Quando l'amore se ne va
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Quando l'amore se ne va

Ignazio Grattagliano, Donato Torelli

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Quando l'amore se ne va

Ignazio Grattagliano, Donato Torelli

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Le statistiche dicono che è sempre piÚ difficile fare famiglia e sempre piÚ facile separarsi anche in età matura.Ci vuole molto poco perchÊ le cose, a un certo punto di una storia, non vadano piÚ bene. A volte l'illusione di una felicità coniugale si sgretola giorno dopo giorno, rovesciandosi in una realtà cupa e oppressiva. Quella che un tempo era l'"anima gemella", appare come il mostro da evitare o sconfiggere. A complicare le cose, spesso di mezzo c'è un bambino. Di fronte alla separazione dei genitori il bambino rimane disorientato, confuso, depresso, rischia di essere segnato da un dolore difficilmente domabile. Spesso, una buona separazione può rappresentare per tutto il nucleo familiare una "chance creativa", quando un eccessivo impoverimento sentimentale e comportamentale, nella relazione marito-moglie, rischia di produrre anche nei figli una pericolosa sterilità esistenziale. Coniugi che riescono a separarsi in tranquillità, rimanendo uniti e collaborativi come genitori, possono individualmente ritrovare la vitalità che un tempo possedevano, rinforzata, semmai, anche da nuovi legami sentimentali. Per riuscirci può essere necessario servirsi di una persona qualificata che aiuti i futuri coniugi o conviventi ad affrontare la vita a due con piÚ consapevolezza. La proposta di queste pagine è innovativa: anticipare l'intervento mediativo prima possibile. Ossia, spingere i mediatori familiari verso una funzione "preventiva" rispetto ai conflitti coniugali. Questo apre inediti scenari relazionali sui quali applicare nuove tecniche ed esperienze di mediazione.

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Information

Jahr
2011
ISBN
9788861532144

1.

Psicodinamica di un processo di crisi: gli eventi critici tra normalitĂ  e follia

Nel cielo non v’è distinzione di oriente ed occidente;
gli uomini creano le distinzioni nella loro testa
e dopo le credono vere
Buddha
Siamo infantili, nevrotici, deliranti, pur essendo anche razionali. Tutto ciò costituisce la stoffa propriamente umana. L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e dismisura. Soggetto di una affettività intensa e instabile. Sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente. È un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico. È un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio, è un essere pervaso dall’immaginazione e che può riconoscere il reale. È un essere che conosce la morte e che non può credervi, che secerne il mito e la magia ma anche la scienza e la filosofia. È posseduto dagli Dèi e dalle Idee, ma dubita degli Dèi e critica le Idee. Si nutre di conoscenze verificate ma anche di illusioni e di chimere. E quando, con il venir meno dei controlli razionali, culturali, materiali, l’oggettivo e il soggettivo, il reale e l’immaginario si confondono, quando le illusioni sono egemoni, quando la dismisura è scatenata, allora “l’homo demens assoggetta l’homo sapiens e subordina l’intelligenza razionale al servizio dei suoi mostri1”.
Ci è sembrato utile iniziare questo capitolo con questa lunga citazione di Edgar Morin perché essa esprime molto bene la condizione dell’uomo quando, con tutte le sue contraddizioni, passa da un buon controllo di sé ad uno stato di crisi. Quando si sposta cioè da una condizione che si può definire di accettabile normalità ad uno stato di sofferta incertezza. Se vogliamo, ognuno di noi vive cercando di raggiungere un compromesso, possibilmente valido e duraturo, tra ciò che il suo carattere vorrebbe fargli fare e quel che deve fare per non trovarsi in situazioni difficili e angoscianti. Quando questo compromesso vacilla si entra in crisi, perdendo la tranquillità che è frutto di un equilibrio tra pulsioni e ragione. Si può dire che la crisi, così come è definita da Gerald Caplan, è rappresentata da “un periodo di pressione a cui un individuo non può sfuggire o crede di non poter sfuggire”2.
Molti individui sono segnati da grandi paure che spesso si celano nel loro inconscio e che quindi non appartengono al loro sapere. Tr a le tante paure c’è quella di essere feriti o puniti, di rimanere senza conforto e sostegno o di essere giudicati per cui, a volte, una novità o un cambiamento genera sgomento e frammenta le precedenti sicurezze.
Caratteristica fondamentale di un processo di crisi è che il soggetto o i soggetti coinvolti non sono in grado di reagire in modo adeguato e produttivo all’evento che l’ha prodotto o, meglio ancora, sono gli strumenti di difesa precedentemente adottati e apparentemente collaudati che questa volta si rivelano inadatti. “L’elemento fondamentale di ogni crisi – dice Ferlini – è la profonda sofferenza e angoscia delle persone e del suo entourage”3. Quando c’è sofferenza spesso non c’è chiarezza e allora è facile entrare nelle condotte errate, nei comportamenti poco chiari, nelle decisioni affrettate, a volte anche eticamente disdicevoli. Ed è ciò che facilmente ritroviamo nelle famiglie in cui è in corso una separazione. Dice Paul-Claude Racamier: “La nozione di crisi implica la nozione di cambiamento di un equilibrio precedente e, parimenti, la nozione dello svolgimento nel tempo”4. Di conseguenza, in un evento critico, è possibile riconoscere un inizio, uno svolgimento e una fine. Forse potremmo dire che gli avvocati, i magistrati e i periti compaiono quando la crisi è in pieno svolgimento e gli attori dell’evento non ne vedono la fine. Mai a sufficienza si considera, nelle vicende umane, il parametro tempo, la sua importanza, la sua, a volte, devastante autonomia rispetto alle stesse vicende umane.
Se è vero che la crisi, secondo quanto riferisce Racamier, si pone “tra il registro della normalità e quello della psicopatologia”5 forse si può asserire che più il processo di crisi si protrae nel tempo, più si sposta verso la psicopatologia (e chi ha esperienza di attività peritale ne sa qualcosa). Nella ricostruzione storica di alcune vicende non è difficile scorgere come, sino ad un certo momento, lo slittamento verso il patologico poteva essere evitato, e come dopo, tutto diventa più difficile se non impossibile. Secondo i teorici dei “Sistemi complessi”6 (Morin, Maturana), i sistemi viventi si autoproducono, mentre entrano in rapporto di reciprocità con il proprio mondo (nel senso che si arricchiscono sempre più di esperienza e si trasformano, cambiando). L’ambiente produce perturbazioni che il soggetto ha il compito di compensare. Tutta la conoscenza, se vogliamo, prende l’avvio, in modo graduale, dall’organizzazione delle perturbazioni.
Questo stesso concetto si ritrova negli scritti di Aldo Carotenuto che, a proposito dei rapporti di coppia, così si esprime: “Nella fase di innamoramento, l’individualità dell’amante si era confusa con quella dell’amato, ma quando l’unione prende vita, ovvero quando subentra la relazione, io vengo restituito alla mia stessa unicità trasformata”7. Ed è qui che noi possiamo dire che l’incontro è come una creazione artistica. Ciò che può essere affascinante, ciò che in fondo mantiene i rapporti e conferisce loro uno spessore, è il fatto che nulla è dato, nulla è scritto, da qualche altra parte, ma tutto è di fronte a queste due soggettività, che possono dare vita a qualcosa di completamente nuovo. E allora se diciamo che questo momento è un fatto creativo, diciamo anche che spetta ai due protagonisti la responsabilità della dimensione, della forma e della evoluzione che assumerà la loro relazione. I fatti però ci dicono che a volte l’incontro tende a trasformarsi in un non-incontro, quando al momento della riscoperta della mia individualità, si affianca la dimensione del potere. La possibilità di avere un Tu con cui dialogare corre sempre il rischio di perdersi, di ricadere nell’Esso. Per questo possiamo dire che il rapporto di coppia presenta aspetti delinquenziali, criminologici, che, se vengono rafforzati da un particolare contesto o da una disposizione patologica di entrambe le persone, possono far emergere in modo drammatico le zone d’ombra, per usare un suggestivo termine junghiano.
L’evento crisi, quindi, molto dipende da chi lo vive e lo gestisce, potendo esso rappresentare, come s’è detto, strumento di conoscenza e di crescita o elemento di distruzione. Scriveva Henry Miller:
Ogni giorno in cui manchiamo di vivere al massimo del nostro potenziale, noi uccidiamo gli Shakespeare, i Dante, gli Omero i Cristo che sono in noi. Ogni giorno che trascorriamo imbrigliati alla donna o all’uomo che più non amiamo, uccidiamo in noi la forza di amare e di avere la donna o l’uomo che meritiamo. L’epoca in cui viviamo è quella che meritiamo: siamo noi a farla, soltanto noi, e non Dio, non il capitalismo, o questo o quello, poco importa il nome, il male è in noi, il bene anche8.
Ciò, come si può facilmente comprendere, è ben diverso dall’avere una concezione sacrificale dell’esistenza, che porta a pensare e agire nel senso della “croce da portare sulle spalle”. Anna Magnani, per altro verso, in una conversazione con Franco Zeffirelli, così si esprimeva:
Dovevo nascere contadina dell’agro romano, fare tredici figli e ogni volta che aprivo bocca mio marito mi doveva riempire di schiaffi. Questo era il mio personaggio, per essere vera con la mia natura. Invece mi sono messa a fare l’attrice, sono diventata Anna Magnani, e sono stata una infelice per sempre9.
Queste due citazioni esprimono, a nostro avviso, molto bene come può essere multiforme il concetto di “metter su famiglia”. Ciò che è normale per un individuo, non lo è per un altro. Ciò che è la norma ad una longitudine, non lo è ad un’altra. Cultura e una individuale “concezione del mondo” fanno poi il resto. Pertanto nella valutazione di una crisi coniugale, è indispensabile ricostruire una storia, che sia rigorosamente trigenerazionale, che tenga presente l’ambiente in cui la storia si svolge, per entrare nel profondo dell’animo dei due individui. Chi ha poi il compito di valutare o giudicare deve anche possedere una buona flessibilità ideologica. Il Devoto-Oli dice che la crisi è: “Una perturbazione acuta nella vita di un individuo o di una collettività con effetti più o meno gravi e duraturi”10; nelle relazioni umane significative, come possono essere quelle coniugali, accade invece che i processi critici difficilmente siano acuti ma hanno, in genere, uno svolgimento più lento e progressivo se non altro perché fanno parte della storia di quegli individui; molte crisi, infatti, sono addirittura prevedibili.
In ogni coppia in difficoltà non è difficile riconoscere forze latenti che tendono a separare e controforze che tendono ad unire e sono proprio queste spinte contrastanti che allungano e, a volte, fondano drammaticamente i processi di crisi:
Le crisi – dice Ferlini – non sono mai piaciute e credo che ciascuno di noi ha sempre sperato di trascorrere la propria vita senza crisi: se proprio non se ne può fare a meno, che almeno siano crisi condivise o vissute in ambienti sicuri e protetti11.
In questo gioco di spinte e controspinte si può riconoscere la distruttività della coppia, o il suo livello di normalità. Addentrarsi nel concetto di “normalità” è veramente un’operazione a rischio. Per Sigmund Freud, ad esempio, “normalità è un’immagine ideale”, forse per questo si tende a sostituire questo termine con quello di “salute”, anche se poi questo, specie in ambiente medico-legale, può rivelarsi ancora più pericoloso costringendo, a volte forzatamente, i consulenti a definire alcuni comportamenti o come rientranti nell’ambito della psicopatologia o come appartenenti a quello di una sufficiente salute psichica. Per questo motivo noi continueremo ad esprimerci nei termini di “normalità/anormalità”, dal momento che questa entità diadica si presta più facilmente ad una serena descrizione della condizione umana.
Dovremmo cominciare a pensare che le persone, quando formano una coppia, entrano in relazione con il loro differente grado di normalità, che condizionerà poi, inevitabilmente, sia la vita coniugale che quella genitoriale. Riteniamo che, a meno che non vi siano chiari segni di patologia psichica, la lettura che andrebbe fatta della coppia in crisi da parte dei consulenti, del giudice, degli avvocati, e di altri operatori, quali ad esempio i mediatori familiari, dovrebbe essere in questa direttiva. Ogni relazione di coppia è pur sempre caratterizzata da un “incontro/scontro di normalità”. La riprova della veridicità di questo assunto la si ha tutte le volte che si ascolta una coppia che si sta separando in modo conflittuale. La descrizione che essi fanno, ognuno per proprio conto, delle loro vicende coniugali o genitoriali, è logica, attendibile e, spesso, convincente, solo che è di parte, pesantemente di parte. Sono due “verità” che derivano da due “normalità”, ormai non più collimanti ma, anzi, fortemente divergenti perché provate dal peso di qualche evento inatteso o dalla faticosa gestione della temporalità familiare che ormai ha usurato le due “normalità”, un tempo coincidenti. Due “normalità”, messe in scena da due attori, che recitano, anche se con forte, personale convinzione, la farsa patetica, pietosa e pacchiana di “scagionare se stesso e accusare l’altro”. Nei conflitti di coppia più comuni, difficilmente c’è uno dei due che ab...

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