di silicati di ferro, magnesio e altri metalli e si estende per oltre 2900 km fino a culminare nella sottile crosta (la buccia della pesca) che si affaccia in superficie, caratterizzata da elementi più leggeri e di spessore variabile da pochi chilometri ad alcune decine.
Tali involucri sono separati da discontinuità, ovvero stati di transizione che, a loro volta, possiedono ulteriori disomogeneità interne (da cui l’analogia con gli strati della cipolla).
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Figura 1.1La struttura interna della Terra: partendo da sinistra, la crosta, il mantello, il nucleo esterno e quello interno.
Sulle orme di Jules Verne
Il raggio terrestre è poco meno di 6400 km, cioè la distanza che separa Milano da New York. Un tiro di schioppo che, in volo, percorriamo in qualche ora. Dunque, non poche persone si domandano perché non dirigiamo la punta dei nostri apparecchi verso il basso per esplorare il cuore del mondo che ci ospita.
La risposta sta nelle caratteristiche del mezzo che si deve attraversare per giungere a destinazione. L’aria che solcano i nostri velivoli e l’acqua del mare hanno una densità bassa, che consente di muoversi nell’interno con relativa facilità. L’esatto contrario della roccia, la cui impenetrabilità è esacerbata dalle inaudite pressioni e temperature che si incontrano man mano che ci si sposta verso il basso. Il carico litostatico, infatti, varia da un valore di circa 270 a 330 bar/km (1 bar corrisponde a un’atmosfera, cioè alle condizioni in superficie) a seconda del tipo di involucro che si incontra, mentre il termometro sale mediamente di 3 °C ogni 100 metri (valore variabile da luogo a luogo).
Un nucleo nel nucleo
Di recente, studi dettagliati sul comportamento delle onde sismiche nelle profondità della Terra hanno mostrato che il nucleo interno terrestre, quindi quello solido, non è un oggetto unico bensì suddiviso in due strati. Quello esterno sarebbe caratterizzato da cristalli di ferro allineati secondo la direttrice nord-sud mentre in quello più interno i cristalli sarebbero perpendicolari alla direttrice est-ovest e probabilmente non di ferro.
Dunque, almeno fino a oggi, tutto ciò che sappiamo sul regno inaccessibile che si cela sotto i nostri piedi lo dobbiamo allo studio del comportamento delle onde sismiche, sia generate spontaneamente dai terremoti sia indotte dall’uomo. Loro, infatti, viaggiano disinvolte da una parte all’altra del globo e a ogni profondità, rimbalzando, deviando, moltiplicandosi, attenuandosi ecc., a seconda del tipo di materiale che attraversano, tradendone natura e disposizione.
Non dimentichiamo, però, che si tratta pur sempre di una “fotografia” virtuale legata al livello di tecnologia delle metodologie atte a tradurre tali informazioni e che, quindi, possiede dei margini di incertezza e anche di miglioramento. Pertanto, il fantomatico “centro della Terra”, raccontato da Jules Verne nel suo famoso libro e affrontato dagli impavidi terranauti del film The Core, rimane ancora in gran parte una misteriosa e ambita chimera.
Non così rotonda
Le immagini riprese dallo spazio ci mostrano il nostro pianeta come una magnifica sfera azzurra. Ma l’occhio inganna e le cose non stanno esattamente così. A causa della deformazione dovuta al suo moto di rotazione (di 23 ore, 56 minuti e 4 secondi) il raggio equatoriale e quello polare non coincidono ma differiscono di circa 21 km (ciò accade perché l’equatore, trovandosi più distante dall’asse terrestre, è sottoposto a una accelerazione centrifuga maggiore rispetto a quella delle regioni prossime ai poli). In effetti è un’inezia, se confrontata con i 6371 km del raggio medio, ma più che sufficiente per precluderle la perfezione. Archiviata la sfera, la figura geometrica che più assomiglia al pianeta è quella di un ellissoide, cioè un solido lievemente compresso ai poli. Tuttavia, siamo ancora lontani dalla realtà. Il nostro globo, infatti, è tutt’altro che omogeneo poiché costituito da rocce (e sostanze) di composizione e densità differenti, sia nel sottosuolo sia in superficie. Quindi, variando il valore dell’accelerazione di gravità da luogo a luogo, se vogliamo descriverne esattamente la forma dobbiamo ricostruirne la superficie pezzo per pezzo, tracciando e unendo linee perpendicolari alla direzione fornita dal filo a piombo. Solo così appare il vero volto della Terra: un bitorzoluto e tutt’altro che seducente geoide, la cui forma è leggermente rigonfia in corrispondenza dei continenti e concava sopra gli oceani, con uno scarto che non supera i 120 metri.
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Figura 1.2La reale forma del nostro pianeta è un geoide, una superficie costruita sulla base dei valori gravimetrici calcolati su ogni punto della superficie.
Un puzzle in movimento
Le vicende geologiche che interessano le nostre vite avvengono entro i primi 100-150 km di profondità all’interno di una zona chiamata litosfera, costituita da una parte di mantello sovrastata dalla crosta. I due strati sono separati da una discontinuità (detta di Mohorovičić, dal nome dello scopritore) caratterizzata da una brusca accelerazione delle onde sismiche che transitano in materiali diversi sia da un punto di vista chimico sia strutturale. Il mantello, infatti, è abbastanza omogeneo e costituito da rocce chiamate peridotiti (a base di silicati di ferro e magnesio), con densità intorno ai 3,3 g/cm3; la crosta situata sotto gli oceani, invece, fatta di silicati di ferro e magnesio, è più densa (circa 3 g/cm3) e sottile (alcuni km di spessore) mentre quella continentale, dominata dai silicati di calcio e alluminio, è più spessa (fino ad alcune decine di chilometri) e leggera (2,7 g/cm3).
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Figura 1.3Rappresentazione grafica della struttura del nostro pianeta. Noi viviamo sulla sua superficie, la crosta, separati dal nucleo rovente da poco più di sei chilometri di roccia calda e compressa.
Ma non è finita qui; anzi, è appena cominciata, perché le forti tensioni generate dagli infuocati e turbolenti moti convettivi che risalgono dalle profondità hanno spezzettato l’involucro litosferico in una dozzina di placche maggiori (in parte oceaniche e in parte continentali), accompagnate da altre minori.
Le placche sono in costante moto reciproco sopra uno strato semifluido chiamato astenosfera e si contendono il predominio del globo a suon di scontri titanici o scissioni, rendendosi responsabili delle manifestazioni sismiche e vulcaniche che si osservano in superficie.
È così che il nostro pianeta si rigenera cambiando i suoi lineamenti.
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Figura 1.4La litosfera del nostro pianeta è spezzettata in zolle (o placche). Alcune sono gigantesche, come la placca pacifica; altre, minuscole.
Nascono gli oceani: i margini divergenti
La danza delle zolle inizia laddove la resistenza della litosfera cede al pennacchio incandescente di magma che spinge dal mantello sottostante. Il fuoco vince e ha la meglio sulla roccia più fredda e rigida che comincia a lacerarsi. Sebbene i continenti siano masse enormi, solide e rassicuranti, possono lesionarsi e spezzarsi come lastre di vetro attraverso un processo chiamato rifting, le cui fasi si susseguono nel corso di qualche decina di milioni di anni.
Nella fase 1, la crosta si gonfia a seguito della spinta esercitata dal magma sottostante, cominciando a fratturarsi in un complesso sistema di faglie. Queste dislocano grosse porzioni di roccia verso un progressivo scivolamento verso l’interno, causando un’ulteriore distensione e assottigliamento che consentono la risalita di fluidi magmatici e gas (attività idrotermale, fase 2). Infine, quando la depressione (o fossa tettonica) è sufficientemente pronunciata, fa il suo ingresso l’acqua del mare a formare un bacino protoceanico (fase 3).
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Figura 1.5Le quattro fasi di evoluzione del processo di rifting continentale.
A quel punto il magma sottostante è in grado di irrompere in superficie, eruttando in modo continuo lungo un serie di fratture bordate da rilievi allineati a formare una dorsale oceanica (fase 4). Così facendo, costruisce nuovo fondale e allontana sempre più i margini delle neoplacche. È nato un oceano.
Tali eventi geologici evolvono in tempi troppo lunghi per essere osservati in una vita umana. Tuttavia, spesso abbiamo la fortuna di poter sbirciare le diverse tappe dei “lavori in corso”, oltre che di avvalerci della documentazione raccolta dalle generazioni passate. Pertanto, possiamo ricostruire l’intera dinamica di ambienti tettonici anche complessi come quello che sto per raccontarvi, che rappresenta l’esempio tangibile più noto e completo di evoluzione di un rift continentale.
L’Africa che va in pezzi
Ho preparato la mia tesi di laurea in scienze geologiche in Tanzania, studiando la struttura e il comportamento delle lave eruttate da un vulcano dal nome impronunciabile: Ol Doinyo Lengai.
È una montagna sacra per la locale etnia masai, che ci vede la residenza del proprio dio. Ne compresi il perché avventurandomi verso la cima posta (almeno al tempo) a poco meno di 3000 metri di quota, a conclusione di un massacrante dislivello di circa 2000 metri su un terreno estremamente ripido, sdrucciolevole e tagliente. Lo spettaco...

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