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Come una nuova economia può salvare il pianeta

Jason Hickel

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Come una nuova economia può salvare il pianeta

Jason Hickel

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Questo è un libro sul surriscaldamento globale, sulla devastazione degli ecosistemi, sull'estinzione di massa ma non sull'Apocalisse. È, anzi, un libro sulla speranza. Possiamo ancora salvare il mondo, possiamo ancora cambiare il nostro destino, possiamo ancora sopravvivere all'antropocene. Dobbiamo però ripensare completamente il nostro modo di produrre e di consumare, abbandonando il paradigma della crescita economica infinita e dell'accumulazione, superando lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Jason Hickel descrive esattamente come potrebbe essere questo mondo nuovo e traccia le linee di un'economia che, superato il capitalismo, possa assicurare maggiore uguaglianza tra gli esseri umani e, al contempo, evitare il collasso sociale e ambientale. Un libro che è un grido d'allarme ma anche una luce in fondo al tunnel: siamo ancora in tempo. Ma dobbiamo sbrigarci.

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Information

Jahr
2021
ISBN
9788865768976
prima parte
Prendere di più per avere di meno
1. Capitalismo: una storia di creazione
L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime.
Max Horkheimer e Theodor Adorno
Noi esseri umani siamo su questo pianeta da quasi trecentomila anni, pienamente evoluti, pienamente intelligenti, esattamente come siamo oggi. Per il 97% circa di questo periodo, i nostri antenati hanno vissuto in relativa armonia con gli ecosistemi della Terra. Non significa che le prime società umane non modificassero gli ecosistemi, e non significa che non ci fossero problemi. Sappiamo, per esempio, che alcune società contribuirono alla scomparsa di parte dell’antica megafauna del pianeta, come i pelosi mammut, i bradipi giganti e i felini dai denti a sciabola. Ma non hanno mai scatenato nulla di comparabile al collasso ecologico su più fronti a cui stiamo assistendo oggi.
È stato solo con l’ascesa del capitalismo negli ultimi secoli, e con l’impressionante accelerazione dell’industrializzazione dagli anni cinquanta del secolo scorso, che la situazione, su scala planetaria, ha iniziato a sbilanciarsi. Una volta che ci rendiamo conto di questa cosa, cambia il nostro modo di ragionare sul problema. Noi chiamiamo quest’epoca umana l’Antropocene, ma in realtà questa crisi non ha nulla a che fare con gli esseri umani in quanto tali. Ha a che fare con il predominio di un particolare sistema economico: un sistema economico che ha origini recenti, che si è sviluppato in luoghi specifici e in un momento storico specifico e che non è stato adottato nella stessa misura da tutte le società. Come ha sottolineato il sociologo Jason Moore, l’epoca in cui stiamo vivendo non è l’Antropocene: è il Capitalocene.1
È una cosa che all’inizio possiamo far fatica ad accettare. La tendenza a considerare il capitalismo come qualcosa di scontato è talmente forte che partiamo semplicemente dal presupposto che sia qualcosa che più o meno è sempre esistito, almeno in forma embrionale. Quando pensiamo al capitalismo, pensiamo a cose come mercati e commerci, che ci sembrano abbastanza naturali e innocenti. Ma è una falsa equivalenza. I mercati esistono da molte migliaia di anni, in tempi e luoghi differenti. Il capitalismo, invece, è relativamente recente, un fenomeno vecchio di appena cinque secoli o giù di lì.2 Il tratto distintivo del capitalismo non è la presenza di mercati, ma il fatto che sia organizzato intorno al principio di una crescita perpetua. È un sistema che attira all’interno di circuiti di accumulazione quantità di natura e lavoro umano in continua espansione. E funziona secondo una formula semplice e lineare: prendere di più di quello che si dà.
La crisi ecologica è un’inevitabile conseguenza di questo sistema. Il capitalismo ci ha portati a una situazione di squilibrio con il mondo naturale. Una volta che ci rendiamo conto di questo fatto, nuovi interrogativi vengono alla mente: come è potuto succedere? Da dove è venuto il capitalismo? Perché si è affermato?
La versione tradizionale è che comportarsi come operatori egoisti e tesi a massimizzare il vantaggio (l’homo oeconomicus, come lo definiscono), quegli automi a caccia di profitto che incontriamo nei manuali di microeconomia, è nella nostra «natura». Ci hanno insegnato che questa tendenza naturale ha spezzato pian piano i lacciuoli del feudalesimo, messo fine alla servitù della gleba e dato origine a ricchezza e prosperità per tutti. Questa è la nostra storia, il nostro Racconto delle Origini. E viene ripetuto talmente spesso che tutti lo accettano: così, semplicemente. Ma la cosa straordinaria di questa storia che ha messo radici tanto profonde nella nostra cultura è che è falsa. Il capitalismo non è semplicemente «emerso». Non c’è stata nessuna «transizione» fluida e naturale dal feudalesimo al capitalismo. Gli storici hanno una storia molto più interessante da raccontare, una storia a tinte molto più fosche che rivela alcune verità sorprendenti sull’effettivo funzionamento della nostra economia e ci fornisce indizi su come possiamo cambiarla.
Una rivoluzione dimenticata
A scuola tutti imparano che il feudalesimo era un sistema brutale, che produceva una miseria umana terrificante. Ed è vero. Le terre erano sotto il controllo di nobili e signori, e le persone che ci vivevano – i servi della gleba – erano costrette a offrire loro un tributo sotto forma di fitti, tasse, decime e corvée. Ma contrariamente alle narrazioni dominanti, non fu l’ascesa del capitalismo a mettere fine a questo sistema. Quella vittoria fu merito, e non è cosa di poco conto, della lotta coraggiosa combattuta da una lunga tradizione di rivoluzionari comuni, che per qualche ragione sono stati quasi completamente dimenticati.
All’inizio del Trecento il popolo, in tutta Europa, iniziò a ribellarsi contro il sistema feudale, rifiutandosi di sottostare alle corvée, rigettando le tasse e le decime che nobili e Chiesa gli estorcevano e cominciando a pretendere un controllo diretto sulla terra che lavoravano. Non erano solo piccole rimostranze che spuntavano fuori qua e là, era una resistenza organizzata. E in certi casi crebbe fino a diventare un conflitto militare aperto. Nel 1323 contadini e operai presero le armi nelle Fiandre e diedero vita a una battaglia che durò cinque anni, prima di essere sconfitti dall’aristocrazia fiamminga. Ribellioni analoghe scoppiarono in tutta Europa: a Bruges, a Gand, a Firenze, a Liegi e a Parigi.3
Queste prime ribellioni ebbero scarso successo. Nella maggior parte dei casi, furono schiacciate da eserciti ben armati. E quando la Peste nera colpì, nel 1347, le cose apparentemente non fecero che peggiorare: l’epidemia spazzò via un terzo della popolazione europea, scatenando una crisi sociale e politica senza precedenti.
In seguito a questo disastro, però, successe qualcosa di inatteso. Dal momento che la manodopera scarseggiava e le terre da coltivare abbondavano, improvvisamente contadini e operai si ritrovarono con un maggior potere contrattuale. Ebbero la possibilità di chiedere fitti più bassi per le terre e compensi più alti per il loro lavoro. I nobili si ritrovarono sulla difensiva e gli equilibri di potere, per la prima volta da generazioni, si spostarono a favore del popolo, che iniziò a rendersi conto che questa era la sua occasione: aveva l’opportunità di trasformare le basi stesse dell’ordine sociale e politico. Acquisì più speranza e fiducia nelle sue possibilità, e le ribellioni si estesero.4
In Inghilterra, Wat Tyler guidò una rivolta contadina contro il feudalesimo nel 1381, ispirata dal predicatore radicale John Ball, famoso per il suo appello: «È giunta l’ora, se lo vorrete, in cui potrete scuotervi di dosso il giogo della servitù e riconquistare la libertà». Nel 1382 il Tumulto dei Ciompi, a Firenze, riuscì a impadronirsi del potere. A Parigi, nel 1413, prese il potere una «democrazia di lavoratori». E nel 1450 un esercito di contadini e operai inglesi marciò su Londra in quella che sarebbe passata alla storia come la Rivolta di Jack Cade. Intere regioni insorgevano in questo periodo, formando assemblee e reclutando eserciti.
A metà del xv secolo scoppiavano guerre fra aristocratici e contadini in tutta l’Europa occidentale, e con la crescita dei movimenti di ribellione si allargavano anche le loro richieste. I rivoltosi non erano interessati ad apportare qualche ritocco al sistema: volevano una rivoluzione, né più né meno. Secondo la storica Silvia Federici, esperta dell’economia politica del Medioevo, «i ribelli non si accontentarono di porre dei limiti al potere feudale o di ottenere migliori condizioni di vita. Il loro scopo era piuttosto mettere fine al potere dei signori»5.
Anche se nella maggior parte dei casi le singole rivolte vennero domate (Wat Tyler e John Ball furono giustiziati insieme a 1500 dei loro seguaci), il movimento alla fine riuscì ad abbattere il sistema della servitù della gleba in gran parte del continente. In Inghilterra, fu cancellato quasi completamente in seguito alla rivolta del 1381. I servi della gleba divennero liberi contadini che si mantenevano con i prodotti della loro terra e avevano libero accesso ai beni comuni: terre da pascolo per il bestiame, foreste per la selvaggina e il legname, corsi d’acqua per la pesca e l’irrigazione. Se volevano guadagnare di più, andavano in cerca di un lavoro retribuito, ma era raro che lo facessero perché non avevano altra scelta. In Germania, i contadini arrivarono a controllare il 90% delle terre del paese. E anche dove i rapporti feudali rimasero immutati le condizioni di vita per i contadini migliorarono significativamente.
Quando il feudalesimo si sgretolò, i contadini liberi iniziarono a costruire un’alternativa chiara: una società egualitaria e cooperativa radicata nei principi dell’autosufficienza locale. I risultati di questa rivoluzione furono sbalorditivi, dal punto di vista del benessere della gente comune. I salari crebbero a livelli mai visti prima, raddoppiando o addirittura triplicando nella maggior parte delle aree geografiche, e in alcuni casi perfino sestuplicando.6 Gli affitti scesero, i prodotti alimentari divennero meno costosi e la nutrizione migliorò. I lavoratori riuscivano a negoziare orari di lavoro più brevi e giorni di riposo nel fine settimana, maggiori benefici accessori come i pasti in orario di lavoro e indennità per ogni miglio che dovevano percorrere per andare e venire dal lavoro. Anche i salari delle donne crebbero, riducendo il forte divario di genere nelle retribuzioni che esisteva sotto il feudalesimo. Gli storici hanno definito il periodo dal 1350 al 1500 l’età dell’oro del proletariato europeo.7
Fu un’età dell’oro anche per l’ecologia dell’Europa. Il sistema feudale era un disastro dal punto di vista ambientale. I signori mettevano pesantemente sotto pressione i contadini per sfruttare al massimo le terre e le foreste senza dare nulla in cambio. Questo aveva determinato una crisi di deforestazione, sovrapascolamento e graduale declino della fertilità dei terreni. Ma il movimento politico che emerse dopo il 1350 invertì queste tendenze e inaugurò un periodo di rigenerazione ecologica. Una volta conquistato il controllo diretto delle terre, i contadini liberi furono in grado di mantenere un rapporto più reciproco con la natura, gestendo collettivamente pascoli e beni comuni attraverso assemblee democratiche, con regole ben precise per la coltivazione della terra, il pascolo e l’uso delle foreste.8 I terreni in Europa cominciarono a riprendersi. Le foreste tornarono a espandersi.
La reazione
Come si può immaginare, le élite europee non erano contente della piega che avevano preso gli eventi. Consideravano quei salari alti «scandalosi» ed erano irritate all’idea che i popolani accettassero di lavorare solo per brevi periodi o mansioni limitate, smettendo di farlo non appena avevano guadagnato abbastanza da soddisfare i propri bisogni. «I servi adesso sono ...

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