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L'uomo e l'artista fuori dai cliché

María Ángeles Vitoria

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L'uomo e l'artista fuori dai cliché

María Ángeles Vitoria

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Pochi personaggi della storia sono stati oggetto di tanti studi e dibattiti come Michelangelo. Accanto a opere critiche e biografie d'incomparabile pregio, ce ne sono altre di pura fantasia che hanno diffuso l'immagine di un Michelangelo irritabile, nevrotico, asociale, schivo, esaurito, melanconico, frequentatore di bordelli, avido, celibe per scelta penitenziale. Questi eccessi stridono con i tratti evidenti e documentati dell'artista. Già a metà '500, nella Vita di Michelagnolo, Ascanio Condivi parlava del suo gran cuore, dell'elevata concezione dell'amore umano, della sua generosità e della sua profonda fede. Mal si accorda, del resto, l'opposta visione con l'estrema delicatezza della Pietà Vaticana e la possente devozione dei personaggi della Cappella Sistina. Com'era dunque realmente Michelangelo? Confrontando i dipinti e le sculture con le lettere e le poesie María Ángeles Vitoria ne restituisce in queste pagine un profilo autentico, libero dai cliché.

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Information

Verlag
Ares
Jahr
2021
ISBN
9788892980761

I

Michelangelo maestro

Quando contempliamo un paesaggio coperto di neve o ascoltiamo una sinfonia di Beethoven, quando ci troviamo davanti alla Vittoria di Samotracia o avvertiamo la tenerezza nello sguardo che una madre rivolge a suo figlio, in queste e in molte altre situazioni non solo siamo consapevoli di conoscere, vedere, udire o percepire una parte della realtà, ma siamo anche invasi da una sensazione di meraviglia e di ammirazione: è la bellezza, un primo messaggio che ci invia l’essenza delle cose, perché le guardiamo con quella profondità che termina in un godimento contemplativo.
Fin dall’antichità è stata chiamata bellezza questa specie di splendore visibile, manifestazione della concomitanza della verità e della bontà delle cose, che produce compiacimento in chi le contempla1. Sono uno splendore e un’armonia che appartengono per eccellenza alle cose divine.
Esiste una bellezza che è accessibile a tutti; ma certi sprazzi solo alcuni sono in grado di percepirli. L’artista è proprio colui che possiede un talento peculiare che gli permette di intuire quei riflessi della bellezza che altri non vedono, e sa anche mostrarli agli altri mediante le sue opere d’arte. Scolpire una statua, dipingere un quadro, non è un semplice «scrutare» nella materia: è un «portare alla luce» una delle sue forme, che rimaneva opaca a tutti, ma non all’artista che ha saputo intuirla. In tal senso Balzac diceva che la missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla, narrarla; in altre parole, svelare la ricchezza dell’armonia e della proporzione di ciò che è naturale. Ma, a che cosa è dovuta questa capacità dell’artista? È alla portata di tutti, così che basterebbe addestrarsi in determinate tecniche per acquisirla?
Sin dai tempi antichi, in àmbito tanto pagano quanto cristiano, era di comune sentire la convinzione che gli artisti avessero ricevuto da Dio (o dagli dèi) un dono particolare per poter manifestare agli altri uomini una bellezza che aveva la sua origine radicale in Dio stesso. Omero, Virgilio e, in seguito, Dante e Tasso, cominciano i loro poemi invocando Dio e le muse. Michelangelo dice che al momento di nascere, durante il parto, gli fu data l’«idea» della bellezza, alla quale la sua arte si sarebbe dovuta conformare sempre2.
Nell’Italia del Rinascimento, periodo che ha in Michelangelo uno dei protagonisti principali, il neoplatonismo già permeato di idee cristiane vedeva in Dio la Bontà, la Verità e la Bellezza somme, attributi che si trovavano dispersi e come attenuati nelle realtà create. La bellezza esteriore dell’universo è il riflesso di una bellezza superiore, e così volge lo sguardo a una realtà che trascende la materia delle cose.
Marsilio Ficino, un umanista della corte dei Medici con il quale Michelangelo dialogò nel suo primo periodo fiorentino, in un suo commento al Simposio, definì la bellezza come lo splendore che emana dal volto di Dio e penetra ogni cosa. Pensava che le forme divine – i modelli sui quali erano state fatte le cose –, oltre che trovarsi nella materia, si trovassero anche nella mente dell’artista grazie a una sorta di rivelazione-intuizione, che era un dono del Cielo3.
In questa duplicità di idee, quella che aveva l’artista somigliava alla forma divina più che a quella che si trova nella natura. Per questo la buona pittura o la buona scultura, più che imitare la natura, la superavano, in quanto mostravano ancor meglio il modello divino.
Michelangelo fece proprie queste idee dell’ambiente neoplatonico che lo circondava4, dando loro un’espressione personale. È noto a tutti il suo modo di descrivere la genesi di una scultura: questa esiste in potenza nel blocco di marmo, ma è anche nella mente dell’artista. Tutto quello che egli fa nello scolpire è mettere a nudo questa idea, lavorando con le mani ma obbedendo alla mente5.
Quando gli domandarono come avesse fatto la scultura della Notte, destinata alle Tombe medicee, spiegò che si era limitato a togliere dal blocco di marmo i frammenti che impedivano di vederla. Per questo riteneva che modellare l’argilla – l’arte di aggregare – non fosse autentica scultura.
Mentre la maggior parte dei pittori nel realizzare le opere si atteneva a misure e proporzioni, Michelangelo cercava invece di liberare la forma contenuta nella materia seguendo fedelmente quello che aveva concepito in precedenza nella sua mente, senza attenersi a canoni prestabiliti. In una conversazione con Vittoria Colonna dice: «Le cose non si dipingono esattamente come si vedono, e questa libertà artistica è fondata soprattutto nella ragione»6.
Egli pensa che l’artista veda meglio la bellezza presente nella natura «guardandola» nel suo intimo. Non si astiene dall’osservazione e dallo studio della natura. Dice il Condivi:
Egli non solamente ha amata la bellezza umana, ma universalmente ogni cosa bella [...], il bello della natura scegliendo come l’api raccolgono il mel da’ fiori servendosene poi nelle sue opere7.
Così procedeva Michelangelo: quando doveva dipingere una figura umana, non copiava né imitava esattamente quello che vedeva, ma ne osservava molte e di ciascuna prendeva quello che gli sembrava più bello.
In uno dei suoi primi sonetti, scritto dialogando con l’Amore, dichiara la sua dipendenza da questa duplice fonte: la natura e ciò che avverte nel suo spirito:
Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi miei
Veggono ‘l ver della beltà, ch’aspiro,
O s’io l’ho dentro allor che, dov’io miro,
Veggio scolpito il viso di costei8.
E l’Amore risponde:
La beltà che tu vedi è ben da quella,
Ma crescie, poi ch’a miglior loco sale,
Se per gli occhi mortali all’alma corre.
Quivi si fa divina, onesta e bella,
Com’a sé simil vuol cosa immortale:
Questa e non quella agli occhi tuoi precorre9.
Poche volte l’artista restò soddisfatto del risultato ottenuto: pensava che l’immagine nella sua mente fosse più bella di quella che riusciva a riprodurre. Ecco perché distrusse o lasciò incompiute alcune sue opere.
Sappiamo che eliminò e rifece alcune figure degli affreschi della Sistina, che abbandonò mutilandola la cosiddetta Pietà fiorentina avendo scoperto un difetto in una venatura e che lasciò incompiuta la Pietà Rondanini.
Fra tutte le realtà della natura, la corporeità umana occupa un posto particolare nella produzione artistica di Michelangelo, perché è convinto che essa comunichi una bellezza che conduce più facilmente di qualsiasi altra via alla contemplazione del divino:
Colui che ‘l tutto fe’, fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le sue cose eccelse,
com’hà fatto or colla sua divin’arte10.
Da buon platonico, non considerò le forme belle del corpo e della natura fine a sé stesse. Cercò sempre di scolpire la luce divina attraverso la prefigurazione di forme terrestri. Nella realtà, il «bello» è Dio stesso, che si rende visibile all’uomo nelle cose del mondo.
Né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove
più che ‘n alcun leggiadro e mortale velo;
E quel sol amo, perch’in lui specchia11.
Si capisce così che questo splendore divino possiamo considerarlo come un certo tipo di conoscenza. Leonardo da Vinci era solito dire che la pittura – e l’arte in generale – era una forma suprema di conoscenza: un modo di conoscere differente da quello della logica discorsiva, più vicino all’intuizione e alla sensibilità.
L’arte è, a suo modo, una via di accesso alle realtà più profonde che riguardano il mondo e l’uomo è dunque, una via privilegiata verso Dio. Comunque, lo è unicamente se riesce ad avvicinarsi alle Idee, ai «modelli» ideati da Dio nel creare l’universo. Lì dove altre forme di comunicazione, come la filosofia e la teologia, incontrano difficoltà praticamente insuperabili, la bellezza della rappresentazione artistica spiana la via, l’addolcisce, la rende percorribile. L’affetto e l’attrazione che risveglia il bello offrono all’intelletto un percorso più agevole.
In particolare, l’arte e la religione sono state strettamente legate nel corso della storia. Come insegnava Savonarola12, l’arte svolge una funzione pedagogica, o meglio, evangelizzatrice: illustra le verità della fede. Michelangelo restò fedele a questa concezione. Nelle sue conversazioni con Vittoria Colonna affermava:
La pittura più eccelsa deve essere un riflesso, una imitazione di quanto Dio, col suo eterno amore e la sua sapienza, ha creato sia come esseri fatti a sua immagine e somiglianza, sia come animali e uccelli che sono meno belli.
Però allo stesso tempo il pittore deve aspirare alla perfezione che ogni tema richiede. A mio giudizio, la pittura che copia l’opera di Dio merita di essere considerata sublime e divina sia che rappresenti uomini, animali selvaggi qui sconosciuti, un umile pesce, un uccello o qualsiasi altra creatura [...].
Disegnare ognuno di questi soggetti secondo la natura di ciascuno è, secondo me, ricreare l’opera di Dio, immortale Creatore, e l’opera risultante sarà tanto più nobile e perfetta quanto più correttamente e sapientemente saprà rispecchiare tale realtà13.
Il vissuto della fede ha una dimensione di bellezza. Si tratta di un’esperienza nella quale sono presenti, come diceva Benedetto XVI, non solo «la mente e il cuore, ma anche i sensi mediante quegli altri aspetti del gusto estetico e della sensibilità umana che portano l’uomo a fruire della verità con tutto sé stesso, spirito, anima e corpo»14.
L’esigenza che ha l’arte di rispecchiare ciò che è divino e guidare a esso, Michelangelo l’avverte con particolare forza negli ultimi trent’anni di vita, a partire dal momento in cui dipinge il Giudizio e incontra Vittoria Colonna, una donna colta appartenente alla nobiltà15. In gioventù, l’esercizio del suo talento lo portava alla vanagloria. Con il passare del tempo andò incontro a una conversione profonda, dando all’arte un orientamento ancora più spirituale e cristiano. Capì anche che per realizzare ciò bisognava non solo essere un esperto, ma anche condurre una vita di pietà.
Per imitare in parte la venerata immagine di Nostro Signore, non è sufficiente essere un abile ed eccellente maestro. Credo che si debba essere inoltre un uomo dalla vita irreprensibile ed anche, per quanto possibile, un santo, affinché lo Spirito Santo ispiri l’intelletto [...], perché spesso succede che le immagini mal dipinte distraggono l’attenzione dei fedeli e fanno loro perdere la devozione, almeno a quelli che non ne hanno molta. Invece, quelle che sono divinamente dipinte eccitano la devozione dei poco devoti o li portano alla contemplazione e alle lacrime, e la loro austera bellezza ispira in loro grande reverenza e timore16.
Dopo queste considerazioni sull’arte, indispensabili per comprendere la profondità artistico-spirituale delle opere di Michelangelo, continuiamo ad addentrarci nella vita del maestro.

1. Brevi note sulla vita e le opere di Michelangelo

Michelangelo Buonarroti nacque a Caprese (Fig. 1), oggi provincia di Arezzo, il 6 marzo 1475 e morì a Roma il 18 febbraio 1564. Era il secondo figlio di Lodovico di Lionardo Buonarroti Simone, podestà di Chiusi e di Caprese, e di Francesca di Neri17. Lo battezzarono nella vicina chiesa di San Giovanni Battista, due giorni dopo18.
Poco dopo la nascita, la famiglia si trasferì a Settignano, nei pressi di Firenze. Sua madre, di natura malaticcia, morì quando il futuro artista aveva appena sei anni. Michelangelo cominciò ad andare a scuola, però preferiva frequentare le botteghe dei pittori.
La passione per l’arte, più che svilupparsi nel corso della sua esistenza, nacque con lui. Appena seppe servirsi delle mani cominciò a disegnare, ammaestrato dal pittore Francesco Granacci, al quale sarà sempre unito da grande amicizia.
Anche se suo padre aveva per lui altri progetti, alla fine, vedendo la determinazione e l’inclinazione del figlio per l’arte, lo autorizzò a 13 anni a entrare come apprendista di pittura nella bottega del Ghirlandaio. Lì compì i suoi primi passi facendo copie di alcuni disegni di Giotto e di Masaccio.
Un giorno il Ghirlandaio gli diede un suo disegno di una testa perché lo copiasse. Quando Michelangelo gli restituì un foglio con il disegno, gli apprendisti della bottega risero, perché a quel punto si scoprì che aveva copiato tanto bene la testa e invecchiato il foglio con tale arte, che il maestro non era stat...

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