Emilio Salgari. Il Capitano della Fantasia
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Felice Pozzo

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Felice Pozzo

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Il presente studio dello storico salgariano Felice Pozzo pone l'attenzione sulla prolifica e fondamentale attività svolta a Genova per l'editore Anton Donath da Emilio Salgari, il romanziere che ha creato in Italia il genere avventuroso, durante il suo lungo soggiorno a Sampierdarena (1898-1899) in Casa Rebora, accanto al mare, dove nacque suo figlio Romero. Questo tema, in particolare l'indagine sull'attività, le amicizie e i rapporti personali intrecciati a Genova dal grande scrittore, viene qui affrontato per la prima volta nel suo complesso, con molte rivelazioni e notizie inedite, e con un interessante apparato di rare illustrazioni dell'epoca.

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Information

1 - GIOCHI DI PRESTIGIO: QUASI UN’INTRODUZIONE

Possibile che uno studente continuamente bocciato aiuti con successo il proprio professore di italiano a scrivere un romanzo? La risposta è affermativa, tanto più se lo studente si chiama Emilio Salgari.
Ci sono persone che divinità estrose rendono speciali, capaci di eseguire “magie” inedite, tali addirittura da influire in qualche modo sulla vita di intere generazioni.
Sono talmente bizzarre, quelle divinità, da provare in seguito invidia per ciò che hanno creato, così da distruggere in modo crudele l’esistenza delle stesse persone che hanno reso speciali.
Emilio Salgari (1862-1911) è stata una di loro. Dopo aver consentito al proprio professore di italiano di pubblicare un romanzo storico, e di questa “magia” diremo presto, Salgari avrebbe compiuto almeno due spettacolari giochi di prestigio, capaci di rivoluzionare le abitudini culturali del nostro Paese, e anche un terzo “gioco” capace di condizionare sino alla morte la propria esistenza.
È una metafora, si capisce, e soltanto quel terzo gioco di prestigio ha qualche lontana parentela con l’illusionismo, ossia con quelle rappresentazioni che per la loro grande verosimiglianza donano la sensazione della realtà, con l’uso di qualche trucco e di molta fantasia.
Qual è stata quest’ultima esibizione, che dopo tutto è stato eseguita sulla propria pelle, per così dire, e che potrebbe rinviarci all’escapismo, l’arte che ha reso celebre Houdini, colui che non si poteva imprigionare?
È stata quella di dare vita a un mondo di carta capace di soddisfare la propria esigenza di evasione attraverso varchi nella realtà in cui inserire l’ignoto, l’imprevisto, il diverso, il contatto con la natura, in modo da poter fuggire da una vita quotidiana del tutto deludente.
Se allargassimo la visuale potremmo vedere che questa personale fuga dalla realtà di Salgari è stata anche un gesto di ribellione, è stata la ricerca di un luogo e di un tempo ineffabili dove il giudizio sugli avulsi dalla società, come i bohèmiens, i Don Chisciotte, gli eroi disinteressati, gli uomini disarmati contro le avversità del destino, potesse essere esercitato con una mentalità nuova, universale. 
E così Salgari mentì durante tutta la vita asserendo di essere un giramondo, un capitano di gran cabotaggio, peraltro senza eccessiva convinzione e talvolta ammiccando. Per la stessa ragione rimase coinvolto quasi fisicamente nel proprio lavoro di romanziere, inventando senza millanterie il “signor Emilio”, “il signor Salgari”, il tabagista Yanez de Gomera, il conte Emilio di Roccabruna e decine di altri personaggi fantastici nei quali riconoscersi: tanti alter ego di carta che agirono come i piccoli attrezzi nascosti che Houdini usava per liberarsi da manette, catene e altre serrature ostili. 
E allora gli fu più agevole, quasi naturale, eseguire  le due rivoluzionarie “magie” che lo hanno reso celebre.
La prima e più importante, è quella di aver creato il genere avventuroso in Italia, prima di lui inesistente.
Oggi si dà tutto per scontato, però la circostanza riveste caratteristiche epocali, perché ha dato origine a un mercato nazionale nuovo e di enormi potenzialità; è diventata per decenni un fenomeno di costume (il salgarismo); ha scolpito un capitolo fondamentale di sociologia della nostra letteratura di consumo, con durature ricadute, sin da subito, nel mondo affollato degli imitatori, dei plagiatori, dei seguaci, degli apocrifi, e, nell’immediato futuro, nel mondo  dei fumetti, del cinema, della televisione, del teatro e in altri numerosi ambiti. Quella stessa circostanza ha per molto tempo indirizzato le scelte di vita di molte persone, uomini e donne, che hanno testimoniato di essersi date alla letteratura, al giornalismo, alla vita di mare, alle esplorazioni, agli sport di ogni genere, all’arte, grazie a Salgari, mentre è lasciato alla nostra immaginazione il numero di coloro che non hanno lasciato testimonianza. Infine, non è da dimenticare, quella stessa circostanza ha indirettamente arricchito economicamente man mano, nei decenni, un numero incalcolabile di persone, in Italia e all’estero.
Mentre lui, va detto, si è tolto la vita in prossimità della miseria. Forse aveva valutato male ciò che poteva offrire il lavoro di scrittore in Italia, in termini economici. Sicuramente, come si è accennato, la sua autentica vocazione era quella e solo quella. Una ragione di vita.
La seconda grande “magia” (e per comprenderla meglio occorre contestualizzarla, poiché i tempi, come si sa, sono oggi tutta un’altra cosa) consiste nell’aver portato l’intero globo terracqueo nelle case degli italiani (e non solo) senza muoversi da casa. Descrivendolo come meglio non era possibile ai suoi tempi, in quanto usava “il trucco” di consultare oceani di carta, in modo certosino, organizzato, dalle riviste ai libri di viaggio, dalla narrativa straniera alle enciclopedie, dai quotidiani ai prontuari.
Stupisce non poco la mole faraonica delle sue fonti, che ancora oggi andiamo scoprendo, meravigliandoci sempre più per le sue immani fatiche, la sua professionalità, la sua serietà d’intenti.
Unendo l’esito delle sue consultazioni all’uso di seduzioni e gusti personali, ha scritto pagine dove l’esotismo, soprattutto in passato, ha ottenuto riscontri impressionanti, diventando più concreto di quello autentico, e ha assunto caratteristiche multisensoriali, così da far quasi udire alle lettrici e ai lettori il suono del ramsinga, da far quasi “sentire” il profumo della mussenda e il sapore della carne di babirussa.
Occorre anche accennare, per “entrare” almeno un po’ nella sua rutilante officina letteraria, all’utilizzo accorto delle ridondanze del melodramma, del teatro vittoriano, degli elementi garibaldini, riferiti in massima parte al Garibaldi corsaro in America Latina; accennare all’attenzione particolarissima rivolta all’altra metà del cielo e all’altrettanto romantica riluttanza verso la scienza e la tecnologia, intese come attentati a Madre Natura.
Ma dicevamo del suo professore di italiano, l’abate veronese Pietro Caliari (1841-1920), un cerimonioso e gioviale uomo di chiesa con velleità letterarie, insegnante alla Scuola Tecnica Regia di Verona.
Ne dicevamo sia perché farà di nuovo capolino quando tratteremo del soggiorno di Salgari a Sampierdarena (e intanto nella vita di Salgari e sua saranno trascorsi ben tre lustri), sia perché il buon abate è stato il primo a nominare il titolo di un romanzo di avventure in fase di scrittura da parte del giovane e sconosciuto Salgari. Non sarebbe un fatto eclatante se in quella che diventerà la versione definitiva di quell’affaticato romanzo, pubblicato un decennio dopo nientemeno che dal grande editore Treves di Milano, non trovassimo le prove che Salgari amava gli uomini di mare genovesi molto tempo prima di trasferirsi a Sampierdarena, dove soggiornò con la famiglia per essere vicino all’editore più importante della sua carriera: Anton Donath, un berlinese che fece fortuna a Genova.

2 - AZZURRO COLOR DI LONTANANZA

Nato a Verona il 21 agosto 1862, Emilio Salgari frequentò nell’anno scolastico 1874-75 la prima classe alla Scuola Tecnica Regia della propria città, dove insegnava l’abate Caliari (che gli assegnò a fine anno un cinque in italiano scritto e un nove nell’orale) e siccome, tranne che in Storia e Geografia, in tutte le altre materie fu una pioggia di cinque, fu bocciato.
Passato alla Scuola Tecnica Comunale, nell’anno 1875-76 fu bocciato una seconda volta. L’anno successivo riuscì a superare la prima, ma nel 1877-78 fu nuovamente bocciato in seconda. Naturalmente in italiano non ebbe mai problemi, con un sette o un otto sempre assicurati.
Nel 1878-79 si iscrisse allora al Regio Istituto Tecnico e di Marina Mercantile di Venezia, inseguendo i propri sogni marinareschi, e lo frequentò con alterne fortune sino all’anno 1880-81, quando si iscrisse al secondo corso di capitani.
In data 8 agosto 1881 gli arrivò la comunicazione del preside di presentarsi il 1 ottobre alle otto del mattino per ripetere nella sessione autunnale gli esami di Navigazione, Astronomia e Trigonometria. Decise di non presentarsi.
L’oceano assunse per lui e per sempre il poetico “azzurro color di lontananza” e, praticamente senza titolo di studio, affrontò con piglio sicuro, a Verona, il giornalismo, dapprima come redattore a “La Nuova Arena” – sulle cui appendici si sdoppiava diventando romanziere di avventure – e poi, dal marzo 1885, a “L’Arena”.
Come mai colui che doveva entusiasmare milioni di lettrici e di lettori per molte generazioni, se ne uscì dalle aule scolastiche privo di un diploma qualunque?
Aveva la fissazione di compensare la piccola statura con lo sport, e già nel 1878 collezionava medaglie e diplomi in ginnastica e scherma, per non dire delle sue prodezze con il velocipede. Non c’era tempo né voglia per lo studio. In seguito avrebbe rivestito ruoli importanti nelle Società sportive veronesi.
E poi aveva la testa tra le nuvole. A quegli stessi anni risalgono le carte ritrovate con i suoi tentativi di scrittura, le trame, gli “incontri” con Sandokan, gli scontri con i cannibali e con le belve, gli abbordaggi dei corsari delle Antille. E i molti disegni che copiava talvolta da litografie dell’epoca, in particolare quelle di C. Perrin dedicate alle nostre guerre d’indipendenza1.
Subiva le indelebili suggestioni ricevute sin dalla prima infanzia – un imprinting tenace – dai mille romanzi di avventure che aveva divorato in discrete traduzioni italiane: Jules Verne, Alexandre Dumas, Gustave Aimard, James Fenimore Cooper, Daniel Defoe, Edgar Allan Poe, Thomas Mayne Reid e dozzine di altri. Sarebbero diventati i suoi maestri, i suoi ispiratori, i motori del genere avventuroso italiano al quale avrebbe dato vita.
Quando, il 29 agosto 1883, l’abate Caliari scrisse una breve presentazione al proprio romanzo Angiolina (sottotitolo: Romanzo storico del secolo XVII), Salgari aveva appena pubblicato (in luglio) un racconto avventuroso, I selvaggi della Papuasia, sulla rivista milanese di viaggi “La Valigia”, annunciando al direttore di quella rivista d’aver pronto un cospicuo numero di manoscritti analoghi. A ruota, il 15 settembre, avrebbe pubblicato in appendice su “La Nuova Arena” la prima delle 28 puntate di Tay-See, un romanzo breve, e poi, terminate quelle, si sarebbe tuffato, dal 16 ottobre 1883 al 13 marzo 1884, nelle 150 puntate de La Tigre della Malesia, dove comparve per la prima volta Sandokan.
Non poteva ancora saperlo, ma stava iniziando, in sordina, una nuova era: per lui e per l’Italia.
Ed ecco come si espresse l’abate Caliari nella presentazione di Angiolina:
Due sole parole di prefazione!
Questo racconto fu da me quasi condotto a termine da circa dieci anni, ma, col suo bravo schema, dopo qualche momento di entusiasmo, fu abbandonato in un canto del mio scrittoio, dove fu lasciato in balìa della polvere e dove, ultimamente, sostenne l’impeto dell’acque torbidiccie dell’Adige. Che, senza mio speciale permesso, invasero il mio povero studiolo e lo minacciarono di totale rovina.
Non l’avrei tolto di là per ragione alcuna; senonché il signor SALGARI EMILIO2, un giovane egregio quanto modesto, che già fu mio allievo, essendo venuto a mostrarmi un suo romanzo inedito intitolato La Scimitarra di Khien-Lung, mi fece rifrullar in capo qualche postuma velleità e mutar divisamento, consigliandomi a levare il manoscritto da quella specie d’oblìo temporaneo, senza forse badare che potrebbe esser tuffato in un oblìo eterno.
Fatto sta ch’egli mi ha incoraggiato, mi ha dato validissimo aiuto materiale e morale, mi ha fatto pervenire all’ultima pagina.
Egli è per questo che prego il benigno lettore (o la benigna lettrice) caso mai che, nella sua generosità, trovasse qualche po’ di pregio in questo mio libro, a darne merito al signor SALGARI EMILIO, del quale io pronostico un bell’avvenire letterario, avendo egli fin da quest’ora (e conta appena ventun anno) ammannito per pubblico parecchi romanzi assai interessanti.
Come si è visto le cose non stavano proprio così, quel 29 agosto 1883: non esistevano ancora “parecchi romanzi” pubblicati; però risultarono piuttosto corrette quando Angiolina, volume di 356 pagine, vide le stampe, nel 1884, presso l’editore Drucker & Tedeschi di Verona.
Ed ecco intanto nominato un lavoro allora inedito di Salgari: La Scimitarra di Khien-Lung.
Non è detto che Caliari ne abbia avuto sott’occhio il manoscritto, della cui esistenza nulla è noto. Potrebbe piuttosto averne ascoltato la trama. Quella vergata dall’autore più o meno in quel periodo è risultata raffazzonata, piena di errori di grammatica e di ortografia e, rintracciata dagli eredi dopo il suicidio di Salgari, sarà utilizzata molto tempo dopo, proprio con quel titolo, per la pubblicazione di un apocrifo. Pressoché ogni carta del defunto è infatti risultata utile, al riguardo.
Ottenuta in fotocopia dallo studioso Giuseppe Turcato, la suddetta trama ha in seguito indotto qualcuno a ventilare addirittura la “scoperta” di un romanzo sconosciuto, anzi “perduto”.
La realtà è molto più semplice, oltre che evidente: Salgari, come sua collaudata e nota abitudine, tenne ben presente quella trama, ne modificò ampiamente i contenuti, lo svolgimento, i nomi dei protagonisti, e ben otto anni dopo riuscì a cedere l’opera, con il nuovo titolo La Scimitarra di Budda, al più importante editore italiano dell’epoca, Treves di Milano.
Ormai, con la sua  rutilante avventura made in Italy, era in grado di arrivare ovunque volesse e se si fosse affidato ad un abile agente letterario, avremmo sicuramente dovuto scrivere una storia completamente diversa.
Se ci stiamo avvicinando con il tempo necessario al primo importante personaggio genovese della sua opera, è soltanto perché occorrono un po’ di premesse per poter meglio conoscere il protagonista di queste pagine e per poter meglio comprendere le ragioni del suo approdo a Genova, presso quel Donath che per primo comprese quale fortuna sarebbe derivata dal riuscire a legare Salgari, astro nascente, e anzi già brillante, con un contratto in esclusiva.
Donath evitò, insomma, l’errore che stavano commettendo i suoi colleghi meno lungimiranti: quello di acquistare i romanzi salgariani alla prima occasione, lasciando all’autore la libertà di bussare a tutte le porte, da diligente padre di famiglia ansioso di procurarsi una sorta di stipendio fisso.

3 - UNA METEORA CADUTA DAL CIELO

La descrizione del protagonista de La Scimitarra di Budda compare nel primo capitolo:
Giorgio Ligusa, capitano di marina mercantile, era un genovese, sui trent’anni, d’alta statura, con un volto fiero, energico, alquanto duro, abbronzato dal sole dei tropici, con due occhi nerissimi, lampeggianti, baffi folti e lunghi e capigliatura ricciuta e corvina. Aveva fatto venti volte il giro del...

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