Insegnare soddisfatti. Come la didattica può attivare per competenze i ragazzi
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Daniela Fedi

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Insegnare soddisfatti. Come la didattica può attivare per competenze i ragazzi

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Se la sfida della complessità non ci spaventa, allora siamo pronti ad affrontare questo viaggio. Un viaggio in cui occorre "lasciarsi un po' a casa". In cui non si cercano nuove terre, ma nuovi occhi con cui vedere, una volta tornati, i nostri allievi, e il gruppo classe, da nuove angolazioni.

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Information

Il modello INFA e il metodo Feuerstein

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior
Fabrizio De André
…l’etica del dubbio, l’unica che fa onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si trova sempre per via
Gustavo Zagrebelsky

L’insegnante ideale esiste?

In questo capitolo si vuole affrontare, con un approccio pragmatico, il ruolo e l’atteggiamento più utile da tenere da parte dell’insegnante. Ci servirà avere presenti molti dei contenuti esposti nei capitoli precedenti. Dagli aspetti psicologici a quelli sociologici, dalla pedagogia alle neuroscienze, dalle tecniche di comunicazione alle dinamiche di gruppo, dai processi di apprendimento agli stili cognitivi.
Nella società del XXI secolo serve un insegnante con nuove abilità, un insegnante che svolga il suo lavoro con cura e passione, mettendo a frutto le sue competenze sociali. Con cura, perché il materiale su cui lavoriamo è un materiale prezioso e, spesso, fragile, è materiale umano, adulti in costruzione. Che tipo di adulto ne uscirà dipende anche dal nostro lavoro di educatori; è una grande responsabilità, individuale e collegiale. Il mestiere di insegnante può esser svolto solo con passione, altrimenti è meglio non farlo, si deve fare con dedizione anche se, per la nostra professione, non c’è in Italia una diffusa consapevolezza dell’importanza del ruolo docente: nessun tipo di riconoscimento, né economico né sociale.
Adesso, alla scuola secondaria, non abbiamo più il condizionamento dei programmi ministeriali che imponevano una pianificazione calata dall’alto. Ora abbiamo una maggiore libertà d’insegnamento come, del resto, la stessa Costituzione ci ha sempre garantito. Al vincolo del programma preconfezionato si è sostituito l’obiettivo finale: il conseguimento delle competenze culturali e di cittadinanza. Questa maggiore libertà ci assegna al contempo una maggiore responsabilità e, dunque, la necessità di possedere noi per primi maggiori competenze, non tanto in ambito disciplinare (quelle si danno per scontate) ma in ambito professionale. La professione docente, oggi, è molto impegnativa. Ci impone nuove sfide e ci affida nuovi discenti, conoscenze nuove da proporre, nuovi metodi da sperimentare.
La mia carriera scolastica, inizialmente non è stata molto brillante. Almeno finché non ho avuto la fortuna di incontrare un insegnante che mi ha fatto riflettere, che mi ha aperto la mente, che mi ha permesso di comprendere che la persona che sarei diventata dipendeva da me, dalle mie scelte. Ci sono cose che non sono sotto il nostro controllo, e dunque dobbiamo accettarle. Ma quando c’è un malinteso e da ciò si verifica un danno, devo accettare che la colpa sia mia. Abbiamo spesso la tentazione di trovare un capro espiatorio per i nostri guai, ma nella maggior parte dei casi la causa siamo noi. Dobbiamo accettarlo e andare avanti, cercando di riparare al danno e lavorare per migliorarci, perché quegli eventi negativi accadano sempre di meno. In dottrina è ormai un assioma consolidato che il benessere personale dipenda dalla qualità delle nostre relazioni con le altre persone. E, convinta di ciò, quando mi accorgo di essere in torto mi avvilisco moltissimo. Quello che mi consola è che si può sempre riparare. L’ho appreso anche dallo sport di mio figlio: il rugby. Alla fine della partita, spesso non priva di violenti scontri competitivi, i giocatori delle due squadre non si ignorano andandosene a macerare nelle proprie e più diverse emozioni, ciascuno per proprio conto. No, loro hanno il “terzo tempo”, un tempo fatto di cibo condiviso e chiacchiere in libertà, durante il quale i protagonisti di uno scontro cruento possono chiedersi scusa o comunque riparare ad eccessi o mancanze che, ignorati, farebbero maturare nodi fatti di astio e sensi di colpa.
A volte si incontrano insegnanti che mortificano i ragazzi, li fanno sentire degli stupidi. L’insegnante che mi cambiò la vita mi mise di fronte ad un problema da risolvere, un problema che sembrò, a me ed ai miei compagni, irrisolvibile con le conoscenze che avevamo a disposizione. Mi sentivo inadeguata e avvilita. Ma lui mi fece riflettere su un concetto intrigante e sfidante: grazie all’evoluzione della specie umana e agli apprendimenti acquisiti fin dalla mia nascita, le mie risorse mentali erano già molto vaste. Il clima in classe cambiò e trovai la forza di impostare correttamente la soluzione del problema, attingendo ad ogni mia risorsa cognitiva, emotiva, intellettiva e volitiva.
L’insegnante ideale a cui cerco di somigliare non è un essere perfetto, ma un essere umano, passibile di errori. Ha l’umiltà di accettarli e ammetterli, senza nascondere i suoi sentimenti di delusione o rabbia, ma gestendoli ne fa elemento di crescita per i propri allievi; si tratta di una pedagogia civile molto potente, basata sull’esempio. La rabbia è un’emozione fatta di una grande energia, una energia negativa, ma che può essere trasformata in energia positiva. Quando iniziai la mia formazione di professionista della facilitazione mi fu chiesto quali fossero le mie aspettative. Ne formulai alcune. La prima era proprio questa: imparare a gestire le emozioni e trasformare l’energia negativa in positiva, sia in me sia aiutando altre persone a farlo. Adesso so come si fa, e qualche volta ci riesco pure. Il problema è che tutti noi (adulti e adolescenti) siamo soliti considerare le difficoltà come episodi provocati da altri. Siamo costantemente protesi a risoluzioni rapide e spesso superficiali, da bravi analfabeti nelle competenze sociali. Competenze che aprirebbero, invece, a soluzioni più meditate e durature. Sarebbe utile che tutti gli esseri umani imparassero ad accogliere, contenere e trasformare la negatività, anziché eludere, sentenziare, rincarare e dividere. Allora potremmo veramente trasformare i problemi in soluzioni, i conflitti in negoziazione, il malessere in motivazione. La negatività non è sempre un fenomeno da cancellare, è anche opportunità e risorsa da rigenerare. Negatività è un termine volutamente generico, che sta ad indicare la quantità di condotte problematiche, oppositive, disfattiste che ogni giorno vengono prodotte. Come spiega bene De Sario85, i fenomeni negativi – problemi, conflitti, malessere, errori – secondo i nuovi studi di area neuropsicologica, vengono prodotti da almeno tre cause. Come umani siamo “difettosi” in particolar modo nelle funzioni emotive: la negatività biologica. Come persone siamo fortemente inclini a piccinerie e discriminazioni: è la negatività psicologica. Siamo sospinti verso il negativo anche dai contesti, da gerarchie, interessi e contrapposizioni: negatività situazionale.
Quante volte a scuola ci troviamo a lavorare in un campo minato da emozioni contrastanti ed evidenti: ragazzine in lacrime di gioia o di disperazione, ragazzi arrabbiati che si abbandonano a gesti inconsulti, emozioni incontenibili che li fanno urlare, correre o cantare. E quante volte noi stessi ci arrabbiamo perché i nostri ragazzi non hanno trovato la voglia di studiare o di svolgere i compiti assegnati loro, come ci aspettavamo. A volte ci raccontano scuse e a volte ci riferiscono vissuti familiari drammatici, di sofferenze psichiche o di conflitti cruenti di cui sono stati passivi testimoni o coprotagonisti. Lo sguardo dell’insegnante sugli adolescenti e sul modo dei loro genitori di educarli fornisce uno specchio ampio e variegato della società contemporanea. Talvolta gioioso e, troppo spesso, inquietante. E noi cosa dobbiamo fare? Ognuno reagisce a suo modo. Certamente, per avere un ruolo positivo e formativo nella vita dei nostri allievi dobbiamo agire con grande delicatezza, ma anche con grande determinazione, quando serve. I ragazzi hanno molto bisogno di regole e di contenimento. E hanno bisogno di una guida, qualcuno che indichi loro i comportamenti che a scuola sono idonei e quelli che non lo sono. Hanno bisogno di un insegnante che si relazioni con loro in quanto persone e li riconosca come tali in tutte le loro componenti, che stabilisca con loro un rapporto educativo leale, talvolta flessibile e talvolta rigido. La rigidità, tuttavia, va intesa come fermezza, non come mancanza di accoglienza e di ascolto. I ragazzi devono sentire che per te sono importanti e anche tu devi sentirti oggetto del loro rispetto, nel tuo ruolo e nella tua persona. Entrambe le cose devono essere presenti fra i nostri obiettivi. L’insegnante che vuole attivare la classe, ottenerne l’attenzione necessaria durante la presentazione dei contenuti e promuoverne l’impegno per l’acquisizione delle competenze, impiegherà una grande quantità di lavoro psicofisico.
La didattica attivante e per competenze richiede molte energie. Un modo per non sprecarle è quello di adottare metodi e tecniche che ci facilitino il compito. La buona notizia è che quei metodi e quelle tecniche sono gli stessi che facilitano i processi di apprendimento dei nostri allievi.
In fondo, il ruolo dell’insegnante non è altro che quello di un mediatore: da una parte ci sono i saperi disciplinari, dall’altra gli allievi. Da questa posizione l’insegnante può facilitare l’acquisizione dei saperi da parte dei ragazzi. Noi non siamo l’unica fonte cognitiva disponibile e siamo ancor meno i detentori di verità assolute. L’apprendimento è un processo faticoso e impegnativo per il cervello del soggetto che apprende. Nella didattica per competenze lo è ancor di più perché tale approccio necessita dell’attivazione dei processi mentali più evoluti, come il ragionamento, che sono energeticamente impegnativi e arrivano a seguito di atti di pura volontà, non si attivano da soli. Se la nostra lezione è passiva, difficilmente attiverà le menti degli allievi. Certo, in questo caso, noi faremmo ben poca fatica ad insegnare. Non dovremmo far altro che entrare in classe e andare in scena con la nostra ennesima replica della stessa rappresentazione: l’unità didattica del giorno. Ma così facendo il nostro ruolo potrebbe tranquillamente essere svolto da un computer che riproduce per l’ennesima volta una lezione registrata e senza defezioni: né malattie né maternità né scioperi interromperebbero il lavoro scolastico. La lezione andrebbe sempre in onda. Il senso del nostro lavoro, dunque, non sta nel ripetere ogni anno le stesse lezioni, ma consiste in un’attività di mediazione: presentare quei contenuti nel “modo” più opportuno per facilitarne l’apprendimento proprio a quel gruppo-classe, in base alla sua fisionomia, alle carenze pregresse dei ragazzi, alle fragilità riscontrate in loro, al livello di partecipazione attivabile e non. Occorre occuparsi del clima che si percepisce entrando in classe e, se non è quello giusto per svolgere bene il nostro lavoro, è necessario accoglierlo e trasformarlo prima di affrontare la disciplina. Anche questo è “far lezione”. Poi occorre verificare che tutti posseggano i prerequisiti richiesti a comprendere i nuovi saperi che vogliamo introdurre e, se necessario, colmare le lacune propedeuticamente. Osservare i feedback che i ragazzi ci inviano, con il linguaggio del corpo o con quello verbale, rimodulare il nostro intervento di conseguenza, rispondere ai dubbi interpretativi o cognitivi, farli riflettere a partire dalle competenze. Allora saremo un insegnante facilitatore. Nei prossimi paragrafi sarà presentato il modello INFA, già messo a punto in una precedente pubblicazione86. I metodi presentati derivano dall’innesto delle componenti della Facilitazione esperta87 con il ruolo dell’insegnante nella scuola secondaria e, più in generale, dagli approcci che chi scrive sta sperimentando fin dal 2007 in ambiente scolastico. La facilitazione esperta è un approccio innovativo ai gruppi-classe e agli scambi fra le varie componenti scolastiche, che mette al centro le quattro prerogative, esposte di seguito, che si fondono sulle seguenti abilità: coordinare, coinvolgere, aiutare, attivare. Gli obiettivi sono: aumentare il profitto sugli apprendimenti, prevenire le negatività, star bene in classe. Come si fa? Svolgendo un lavoro di coordinamento, superando opposizioni e barriere con l’altro (Coinvolgere), fronteggiando l’urto delle emozioni negative (Aiutare), promuovendo il passaggio dalla negatività alla motivazione (Attivare). Gli strumenti? Le competenze sociali e anche le competenze dello “strumento naturale” che tutti possediamo: il nostro corpo che comunica (Cnv). Sapersi relazionare con gli altri, saper gestire le proprie emozioni e saper lavorare in gruppo sono abilità sempre più importanti per lo star bene in ogni tipo di gruppo (famiglia, colleghi, classe). Il modello INFA è stato impostato su conoscenze che sintetizzano saperi complessi – di cui questo libro offre uno spaccato essenziale e concreto – ed è stato pensato per essere applicato in classe utilizzando un metodo didattico di tipo prevalentemente laboratoriale – imparare facendo, a partire dalle competenze – con caratteristiche multimodali, ovvero un po’ mediazione, un po’ aiuto, un po’ allenamento.

Introduzione alla facilitazione in classe

Adesso vediamo i cinque elementi essenziali di INFA, in una prima panoramica che sarà sviluppata e illustrata più dettagliatamente nei prossimi quattro paragrafi.
Il primo elemento. È incentrato sulla classe come campo di forze, governato da interdipendenze e dinamiche di gruppo inerenti l’operatività quotidiana in classe, ma anche gli impatti e i tratti psicosociali delle persone (insegnante e allievi) con i loro atteggiamenti, percezioni, umori, pensieri, sentimenti, emozioni. La classe rappresenta uno dei contesti collettivi più complessi fra le varie tipologie di gruppo. Complesso perché nella dinamica di classe si intersecano molteplici fattori, già di loro complessi, che corrispondono al soggetto, alle sue relazioni con gli altri e con l’ambiente, alle sue condizioni emotive, ai contenuti propri delle discipline e dei saperi da apprendere. Per cui nel contesto classe è come se si concentrassero una vasta gamma di fili che scaturiscono dai piani individuali, interindividuali e contestuali: il campo di forze, già introdotto nel capitolo “Il gruppo e l’apprendimento”. Esso consiste in una totalità dinamica, composta da parole, azioni, comportamenti, atteggiamenti, emozioni, sia implicite che esplicite. Dalla stessa teoria proviene il concetto di dinamica di gruppo: lo scontro e l’incontro, in classe, avvengono tramite azioni e compo...

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