Uno studio sul bene
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Vol. I

Kitarō Nishida

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Vol. I

Kitarō Nishida

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Uno studio sul bene (1911) è la prima opera di Kitar? Nishida. Diviso in quattro parti secondo un progetto sistematico che comportava la stesura di un'ontologia, un'etica e una filosofia della religione, il libro si fonda sul concetto di "esperienza pura" che l'autore ricava da Mach, da Avenarius, ma soprattutto da William James, riletto alla luce del pensiero di Henri Bergson. Si tratta del primo tentativo in assoluto di coniugare filosofia occidentale e scuola zen, il primo passo per dar vita a un progetto filosofico interculturale collocato al crocevia tra Oriente e Occidente.

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Parte terza
IL BENE

CAPITOLO PRIMO

L’agire (1)

Penso di aver spiegato a grandi linee che cosa sia la realtà,83 perciò da qui in poi vorrei provare a trattare dei problemi legati alla prassi. Che cosa dobbiamo fare noi esseri umani? Che cos’è il bene? Dove devono trovare compimento le nostre azioni? Poiché credo che i diversi fenomeni relativi alla sfera pratica si possono tutti ricomprendere nell’«agire» [kōi], prima di trattare dei problemi relativi alla prassi vorrei provare innanzitutto a pensare che cosa sia l’agire [kōi].
Considerato dall’esterno, l’agire [kōi] è il movimento di un corpo fisico [nikutai]. Si tratta però di un movimento diverso rispetto a quello degli oggetti materiali, l’acqua che scorre o una pietra che cade. È un movimento dotato di un certo tipo di coscienza e in cui è presente un fine. Occorre però fare una distinzione sia rispetto ai vari movimenti riflessi, che possiedono un fine che si manifesta a livello dell’organismo, ma che sono del tutto non coscienti, sia rispetto ai movimenti istintivi, in cui c’è un fine – come si vede negli animali superiori – e più o meno coscienza, ma in cui la consapevolezza del fine non è ancora chiara. «Agire» [kōi] significa un movimento del cui fine si è chiaramente coscienti. Poiché anche noi esseri umani abbiamo un corpo fisico [nikutai], si verificano in noi movimenti fisico-materiali, riflessi e istintivi, ma ciò che si può dire sia nostro atto è solo quell’agire [kōi] che ha il senso di un movimento del cui fine si è chiaramente coscienti.
Anche se l’agire [kōi] è accompagnato in molti casi da movimenti ovvero atti nel mondo esterno, l’essenziale dell’agire consiste in fenomeni di coscienza interiori e per84 questo vorrei provare a pensare in termini psicologici in che tipo di fenomeni di coscienza consista l’agire [kōi]. Come ho già detto, l’agire [kōi] è un movimento che si origina a partire da un fine di cui si è coscienti, ossia è un «movimento volontario». L’agire [kōi], dunque, include in sé anche i movimenti nel mondo esterno, tuttavia «volontà» indica fondamentalmente dei fenomeni di coscienza interiori cosicché trattare dei fenomeni di coscienza che riguardano l’agire [kōi] significa, in altre parole, trattare della volontà. Ora, come sorge la volontà? Originariamente il nostro corpo è fatto in modo tale da produrre spontaneamente movimenti appropriati a mantenere e sviluppare la propria vita. Dato che la coscienza sorge assieme a questi movimenti, all’inizio essa è un semplice sentimento di dolore e piacere. Ma via via che le idee in rapporto al mondo esterno diventano più chiare e gli atti associativi efficaci, il movimento precedente non origina più quello successivo in modo inconsapevole reagendo a stimoli del mondo esterno, ma per prima cosa richiama alla mente l’idea di un risultato, cui si accompagna poi l’idea del movimento che deve diventare il mezzo per realizzare il risultato. Quindi si passa al movimento, vale a dire si origina la volontà. Per questo, affinché sorga la volontà, per prima cosa deve esserci una causa fisico-corporea [nikutai] o spirituale che determina la direzione del movimento e, a livello della coscienza, la direzione delle associazioni. Nella coscienza questo viene ad apparire come un tipo di sentimento impulsivo. Questo sentimento impulsivo può essere detto anche «forza» della volontà, indipendentemente dal fatto di essere innato o acquisito in seguito. Io lo chiamo qui «impulso». Ora, l’idea del risultato ossia il fine, sia esso ottenuto per esperienza o provocato dall’associazione, detto meglio, l’idea del fine, deve accompagnare l’impulso testé menzionato. A questo punto si forma finalmente la volontà, e per questo chiamo l’idea del fine «desiderio», primo grado della volontà. Quando il desiderio è uno solo, accompagnato dall’idea di movimento origina l’atto, invece quando i desideri sono due o più, nasce il cosiddetto conflitto di desideri, il più forte dei quali occupa la posizione principale nella coscienza e così dà vita al movimento. Questa è la «decisione». Ciò che chiamiamo «volontà» indica l’intero di questi fenomeni di coscienza, ma talora consideriamo in senso più ristretto «volontà» l’atto dell’istante in cui finalmente si passa al movimento oppure chiamiamo «volontà» in particolare qualcosa come la decisione. L’essenziale dell’agire [kōi] non consiste nei movimenti esteriori, quanto piuttosto risiede nella volontà che è costituita dai fenomeni di coscienza interiori appena considerati. Quando la volontà sia stata sufficiente, si può chiamare ciò «agire» [kōi] anche qualora il movimento a causa di un qualche impedimento non abbia avuto luogo. Al contrario, pur realizzandosi un movimento se la volontà non è stata sufficiente non si può chiamare ciò85 «agire» [kōi]. Quando l’attività interiore della coscienza è intensa, viene a sorgere una volontà che fin dall’inizio mette a fine un evento all’interno della coscienza. Anche quest’ultimo caso può senz’altro essere detto «agire» [kōi]. Gli psicologi distinguono tra interno ed esterno, ma i fenomeni di coscienza sono di un solo tipo.
Fin qui ho semplicemente descritto il processo della volontà che costituisce l’elemento fondamentale dell’agire [kōi]. Adesso vorrei fare un passo avanti e provare a spiegare di che natura sia il fenomeno di coscienza «volontà» e quale posizione occupi all’interno della coscienza. Per la psicologia la volontà è un atto di unificazione di idee, ossia deve essere un tipo di appercezione. Nella coscienza ci sono due tipi di atti di collegamento delle idee. In uno la causa del collegamento risiede principalmente nelle circostanze del mondo esterno. Dato che nella coscienza la direzione del collegamento non è chiara e viene percepita come qualcosa di passivo, si chiama questo tipo di attività «associazione». Quanto all’altro tipo di atto di collegamento, la sua causa risiede all’interno della coscienza e inoltre si ha chiara consapevolezza della direzione del collegamento. Dato che si percepisce che la coscienza collega in modo attivo, si dice questo tipo di atto di collegamento «appercezione». Ma come ho detto sopra, nella volontà c’è innanzitutto l’idea di un fine che determina la direzione del collegamento di idee. Poiché a partire da qui, riferendosi alle diverse idee di movimento ottenute nelle esperienze precedenti, la volontà costituisce il collegamento delle idee adatte alla propria realizzazione, in generale la volontà è un atto di appercezione. Che la volontà sia un atto di unificazione d’idee è ancora più chiaro nel caso del conflitto di desideri. La cosiddetta «decisione» non è altro che il compimento dell’unificazione.
Se è così, in che relazione stanno l’atto appercettivo della volontà e gli altri atti appercettivi? Oltre alla volontà, fanno parte degli atti appercettivi il pensiero e l’immaginazione. Poichè anche negli atti del pensiero e dell’immaginazione una certa idea unificante diventa la base a partire dalla quale unificare le idee in modo da corrispondere a fini, quanto alla forma dell’attività ideale pensiero e immaginazione sono del tutto uguali alla volontà. Solo perché i fini in base a cui unificare non sono uguali e di conseguenza non lo sono neppure le leggi dell’unificazione, di volta in volta questi atti della coscienza vengono considerati tra loro differenti. Proviamo allora adesso a ricercare in modo più preciso in che cosa si differenziano e dove sono tra loro uguali questi atti. Innanzitutto, se proviamo a confrontare immaginazione e volontà, 86il fine dell’immaginazione è l’imitazione della natura, mentre il fine della volontà è il movimento. Di conseguenza, nell’immaginazione si unificano le idee in modo da essere in armonia con il vero stato della natura, mentre nella volontà si unificano in modo da essere in armonia con i propri desideri. Ma a pensarci bene, prima di eseguire un movimento volontario bisogna innanzitutto immaginarlo. Inoltre, per immaginare la natura dobbiamo per prima cosa provare a pensare diventando la cosa stessa. Poiché però l’immaginazione immagina sempre cose esterne, noi non possiamo mai coincidere con esse e di conseguenza abbiamo la sensazione che non si tratti del nostro reale [genjitsu]. Così si pensa che in ogni caso immaginare una certa cosa e realizzarla sono due cose diverse. Ma a pensarci meglio, si tratta di una differenza di grado e non di natura. Come si può vedere nell’immaginazione degli artisti [bijutsuka], quando raggiungiamo l’ambito dell’ispirazione entusiastica, ci sprofondiamo completamente in essa: noi e le cose facciamo tutt’uno e diventa anche possibile sentire direttamente l’attività delle cose come attività della propria volontà. Se proviamo poi a comparare il pensiero e la volontà, il fine del pensiero è la verità e dunque le leggi che dominano il collegamento delle idee a livello di pensiero sono le leggi della logica. Però non è che noi necessariamente vogliamo ciò che consideriamo verità né pensiamo che ciò che vogliamo sia per forza verità. Non solo, l’unificazione del pensiero è semplicemente unificazione di concetti astratti, mentre la volontà e l’immaginazione sono unificazione di idee concrete. Su questi punti, dunque, tra pensiero e volontà sussiste a prima vista una chiara distinzione e nessuno li confonde tra loro, ma a pensarci meglio anche questa distinzione non è così chiara e salda. Sul rovescio della volontà sta sempre latente una ragione adeguata. Anche se questa ragione non è perfetta, comunque la volontà è qualcosa di attivo sulla base di una certa verità, ossia si costituisce tramite il pensiero. D’altro canto, però, proprio come l’«identità di sapere e agire» propugnata da Wang Yangming,1 la conoscenza del vero deve per forza essere accompagnata dall’esecuzione della volontà. Pensare in un certo modo senza desiderare alla stessa stregua significa che in verità ancora non si conosce. Se proviamo a pensare in questi termini, le tre appercezioni di pensiero, immaginazione e volontà alla loro radice [konpon] sono atti unificanti identici. Pensiero e immaginazione sono atti unificanti in rapporto a idee che sono in relazione a tutto ciò che riguarda le cose e sé, mentre la volontà è in particolare atto unificante di idee che concernono solo la propria attività. D’altro lato, pensiero e immaginazione sono unificazioni solo ideali cioè possibili, mentre la volontà si può dire sia unificazione reale [genjitsu], ovvero il culmine dell’unificazione.
87Dopo questa breve trattazione della posizione della volontà all’interno degli atti appercettivi, vorrei ora trattare della volontà in relazione agli altri collegamenti ideali, vale a dire le associazioni e le fusioni. In riferimento alle associazioni in precedenza ho detto che ciò che determina la loro direzione di collegamento di idee risiede nel mondo esterno e non in quello interiore. Dicendo così, però, facevo un discorso solo in termini di grado, cioè anche in riferimento alle associazioni non si può dire che l’att unificante non risieda in nessun modo all’interno, è solo che tale atto non appare chiaramente nella coscienza. Quanto alla fusione, il collegamento di idee è ancora più non cosciente, non si ha coscienza neppure dell’atto di collegamento, ma non è che per questo non ci sia affatto un’unificazione interiore. In breve, i fenomeni di coscienza possiedono in generale una forma identica alla volontà e si può dire che tutti sono in un certo senso volontà. Inoltre, se chiamiamo «sé» la forza unificante in cui si radicano [konpon] quegli atti unificanti, allora la volontà è tra di esse ciò che più chiaramente manifesta il sé. Per questo nell’attività della volontà noi abbiamo coscienza di noi stessi nel modo più chiaro.
1Vedi Parte I, cap. III La volontà, nota 3 a p. 44.

CAPITOLO SECONDO

L’agire (2)

Fin qui ho trattato in termini psicologici che tipo di fenomeni di coscienza sia l’agire [kōi], in quanto segue voglio considerare da dove provenga la forza unificante della volontà che è origine dell’agire [kōi] e quale significato possieda questa forza nella realtà, voglio cioè chiarire filosoficamente la natura della volontà e dell’agire [kōi].
Da che cosa proviene l’unificazione della volontà che unisce dall’interno le idee in base ad un determinato fine? Se consideriamo la questione dal punto di vista degli scienziati per i quali non esiste realtà al di fuori della materia, probabilmente questa forza non può che provenire dal nostro corpo che, proprio come quello degli animali, è un organismo che forma un sistema. L’organismo degli animali, a prescindere che vi sia o meno in esso spirito, può realizzare vari88 movimenti ordinati meccanicamente nei centri del sistema nervoso quali i movimenti riflessi, i movimenti automatici e inoltre i complessi atti istintivi. Ora, anche la nostra volontà originariamente è venuta sviluppandosi a partire da questi movimenti non consci al cui stato anche adesso ritorna qualora venga allenata. Per questo, dunque, non resta che pensare che si tratti di movimenti dello stesso tipo che si originano a partire da un’identica forza. Dato che in generale i diversi fini dell’organismo si riducono al mantenimento e allo sviluppo della vita propria e della propria specie, forse anche il fine della nostra volontà non è altro che la conservazione della vita. Solo perché nella volontà il fine è cosciente, sembra trattarsi in questo caso di qualcosa di diverso dagli altri fini dell’organismo. Per questo gli scienziati cercano di spiegare a partire da questo fine della vita anche tutti i vari elevati bisogni spirituali che albergano in noi esseri umani.
Però è molto difficile cercare in una forza mate...

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