Kierkegaard
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Kierkegaard

L'inquieto filosofo del cuore

Clare Carlisle

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L'inquieto filosofo del cuore

Clare Carlisle

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Über dieses Buch

Innovativa e commovente, questa biografia presenta l'inquieta vita di Kierkegaard, «Socrate della Cristianità» che, come diceva lui stesso, viveva la vita in avanti, ma la capiva soltanto a ritroso. SĂžren Kierkegaard, uno dei filosofi moderni piĂč appassionanti e impegnativi, considerato oggi il padre dell'esistenzialismo, per i suoi contemporanei era soprattutto un «filosofo del cuore». Per oltre un decennio, a cavallo tra gli anni '40 e '50 dell'Ottocento, dalla sua penna scaturiscono scritti che analizzano amore e sofferenza, coraggio e inquietudine, anelito religioso e sfida alla religione, originando un nuovo stile filosofico radicato nel dramma interiore dell'essere «umani». Mentre il Cristianesimo sembra attraversare come un sonnambulo un mondo in trasformazione, a sorpresa Kierkegaard rivela la sua forza spirituale mettendo a nudo la povertĂ  della religione ufficiale. La sua creativitĂ  irrequieta viene continuamente rinfocolata dai fallimenti personali, a cominciare dal ricordo della relazione con la giovane Regine Olsen, prima promessa sposa e poi abbandonata per dedicarsi interamente alla scrittura. BenchĂ© afflitto dalla pressione della fama, sceglie deliberatamente di vivere nell'affollata Copenaghen dove tutti lo conoscono, ma dove ha l'impressione che nessuno lo capisca. E quando, a 42 anni, crolla esausto sta ancora approfondendo la questione dell'esistenza: come essere «umani» in questo mondo.

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Information

Verlag
Hoepli
Jahr
2020
ISBN
9788820398453
Parte seconda
1848-1813: la vita compresa a ritroso
«Votato dall’infanzia a una vita di pene come a pochi forse Ăš dato appena immaginare; immerso nella melanconia piĂč profonda e da essa risospinto alla disperazione, io compresi me stesso nello scrivere.» (Diario di SĂžren Kierkegaard; 1517)
Capitolo quinto
Imparare a essere umani: lezione prima
La casa Ăš silenziosa e lui Ăš in piedi vicino alla grande finestra che dĂ  su Nytorv; il fumo sale dalla sua pipa. Il chiaro di luna di questa tersa notte primaverile bagna di argento la grande piazza in ombra. Verso sinistra, sopra i tetti, si distingue – imponente e piĂč scuro del cielo – il campanile della Chiesa di Nostra Signora. Siamo alla fine di marzo del 1848; quasi cinque anni sono passati da quando ha lasciato Berlino, fresco di fama, pieno di fiducia e ambizioni, con La ripetizione e metĂ  di Timore e tremore dentro la sua valigia. E sono passati quasi trentacinque anni da quando Ăš nato in questa casa. Sebbene i suoi genitori fossero di origini contadine, il padre si era arricchito abbastanza da acquistare una delle abitazioni piĂč invidiabili di Copenaghen. A SĂžren da bambino capitava spesso di starsene proprio quassĂč, non visto, a guardare i passanti. Allora, come oggi, sorvegliava il mondo da questo osservatorio privilegiato, con orgoglio segretamente misto alla vergogna per le sue umili origini.
I suoi primi ventiquattro anni erano trascorsi in questa elegante dimora di piazza Nytorv, accanto al municipio e al tribunale: ampie stanze che erano state casa sua prima che si formasse una memoria, prima che imparasse il nome delle cose, prima che cominciasse a porre domande – un luogo preistorico e mitico, che lo aveva plasmato in un modo che servirebbe una vita a scandagliare.
Da quattro anni, cioĂš dal 1844, era tornato a vivere lĂŹ. In quella stanza aveva preso forma quella che lui ora chiama «opera d’autore» e nel suo armadio in palissandro conserva pile di suoi libri: due copie di ciascuno, stampati su pergamena «uno per lei, e uno per me».1 Nel corso di questi quattro anni pensa spesso di abbandonare la scrittura e di diventare pastore in «una sperduta parrocchia di campagna» dove lo avrebbero lasciato in pace consentendogli di «piangere i suoi peccati».2 Invece sforna un libro dietro l’altro. Volumetti di discorsi religiosi e opere brevi ma intense come Briciole di filosofia e Il concetto dell’angoscia, seguiti dall’enorme Stadi sul cammino della vita e dalla Postilla conclusiva non scientifica. In ogni libro si ripropone il dilemma se interrompere o meno la sua attivitĂ  letteraria; la Postilla conclusiva, pubblicata nel 1846, pone fine esplicitamente al dilemma e termina con una «prima e ultima spiegazione» in cui lui, S. Kierkegaard, riconosce di essere l’autore delle opere attribuite ai suoi vari pseudonimi. Ma la ponderosa Postilla Ăš presto seguita da Due epoche, un libro mascherato da recensione letteraria, e l’anno dopo da Atti dell’amore, opera voluminosa scritta sotto forma di discorsi. Non sa ancora se la fine della sua attivitĂ  di scrittore sia dietro o davanti a lui; in ogni caso scrive senza tregua.
Nel frattempo per sostenerla, questa attività, ha già speso gran parte della fortuna paterna; non solo per stampare centinaia di copie di ogni suo libro e assicurarsi la collaborazione di Israel Levin come segretario, ma anche per procurarsi tutto il necessario alla vita di scrittore: servitori, buon cibo, ristoranti, botteghe del caffù, sigari, libri e rilegature, carrozze a noleggio quando sente l’esigenza di lasciare la città per schiarirsi le idee. L’anno prima (1847) aveva venduto gli ultimi titoli ereditati dal padre, perdendo così i benefici di una rendita sicura. A dicembre si procura contante alienando la casa di famiglia, dove continuerà ad abitare come affittuario per i primi tre mesi del 1848, in attesa che termini quel lungo e buio inverno.3 Frattanto Anders, il domestico che si occupa delle incombenze di casa, imballa il contenuto della libreria dentro casse di legno che dispone ordinatamente lungo le pareti. Gli inediti – articoli e diari – trovano posto in scatole di latta (caso mai scoppiasse un incendio) a loro volta sistemate sopra le casse dei libri: Anders sa che sono le prime da salvare in caso di incendio.
Quando Kierkegaard vende la casa prevede di usare una parte dei ricavi per viaggiare un paio d’anni: Ăš stufo di Copenaghen. Qui tutti lo conoscono e nessuno lo capisce. Spera che la lontananza possa mettere un freno a quel ciclo continuo di produzione-pubblicazione, cosĂŹ logorante e angoscioso, e tuttavia compulsivo. Ma poi si rende conto che viaggiare rischia di stimolare ulteriormente la sua creativitĂ , come giĂ  era successo durante il primo inquieto ed emozionante soggiorno a Berlino, quando ha iniziato a scrivere. PerciĂČ investe una parte del denaro in obbligazioni reali e alla fine di gennaio sottoscrive un oneroso contratto d’affitto per un appartamento al primo piano all’angolo tra Rosenborggade e Tornebuskegade, appena entro le mura settentrionali della cittĂ  «che mi ha allettato a lungo in un modo davvero singolare e che mi sono detto spesso che era l’unica che potesse piacermi».4 È una residenza ampia e moderna, con sei finestre al bel Ă©tage, lato nord-est, su Tornebuskegade, e quattro affacciate a sud-ovest su Rosenborggade. TraslocherĂ  in aprile, ormai tra pochi giorni. Gli piacerebbe lasciare la cittĂ  e ritirarsi in un posto tranquillo – ma crede che sia suo dovere restare nel mondo, nel luogo che Dio gli ha assegnato: qui, nella sua cittĂ  natale, sotto gli occhi di tutti.
Mentre Kierkegaard, a una finestra al primo piano del numero 2 di Nyrtov, medita sul suo futuro e ripensa continuamente al suo passato, la Cristianità ù ovunque attraversata da correnti rivoluzionarie che montano e si gonfiano. In febbraio Il manifesto del Partito Comunista ù pubblicato a Londra e poi distribuito in rapida successione in altre città europee; a Parigi viene deposto un altro re; e ora le proteste scoppiano anche in Danimarca. Qui, nei teatri di Copenaghen, si radunano le folle per ascoltare Orla Lehmann e Meïr Aron Goldschmidt che reclamano il suffragio universale maschile, una libera costituzione, e persino la repubblica. Il nazionalismo cresce impetuoso, riversandosi nei soliti canali dell’ostilità verso i vicini stranieri o talvolta assumendo anche forme nuove e imprevedibili. Nel momento in cui la monarchia assoluta vacilla, conservatori, progressisti e contadini cercano di acquisire tutto il potere che possono.
In gennaio muore re Cristiano VIII di Danimarca, preoccupato per il comunismo e per quello che potrebbe portare il nuovo anno. Kierkegaard lo sa perchĂ© l’anno prima Ăš stato ben tre volte ospite del vecchio re, ammiratore della sua opera, al Palazzo di Amalienborg; e ogni volta hanno parlato soprattutto di politica. Durante l’ultima visita ha cercato di rassicurarlo sul fatto che questo «conflitto di classe» Ăš come una disputa tra fittavoli confinanti, che non deve turbare i proprietari delle loro terre e «l’intero movimento non toccherĂ  i monarchi».5 Aveva anche aggiunto che era «un peccato essere un genio in una cittaducola»6
 forse re Cristiano era fortunato ad avere a che fare solo con un’insurrezione.
Eppure i timori del sovrano defunto hanno trovato conferma: pochi giorni prima, la mattina del 21 marzo 1848, migliaia di persone si sono riunite davanti al municipio di piazza Nytorv, sotto la finestra di Kierkegaard, reclamando a gran voce un cambiamento di regime.7 L.N. Hvidt, presidente del governo cittadino, guidava la folla in corteo verso il Palazzo di Christiansborg per sottoporre le richieste del popolo al dissoluto nuovo re, Federico VII, figlio maggiore di Cristiano VIII. La petizione del popolo alla Corona, redatta da Orla Lehmann, chiedeva una libera costituzione, e re Federico ha dovuto accettare di licenziare i ministri in vigore, costituendo sui due piedi un ministero temporaneo detto «Ministero del marzo». Adesso, mentre gli alberi che coronano i bastioni erbosi di Copenaghen dipingono la cittĂ  di bianco e rosa con i loro boccioli, sul confine meridionale il vecchio conflitto tra danesi e tedeschi per i ducati dello Holstein e dello Schleswig sta divampando in guerra. E questo perchĂ©, osserva Kierkegaard, «al nuovo ministro occorre una guerra per restare al potere, gli occorre che i sentimenti nazionalistici vengano il piĂč possibile a fermento».8
Images
Re Cristiano VIII di Danimarca nel 1845
«LĂ  fuori tutto Ăš in fermento; la questione della nazionalitĂ  tiene impegnati tutti; parlano tutti di sacrificare la vita e il sangue, forse sono anche intenzionati a farlo, ma sono sostenuti dall’onnipotenza dell’opinione pubblica», scrive questa settimana nel suo diario mentre i combattimenti guadagnano lo Jutland meridionale. «E cosĂŹ io resto seduto in una stanza tranquilla (senz’altro presto sarĂČ tacciato di indifferenza verso la causa della nazione) – conosco un rischio soltanto, il rischio per la religiositĂ .»9
Ma nessuno sembra farci caso o capirlo. «Be’, cosĂŹ Ăš la mia vita. Sempre equivocata. Nel punto in cui soffro, vengo frainteso – e detestato.» Ha alle spalle anni difficili che, lungi dallo svanire nel passato, si accumulano nel presente. E questo peso lo porta a riflettere con maggiore intensitĂ  sulla propria infelicitĂ . I fatti strazianti del 1846 – i mesi della pubblica umiliazione e dello scherno – hanno modificato in maniera decisiva il suo rapporto con la cittĂ  e la sua visione del mondo. A volte si sottopone a una «pressione immane», si sente fisicamente cosĂŹ debole, che gli sembra di morire. E benchĂ© scrivere sia un fardello, solo nella scrittura trova sollievo: qui a casa, soprattutto nella tranquillitĂ  delle ore notturne, le parole fluiscono libere dalla sua penna, pensieri scorrono e danzano gioiosi sulla pagina aperta, non ancora stampata e rilegata, non ancora svelata agli innumerevoli e imprevedibili occhi del pubblico. Spesso rientra dalla sua passeggiata giornaliera e va diretto alla scrivania, con cappello e cappotto ancora indosso, mentre nuove frasi scaturiscono dalla sua mano. E scrive senza smettere di camminare, su e giĂč, sentendo il ritmo della sua prosa. In ogni stanza ci sono carta, penne e inchiostro: raffinata carta da lettera di formato in quarto, ripiegata e cucita in libretti dal suo rilegatore; moderne penne in acciaio, e matite per le correzioni; inchiostro nero di buona qualitĂ . Lavora fino a notte fonda, le sue finestre rilucono nella piazza deserta.10
Ha trascorso le ultime settimane a Nytorv dedicandosi a una nuova opera, La malattia mortale. È un manuale diagnostico per anime smarrite, in cui espone la sua filosofia sull’esistenza umana in maniera piĂč lucida e diretta di quanto abbia mai fatto in nessun’opera precedente. Nelle pagine introduttive asserisce che gli uomini non sono semplicemente corpi e menti, bensĂŹ esseri spirituali in relazione con una forza superiore. La vita spirituale, tuttavia, non ci viene fornita pronta all’uso e magari anche giĂ  matura, come avviene per il corpo: ognuno affronta il compito di diventare se stesso. CiĂČ significa vivere ogni momento in rapporto con Dio, tornando e ritornando di continuo all’origine eterna del nostro essere. «Si parla tanto di vite sprecate: ma sprecata Ăš soltanto la vita di quell’uomo che cosĂŹ la lasciava passare, ingannato dalle gioie della vita e dalle sue preoccupazioni, in modo che non diventĂČ mai, con una decisione eterna, consapevole di se stesso come spirito, come ‘io’, oppure – ed Ăš lo stesso – perchĂ© mai si rese conto che esiste un Dio e che egli, proprio egli, il suo io, esiste di fronte a questo Dio: questa conquista dell’infinitĂ  che non si consegue se non attraverso la disperazione.»11
SĂŹ: la disperazione Ăš dono, Ăš beatitudine, perchĂ© segnala il collegamento dell’essere umano con Dio, cioĂš la sua massima realizzazione. E tuttavia Ăš anche una maledizione, perchĂ© Ăš l’intensitĂ  della sofferenza a dare la misura della profonditĂ  dell’anima umana. «La disperazione Ăš un vantaggio o una mancanza? Da un punto di vista puramente dialettico, l’una e l’altra cosa. Se ci si volesse fermare sul pensiero astratto della disperazione, senza considerare lo stato di una persona disperata, si dovrebbe dire: Ăš un immenso vantaggio. La possibilitĂ  di questa malattia Ăš il vantaggio dell’uomo di fronte all’animale; e questo vantaggio lo distingue in tutt’altro modo che non l’andatura eretta, poichĂ© indica ch’egli Ăš infinitamente eretto e elevato, cioĂš che Ăš spirito. [
] Dunque, poter disperare Ăš un vantaggio infinito; eppure esser disperato non Ăš soltanto la maggior disgrazia e miseria ma Ăš la perdizione».12
E questa ambigua malattia spirituale, per quanto lui ne sappia, Ăš universale; se Ăš vero infatti che Kierkegaard puĂČ guardare solo nella sua anima, Ăš vero anche che meglio conosce se stesso, e piĂč scorge il riflesso della propria disperazione negli altri.
Come il medico puĂČ certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano, cosĂŹ, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo che non sia un po’ disperato, che non porti in sĂ© un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia per qualcosa ch’egli non conosce, o non osa ancora conoscere, un’angoscia di una possibilitĂ  dell’esistenza o un’angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo, cova anch’egli una malattia, cova e porta con sĂ© una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’ù dentro.13
Essere disperati significa perdere il proprio vero sĂ©, e chi capisce di soffrire di questa malattia agogna una cura. Eppure, lui ha osservato che la maggior parte delle persone si smarrisce in questo mondo senza neppure rendersene conto: «Il piĂč grande pericolo, quello di perdere se stesso, puĂČ nel mondo passare cosĂŹ inosservato, piĂč di ogni altra perdita: della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie ecc., uno se ne accorge certamente.»14 E infatti il mondo considera questa carenza spirituale come il dono di una vita felice e di successo: «Proprio perdendo se stesso un simile uomo si Ăš perfezionato per partecipare al meglio al commercio quotidiano; anzi, per far fortuna nel mondo. Qui non riscontra alcun intoppo, alcuna difficoltĂ  per il proprio sĂ© e i suoi infiniti movimenti; egli Ăš liscio come un ciottolo di fiume, courant come moneta in corso. Nessuno si sogna di ritenerlo disperato, anzi Ăš proprio un uomo come si deve.»
Questa visione del mondo Ăš perversa, paradossale, involontariamente ironica. Per vanitosi e presuntuosi che possano essere gli uomini – e comunque nel mondo buona parte di questi atteggiamenti sono incoraggiati – proprio con questa mondanitĂ , che respinge la loro piĂč alta vocazione spirituale, sminuiscono se stessi. Qui Kierkegaard opta per una metafora che illustri le presenti circostanze e chiede al suo lettore di pensare a:
una casa che abbia cantina, pianterreno e primo piano, abitata o ammobiliata in vista della reale e possibile differenza sociale tra gli inquilini di ciascun piano; e se vogliamo paragonare l’esistenza umana a una tale casa: ecco allora che purtroppo la maggior parte degli uomini si trova nella situazione triste e ridicola di coloro che, nella propria casa, preferiscono abitare in cantina. Ogni uomo ù una sintesi di corpo e anima destinata a essere spirito, questa ù la casa; ma l’uomo preferisce stare in cantina, cioù nella determinazione della ...

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