Parte seconda
1848-1813: la vita compresa a ritroso
«Votato dallâinfanzia a una vita di pene come a pochi forse Ăš dato appena immaginare; immerso nella melanconia piĂč profonda e da essa risospinto alla disperazione, io compresi me stesso nello scrivere.» (Diario di SĂžren Kierkegaard; 1517)
Capitolo quinto
Imparare a essere umani: lezione prima
La casa Ăš silenziosa e lui Ăš in piedi vicino alla grande finestra che dĂ su Nytorv; il fumo sale dalla sua pipa. Il chiaro di luna di questa tersa notte primaverile bagna di argento la grande piazza in ombra. Verso sinistra, sopra i tetti, si distingue â imponente e piĂč scuro del cielo â il campanile della Chiesa di Nostra Signora. Siamo alla fine di marzo del 1848; quasi cinque anni sono passati da quando ha lasciato Berlino, fresco di fama, pieno di fiducia e ambizioni, con La ripetizione e metĂ di Timore e tremore dentro la sua valigia. E sono passati quasi trentacinque anni da quando Ăš nato in questa casa. Sebbene i suoi genitori fossero di origini contadine, il padre si era arricchito abbastanza da acquistare una delle abitazioni piĂč invidiabili di Copenaghen. A SĂžren da bambino capitava spesso di starsene proprio quassĂč, non visto, a guardare i passanti. Allora, come oggi, sorvegliava il mondo da questo osservatorio privilegiato, con orgoglio segretamente misto alla vergogna per le sue umili origini.
I suoi primi ventiquattro anni erano trascorsi in questa elegante dimora di piazza Nytorv, accanto al municipio e al tribunale: ampie stanze che erano state casa sua prima che si formasse una memoria, prima che imparasse il nome delle cose, prima che cominciasse a porre domande â un luogo preistorico e mitico, che lo aveva plasmato in un modo che servirebbe una vita a scandagliare.
Da quattro anni, cioĂš dal 1844, era tornato a vivere lĂŹ. In quella stanza aveva preso forma quella che lui ora chiama «opera dâautore» e nel suo armadio in palissandro conserva pile di suoi libri: due copie di ciascuno, stampati su pergamena «uno per lei, e uno per me».1 Nel corso di questi quattro anni pensa spesso di abbandonare la scrittura e di diventare pastore in «una sperduta parrocchia di campagna» dove lo avrebbero lasciato in pace consentendogli di «piangere i suoi peccati».2 Invece sforna un libro dietro lâaltro. Volumetti di discorsi religiosi e opere brevi ma intense come Briciole di filosofia e Il concetto dellâangoscia, seguiti dallâenorme Stadi sul cammino della vita e dalla Postilla conclusiva non scientifica. In ogni libro si ripropone il dilemma se interrompere o meno la sua attivitĂ letteraria; la Postilla conclusiva, pubblicata nel 1846, pone fine esplicitamente al dilemma e termina con una «prima e ultima spiegazione» in cui lui, S. Kierkegaard, riconosce di essere lâautore delle opere attribuite ai suoi vari pseudonimi. Ma la ponderosa Postilla Ăš presto seguita da Due epoche, un libro mascherato da recensione letteraria, e lâanno dopo da Atti dellâamore, opera voluminosa scritta sotto forma di discorsi. Non sa ancora se la fine della sua attivitĂ di scrittore sia dietro o davanti a lui; in ogni caso scrive senza tregua.
Nel frattempo per sostenerla, questa attivitĂ , ha giĂ speso gran parte della fortuna paterna; non solo per stampare centinaia di copie di ogni suo libro e assicurarsi la collaborazione di Israel Levin come segretario, ma anche per procurarsi tutto il necessario alla vita di scrittore: servitori, buon cibo, ristoranti, botteghe del caffĂš, sigari, libri e rilegature, carrozze a noleggio quando sente lâesigenza di lasciare la cittĂ per schiarirsi le idee. Lâanno prima (1847) aveva venduto gli ultimi titoli ereditati dal padre, perdendo cosĂŹ i benefici di una rendita sicura. A dicembre si procura contante alienando la casa di famiglia, dove continuerĂ ad abitare come affittuario per i primi tre mesi del 1848, in attesa che termini quel lungo e buio inverno.3 Frattanto Anders, il domestico che si occupa delle incombenze di casa, imballa il contenuto della libreria dentro casse di legno che dispone ordinatamente lungo le pareti. Gli inediti â articoli e diari â trovano posto in scatole di latta (caso mai scoppiasse un incendio) a loro volta sistemate sopra le casse dei libri: Anders sa che sono le prime da salvare in caso di incendio.
Quando Kierkegaard vende la casa prevede di usare una parte dei ricavi per viaggiare un paio dâanni: Ăš stufo di Copenaghen. Qui tutti lo conoscono e nessuno lo capisce. Spera che la lontananza possa mettere un freno a quel ciclo continuo di produzione-pubblicazione, cosĂŹ logorante e angoscioso, e tuttavia compulsivo. Ma poi si rende conto che viaggiare rischia di stimolare ulteriormente la sua creativitĂ , come giĂ era successo durante il primo inquieto ed emozionante soggiorno a Berlino, quando ha iniziato a scrivere. PerciĂČ investe una parte del denaro in obbligazioni reali e alla fine di gennaio sottoscrive un oneroso contratto dâaffitto per un appartamento al primo piano allâangolo tra Rosenborggade e Tornebuskegade, appena entro le mura settentrionali della città «che mi ha allettato a lungo in un modo davvero singolare e che mi sono detto spesso che era lâunica che potesse piacermi».4 Ă una residenza ampia e moderna, con sei finestre al bel Ă©tage, lato nord-est, su Tornebuskegade, e quattro affacciate a sud-ovest su Rosenborggade. TraslocherĂ in aprile, ormai tra pochi giorni. Gli piacerebbe lasciare la cittĂ e ritirarsi in un posto tranquillo â ma crede che sia suo dovere restare nel mondo, nel luogo che Dio gli ha assegnato: qui, nella sua cittĂ natale, sotto gli occhi di tutti.
Mentre Kierkegaard, a una finestra al primo piano del numero 2 di Nyrtov, medita sul suo futuro e ripensa continuamente al suo passato, la CristianitĂ Ăš ovunque attraversata da correnti rivoluzionarie che montano e si gonfiano. In febbraio Il manifesto del Partito Comunista Ăš pubblicato a Londra e poi distribuito in rapida successione in altre cittĂ europee; a Parigi viene deposto un altro re; e ora le proteste scoppiano anche in Danimarca. Qui, nei teatri di Copenaghen, si radunano le folle per ascoltare Orla Lehmann e MeĂŻr Aron Goldschmidt che reclamano il suffragio universale maschile, una libera costituzione, e persino la repubblica. Il nazionalismo cresce impetuoso, riversandosi nei soliti canali dellâostilitĂ verso i vicini stranieri o talvolta assumendo anche forme nuove e imprevedibili. Nel momento in cui la monarchia assoluta vacilla, conservatori, progressisti e contadini cercano di acquisire tutto il potere che possono.
In gennaio muore re Cristiano VIII di Danimarca, preoccupato per il comunismo e per quello che potrebbe portare il nuovo anno. Kierkegaard lo sa perchĂ© lâanno prima Ăš stato ben tre volte ospite del vecchio re, ammiratore della sua opera, al Palazzo di Amalienborg; e ogni volta hanno parlato soprattutto di politica. Durante lâultima visita ha cercato di rassicurarlo sul fatto che questo «conflitto di classe» Ăš come una disputa tra fittavoli confinanti, che non deve turbare i proprietari delle loro terre e «lâintero movimento non toccherĂ i monarchi».5 Aveva anche aggiunto che era «un peccato essere un genio in una cittaducola»6⊠forse re Cristiano era fortunato ad avere a che fare solo con unâinsurrezione.
Eppure i timori del sovrano defunto hanno trovato conferma: pochi giorni prima, la mattina del 21 marzo 1848, migliaia di persone si sono riunite davanti al municipio di piazza Nytorv, sotto la finestra di Kierkegaard, reclamando a gran voce un cambiamento di regime.7 L.N. Hvidt, presidente del governo cittadino, guidava la folla in corteo verso il Palazzo di Christiansborg per sottoporre le richieste del popolo al dissoluto nuovo re, Federico VII, figlio maggiore di Cristiano VIII. La petizione del popolo alla Corona, redatta da Orla Lehmann, chiedeva una libera costituzione, e re Federico ha dovuto accettare di licenziare i ministri in vigore, costituendo sui due piedi un ministero temporaneo detto «Ministero del marzo». Adesso, mentre gli alberi che coronano i bastioni erbosi di Copenaghen dipingono la cittĂ di bianco e rosa con i loro boccioli, sul confine meridionale il vecchio conflitto tra danesi e tedeschi per i ducati dello Holstein e dello Schleswig sta divampando in guerra. E questo perchĂ©, osserva Kierkegaard, «al nuovo ministro occorre una guerra per restare al potere, gli occorre che i sentimenti nazionalistici vengano il piĂč possibile a fermento».8
Re Cristiano VIII di Danimarca nel 1845
«LĂ fuori tutto Ăš in fermento; la questione della nazionalitĂ tiene impegnati tutti; parlano tutti di sacrificare la vita e il sangue, forse sono anche intenzionati a farlo, ma sono sostenuti dallâonnipotenza dellâopinione pubblica», scrive questa settimana nel suo diario mentre i combattimenti guadagnano lo Jutland meridionale. «E cosĂŹ io resto seduto in una stanza tranquilla (senzâaltro presto sarĂČ tacciato di indifferenza verso la causa della nazione) â conosco un rischio soltanto, il rischio per la religiositĂ .»9
Ma nessuno sembra farci caso o capirlo. «Beâ, cosĂŹ Ăš la mia vita. Sempre equivocata. Nel punto in cui soffro, vengo frainteso â e detestato.» Ha alle spalle anni difficili che, lungi dallo svanire nel passato, si accumulano nel presente. E questo peso lo porta a riflettere con maggiore intensitĂ sulla propria infelicitĂ . I fatti strazianti del 1846 â i mesi della pubblica umiliazione e dello scherno â hanno modificato in maniera decisiva il suo rapporto con la cittĂ e la sua visione del mondo. A volte si sottopone a una «pressione immane», si sente fisicamente cosĂŹ debole, che gli sembra di morire. E benchĂ© scrivere sia un fardello, solo nella scrittura trova sollievo: qui a casa, soprattutto nella tranquillitĂ delle ore notturne, le parole fluiscono libere dalla sua penna, pensieri scorrono e danzano gioiosi sulla pagina aperta, non ancora stampata e rilegata, non ancora svelata agli innumerevoli e imprevedibili occhi del pubblico. Spesso rientra dalla sua passeggiata giornaliera e va diretto alla scrivania, con cappello e cappotto ancora indosso, mentre nuove frasi scaturiscono dalla sua mano. E scrive senza smettere di camminare, su e giĂč, sentendo il ritmo della sua prosa. In ogni stanza ci sono carta, penne e inchiostro: raffinata carta da lettera di formato in quarto, ripiegata e cucita in libretti dal suo rilegatore; moderne penne in acciaio, e matite per le correzioni; inchiostro nero di buona qualitĂ . Lavora fino a notte fonda, le sue finestre rilucono nella piazza deserta.10
Ha trascorso le ultime settimane a Nytorv dedicandosi a una nuova opera, La malattia mortale. Ă un manuale diagnostico per anime smarrite, in cui espone la sua filosofia sullâesistenza umana in maniera piĂč lucida e diretta di quanto abbia mai fatto in nessunâopera precedente. Nelle pagine introduttive asserisce che gli uomini non sono semplicemente corpi e menti, bensĂŹ esseri spirituali in relazione con una forza superiore. La vita spirituale, tuttavia, non ci viene fornita pronta allâuso e magari anche giĂ matura, come avviene per il corpo: ognuno affronta il compito di diventare se stesso. CiĂČ significa vivere ogni momento in rapporto con Dio, tornando e ritornando di continuo allâorigine eterna del nostro essere. «Si parla tanto di vite sprecate: ma sprecata Ăš soltanto la vita di quellâuomo che cosĂŹ la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventĂČ mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come âioâ, oppure â ed Ăš lo stesso â perchĂ© mai si rese conto che esiste un Dio e che egli, proprio egli, il suo io, esiste di fronte a questo Dio: questa conquista dellâinfinitĂ che non si consegue se non attraverso la disperazione.»11
SĂŹ: la disperazione Ăš dono, Ăš beatitudine, perchĂ© segnala il collegamento dellâessere umano con Dio, cioĂš la sua massima realizzazione. E tuttavia Ăš anche una maledizione, perchĂ© Ăš lâintensitĂ della sofferenza a dare la misura della profonditĂ dellâanima umana. «La disperazione Ăš un vantaggio o una mancanza? Da un punto di vista puramente dialettico, lâuna e lâaltra cosa. Se ci si volesse fermare sul pensiero astratto della disperazione, senza considerare lo stato di una persona disperata, si dovrebbe dire: Ăš un immenso vantaggio. La possibilitĂ di questa malattia Ăš il vantaggio dellâuomo di fronte allâanimale; e questo vantaggio lo distingue in tuttâaltro modo che non lâandatura eretta, poichĂ© indica châegli Ăš infinitamente eretto e elevato, cioĂš che Ăš spirito. [âŠ] Dunque, poter disperare Ăš un vantaggio infinito; eppure esser disperato non Ăš soltanto la maggior disgrazia e miseria ma Ăš la perdizione».12
E questa ambigua malattia spirituale, per quanto lui ne sappia, Ăš universale; se Ăš vero infatti che Kierkegaard puĂČ guardare solo nella sua anima, Ăš vero anche che meglio conosce se stesso, e piĂč scorge il riflesso della propria disperazione negli altri.
Essere disperati significa perdere il proprio vero sĂ©, e chi capisce di soffrire di questa malattia agogna una cura. Eppure, lui ha osservato che la maggior parte delle persone si smarrisce in questo mondo senza neppure rendersene conto: «Il piĂč grande pericolo, quello di perdere se stesso, puĂČ nel mondo passare cosĂŹ inosservato, piĂč di ogni altra perdita: della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie ecc., uno se ne accorge certamente.»14 E infatti il mondo considera questa carenza spirituale come il dono di una vita felice e di successo: «Proprio perdendo se stesso un simile uomo si Ăš perfezionato per partecipare al meglio al commercio quotidiano; anzi, per far fortuna nel mondo. Qui non riscontra alcun intoppo, alcuna difficoltĂ per il proprio sĂ© e i suoi infiniti movimenti; egli Ăš liscio come un ciottolo di fiume, courant come moneta in corso. Nessuno si sogna di ritenerlo disperato, anzi Ăš proprio un uomo come si deve.»
Questa visione del mondo Ăš perversa, paradossale, involontariamente ironica. Per vanitosi e presuntuosi che possano essere gli uomini â e comunque nel mondo buona parte di questi atteggiamenti sono incoraggiati â proprio con questa mondanitĂ , che respinge la loro piĂč alta vocazione spirituale, sminuiscono se stessi. Qui Kierkegaard opta per una metafora che illustri le presenti circostanze e chiede al suo lettore di pensare a: