La laicità del Vangelo
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José María Castillo, Lorenzo Tomaselli

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José María Castillo, Lorenzo Tomaselli

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Il Vangelo non è "un libro di religione", è un insieme di racconti che spiegano come Gesù di Nazareth ci offra "un progetto di vita". Tuttavia, Gesù è stato un uomo profondamente religioso, a causa della sua intensa relazione con Dio come Padre e del suo frequente ricorso alla preghiera. Ma la religiosità di Gesù non è stata legata al tempio, ai riti sacri, ai sacerdoti e alla sottomissione alla legge religiosa. Al contrario, Gesù è vissuto in maniera tale che, quando ha iniziato ad agire e a parlare in pubblico, è entrato in conflitto con i responsabili della religione (i sacerdoti, i teologi ed i più stretti osservanti).Il Vangelo è il grande racconto di questo conflitto, che è terminato drammaticamente nel processo, nella condanna e nella morte di Gesù. Per questo resta cruciale la domanda: come ha potuto fondare una religione un uomo la cui vita è finita in uno scontro mortale con la religione? L'aspetto centrale della vita di Gesù non è stato il religioso e la religiosità, ma l'umano e l'umanità. E poiché Gesù si è posto dalla parte della vita e della felicità degli esseri umani, il Vangelo incentra la sua attenzione sulla salute dei malati, sulla convivialità con tutti (specialmente con i poveri) e sulle migliori relazioni umane. In questo modo Gesù ha spostato il centro della religiosità, che "non sta più nel sacro ma nell'umano". Credere nel Vangelo è lottare contro la nostra inumanità e farci ogni giorno più umani.

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Information

La fede in Gesù e la religione

Non è un compito facile analizzare con precisione il concetto e l’esperienza della fede cristiana, perché in questa questione si mescolano due tradizioni diverse. La tradizione dei vangeli, da una parte; e quella di Paolo dall’altra. Due teologie della fede, che sono non solo diverse, ma anche, in determinate questioni di notevole importanza, sono teologie delle quali si può affermare con tutte le riserve necessarie che sono contraddittorie o, per lo meno, difficilmente conciliabili l’una con l’altra.
Per mettere all’inizio un pò di ordine in questo complicato tema, incomincio con il dire che non posso essere d’accordo con la semplificazione che fa il noto studioso della religiosità ellenista Gerhard Barth quando afferma che la pístis (fede) “descrive l’essenza della religione cristiana”1. E per finire di complicare il tema, già nel II secolo sappiamo che Giustino nel Dialogo con Trifone afferma che “i cristiani sono quelli che credono nel Lógos”. In maniera tale che “la credenza nel Lógos… rappresenta…il cuore stesso della loro religione”2. La fede in Gesù, quindi, è l’essenza di una religione che ha il suo cuore nella credenza nel Lógos dei greci. Ben presto la comprensione della fede in Gesù si è fatta quasi impossibile. Ma veramente Gesù ha inteso la fede come l’essenza di una nuova religione? Cosa dicono di questa questione i vangeli?
Parlando con correttezza e senza pregiudizi dogmatici, quando uno legge quello che raccontano i vangeli sinottici sulla fede, la prima cosa che richiama l’attenzione è che la fede in Gesù, della quale parla il Vangelo, non si riferisce direttamente alla religione, ma alla salute delle persone. La fede, dunque, in origine non è una questione religiosa, ma la forza che ci aiuta a superare e a cavarsela di fronte ai problemi ed alle situazioni umane che più ci preoccupano.
In concreto: la guarigione del paralitico, nel suo spirito e nel suo corpo, è la risposta di Gesù alla fede di coloro che lo portavano (Mc 2, 1-12; Mt 9, 1-8; Lc 5, 17-26); la fede è anche determinante nella guarigione della donna che soffriva emorragie e nella restituzione della vita alla figlia del capo della sinagoga (Mc 5, 21-43; Mt 9, 18-26; Lc 8, 41-56), o nel guarire il cieco Bartimeo (Mc 10, 46-52; Lc 18, 35-43), il servo del centurione (Mt 8, 5-13; Lc 7, 1-10); la figlia della donna cananea (Mt 15, 21-28), nella guarigione dei due ciechi (Mt 9, 27-31) e dei dieci lebbrosi (Lc 17, 11-19)3. La fede di coloro che soffrono nei casi citati precede l’intervento di Gesù per porre rimedio alla loro sofferenza ed alle cause che producono questa sofferenza: “vedendo la fede che avevano” (Mc 2,5; Mt 9,2; Lc 5,12). È quindi evidente la relazione tra la fede e la guarigione dei limiti e delle disgrazie umane. Gesù lo ha detto con la massima chiarezza a Giairo, il capo della sinagoga, che aveva sua figlia morta: “Non temere, abbi fede e basta” (Mc 5,36; Lc 8,50). Gesù era convinto che la fede è ciò che ci salva.
Ma ci salva da cosa? Dal peccato? Dalla perdizione eterna? Dall’inferno? No. A nulla di questo si riferisce Gesù quando dice: “la tua fede ti ha salvato” (Mc 5,34; Mt 9,22; Lc 8,48; cf. Mc 10,52; Mt 8,10.13; 9,30; 15,28; Lc 7,9; 17,19; 18,42). In tutti i casi ai quali questi testi alludono, quello che è in gioco sono situazioni di questa vita. Anzi situazioni di sofferenza nelle quali la fede agisce come una forza con la quale, mediante quello che rappresenta nella vita fidarsi di Gesù, del suo modo di pensare e di vivere, si attiva il potere della bontà e mediante la bontà si recupera la felicità. Così, secondo i vangeli, funziona il “meccanismo”, se mi si permette quest’espressione, della fede in Gesù.
Ma quest’elenco di racconti, nei quali si parla della fede in Gesù, non è sufficiente, perché in essi ci sono dati di enorme importanza, che frequentemente non si considerano, dal momento che in realtà si tratta di dati decisivi per comprendere la relazione, stabilita dai vangeli, tra la fede in Gesù e la religione, così come questa relazione solitamente si comprende e si spiega nella Chiesa. È decisivo concentrarsi per il momento su tre episodi che spiccano nel senso che ho appena indicato.
Nel racconto della guarigione del servo del centurione, abbiamo un fatto capitato a Cafarnao (Mt 8,5; Lc 7,1), cioè in Galilea, regione governata da Erode. Ma da Giuseppe Flavio4 sappiamo che Erode disponeva di truppe romane. D’altra parte il culto religioso era fondamentale nelle legioni romane, specialmente il culto all’imperatore5. Ebbene, di un centurione dell’esercito di occupazione Gesù ha affermato pubblicamente che “non aveva trovato in nessun israelita tanta fede” (Mt 8,10; cf. Lc 7,9), come quella che ha visto in quel militare straniero. Naturalmente, nel dire ciò, Gesù stava affermando che la fede per lui non era il comportamento fondamentale di una religione, ma che intendeva per fede “il comportamento di una persona”6.
In questo caso, il comportamento di un uomo buono che “aveva uno schiavo al quale voleva molto bene, molto ammalato ed in punto di morte” (Lc 7,2). Si può esprimere semplicemente il comportamento che ha impressionato Gesù dicendo che in quel caso era in gioco “una relazione umana minacciata”7. Una relazione, inoltre, intima. Questo vuole dire che per Gesù la fede non era l’adesione a dogmi, rituali, sacerdoti o cerimonie sacre. La fede evangelica più grande è la bontà che non sopporta la sofferenza e la perdita di un essere umano che si ama, sebbene quest’essere umano sia al livello più basso della scala sociale, secondo la cultura o i costumi nei quali ci muoviamo.
Un altro episodio eloquente è quello della guarigione della figlia di una donna cananea. Questa donna non apparteneva alle “pecore di Israele” (Mt 15,24), cioè per la mentalità dei giudei di allora era una donna pagana. E tuttavia Gesù le ha detto: O donna, grande è la tua fede! (Mt 15,28). In realtà, la grandezza elogiata da Gesù non è quella di una fede così come noi la intendiamo, perché così la Chiesa ce la propone e la spiega a partire dal “Cristianesimo religioso”, dai suoi dogmi e dai suoi rituali. La fede di quella donna non si basava su nulla di questo. Era una fede che senza dubbio aveva il suo fondamento in due cose: l’affetto che provava per sua figlia e la fiducia sicura che le ispirava Gesù.
È chiaro, quindi, che per gli evangelisti la fede in Gesù è un modo di comportarsi, un comportamento che è bontà, umiltà, affetto e fiducia. Questo si avverte in modo palpabile nella donna cananea, una donna pagana, una donna sicuramente ignorante, ma con un cuore d’oro ed una sensibilità enorme di fronte alla sofferenza di sua figlia. Questo è così forte e così decisivo nel Vangelo che in esso si esprime la fede che lo stesso Gesù ammira. Anzi, non solo l’ammira, ma essa arriva persino a modificare l’opinione dello stesso Gesù, che passò, dal vedere in quella madre qualcuno paragonabile ad un cane8, al vedere un esempio ammirevole della fede che merita di essere posta come modello.
Quello che colpisce ancora di più, rispetto al caso del centurione e della donna cananea, è l’episodio della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc 17, 11-19). Se pensiamo direttamente a quello che interessa per il tema di questo libro, il racconto dei dieci lebbrosi è redatto in maniera tale che l’insegnamento centrale dell’episodio non si trova nella guarigione dei lebbrosi, ma nella reazione che hanno avuto, da una parte i nove israeliti, quelli che credevano nella vera religione dei giudei; ed anche nella reazione che ha avuto, per parte sua, il samaritano, l’unico al quale non interessavano le convinzioni e le osservanze religiose imposte da Yahvé ai suoi credenti. I nove, per i quali la religione era importante, sono andati dai sacerdoti del tempio. E con questo sono rimasti così tranquilli nella loro coscienza9 che non si sono neanche ricordati di ritornare per ringraziare chi li aveva realmente curati, Gesù. Il samaritano, al contrario, poiché non credeva nei sacerdoti e nei loro rituali, quando si è visto curato10, ha fatto quello che fa qualsiasi persona normale, semplicemente ringraziare chi ti fa un favore molto importante nella tua vita. È evidente, quindi, che la religione disumanizza coloro che credono ciecamente in essa. Per questo la gente molto religiosa antepone il compimento degli obblighi religiosi ai sentimenti umani più elementari, in questo caso, alla gratitudine. Questo di per sé è importante. Ma l’aspetto più forte di tutto è che per Gesù il vero credente è colui che non aveva religione. Ecco perché al samaritano ha detto: La tua fede ti ha salvato (Lc 17,19). Se ci atteniamo letteralmente al testo di Luca, l’unico che non aveva religione è quello che aveva fede. Molto prima di Bonhoeffer, Gesù ha pensato ed ha parlato molto seriamente di una fede “non religiosa”.
Nei commenti classici sulla fede nei vangeli sinottici si nota una marcata tendenza ad interpretare l’atto di “credere” come equivalente di “tenere per vero” (quello in cui si crede)11. Come è logico, nell’interpretare in questo modo i racconti dei vangeli che si riferiscono alla fede, non si fa esegesi, ma incoscientemente si manipola il testo biblico per supportare le tesi dogmatiche postridentine che, soprattutto dopo Lutero, ha imposto il Magistero della Chiesa. In questo modo la fede evangelica si è vista spostata fuori dal suo posto. Ha perduto la sua costitutiva ed essenziale dimensione etica, per argomentare a favore della dogmatica, che riduce la “fede” a “verità” che bisogna accettare, ma che nemmeno si capiscono, né servono a gran cosa per rendere le persone credenti più oneste, più sincere, più buone e, certo, più felici.
In questo modo è stato chiaro fino a che punto una “fede snaturata” si è vista degradata alla triste condizione di una “fede inutilizzata”. Per questo capita frequentemente che in ambienti religiosi si trovino persone meticolosamente “ortodosse” nelle loro convinzioni di fede, ma al tempo stesso “insopportabili” per la convivenza e anzi scandalosamente “corrotte”.
Ma senza alcun dubbio è nel Vangelo di Giovanni che ci viene presentata la fede in Gesù in maniera tale che mette in questione, fin nelle sue più profonde radici, il nostro modo abituale di intenderla e di viverla. Questa comprensione della fede compare presto nel IV Vangelo. Se si legge con attenzione il testo evangelico, il problema si nota quasi a partire dall’inizio. Il capitolo secondo di questo vangelo inizia con il racconto di un matrimonio celebrato in Cana di Galilea (Gv 2,1-11). Un matrimonio nel quale, in un modo o nell’altro, è finito il vino prima che la festa sia finita e Gesù, che partecipava al matrimonio con i suoi discepoli, ha risolto il problema trasformando l’acqua che c’era in quella casa in un vino eccellente (Gv 2,10).
Ma l’aspetto più importante di questo racconto non consiste nella trasformazione dell’acqua in vino. L’aspetto più eloquente di questa storia è la finalità alla quale era destinata l’acqua trasformata da Gesù nel vino migliore. Nella casa di quella famiglia c’erano sei giare di pietra nelle quali si conservavano circa seicento litri d’acqua. Per quale motivo? Non per uso domestico, ma per le “purificazioni rituali” dei giudei (Gv 2,6). Questo Vangelo, quindi, sottolinea fino all’eccesso la pesantezza (giare di pietra) e soprattutto l’enormità (600 litri per una modesta famiglia di un villaggio), cosa che esigeva la religione. Mentre la cosa indispensabile per celebrare la gioia e la festa, ossia il vino, in quella casa era scarsa. Stando così le cose, cosa ha fatto Gesù? Ha trasformato la “religione” in “felicità”. L’acqua dei rituali si è trasformata nel miglior vino che, secondo il simbolismo biblico, rappresenta la gioia indicibile dei baci dell’amore (Ct 1,2 s; cf. 1,4).
Ed il racconto delle nozze termina dicendo che “questo è quello che ha fatto Gesù in Cana di Galilea, ha iniziato così i suoi segni, mostrando la sua gloria, e credettero in lui i suoi discepoli” (Gv 2,11). Letteralmente si può affermare che nella mentalità del Vangelo di Giovanni la fede in Gesù inizia dove finiscono la pesantezza e l’enormità della religione. In maniera tale che, invece di obblighi pesanti, nasce la felicità che sgorga dall’amore tra le persone. Il fardello della religione si trasforma in quello che è più squisitamente umano. Così si contagia la fede.
Di Cana di Galilea e della trasformazione dell’acqua in vino parla un’altra volta il IV Vangelo nel capitolo quarto, quando racconta la guarigione del figlio di un funzionario reale (basilikós), che aveva un figlio ammalato. In questo caso, quello che meno interessa è precisare se qui si parla con altre parole del “centurione” e della guarigione del suo servo o se è un caso diverso; questo è l’aspetto meno importante. Quello che è importante è che di nuovo la fede in Gesù è messa in relazione con la guarigione del ragazzo ammalato, che la narrazione dell’episodio presenta come frutto della fiducia del personaggio, che si fida della parola di Gesù perché ha udito che gli diceva: “Va’! Tuo figlio vive” (Gv 4,50). Per questo, poiché si è fidato totalmente della parola di Gesù, il racconto termina dicendo: “E credette lui e la sua famiglia al completo” (Gv 4,53). Se la fede in Gesù è iniziata dove è finito il fardello della religione, questa stessa fede si è propagata dove la minaccia della morte si è trasformata nella gioia che ci dà la certezza di vederci in buona salute.
Ma il Vangelo di Giovanni va più a fondo nella sua analisi della fede, perché non si limita a spiegare come sgorghi questa fede e come si propaghi. La teologia del IV Vangelo ci spiega anche perché con tanta frequenza la fede di solito diventa impossibile. Nel capitolo quinto, nella lunga controversia avuta da Gesù con i capi religiosi a causa del paralitico della piscina (Gv 5, 1-15), lo stesso Gesù arriva a dire ai suoi “avversari religiosi” che la fede era impossibile per loro. Perché? Perché come potete credere voi, che vi glorificate gli uni gli altri e non cercate la gloria che viene dal solo Dio? (Gv 5,44).
Per comprendere quello che Gesù dice in questo punto bisogna tener presente che nella teologia di Giovanni il fatto di cercare il proprio onore è considerato come una delle barriere decisive contro la fede in Gesù (Gv 5,44; 12,43)12. È importante sapere che nell’uso comune del linguaggio di quel tempo, la parola dóxa significa lo splendore del potere dei re e dei regni (cf. Mt 4,8; 6,29; Ap 21, 24.26). Non dimentichiamo che dóxa traduce nella versione dei LXX il termine ebreo kabôd, che indica il peso, il prestigio e l’onore che una persona possiede, soprattutto quando si tratta del re (1Re 3,13), ma fa anche riferimento in generale all’onore, al livello, alla dignità o al possesso di potere13.
Detto ciò, quello che Gesù dice ai “capi religiosi” del suo tempo è che chi va per la vita cercando onore, classe sociale e rango, sebbene desideri essere un “eletto” per avere influenza sugli altri, fare il bene, essere un apostolo, ecc., in realtà alza un muro insormontabile tra la sua vita e la fede in Gesù. Questa è la gestazione del classico tipo dell’uomo ortodosso e religioso, ma al tempo stesso incredulo senza saperlo; ed anzi è possibile che sia ateo fino nel midollo delle sue viscere disumanizzate. E la cosa peggiore della questione è che in non pochi casi il soggetto “ateo” non si rende neanche conto del fatto che crede ciecamente nei suoi riti e nelle sue ortodossie, ma in Gesù e nel suo Vangelo crede poco ed anzi è possibile che non ci creda per nulla.
Secondo il Vangelo, il peggiore nemico della fede non è l’“eretico”, ma l’“eletto”. Ecco perché, come spiegherò in seguito, persino gli apostoli di Gesù hanno avuto notevoli difficoltà con la questione della fede.
Ed il problema della fede, così come lo presenta il Vangelo di Giovanni, non è in relazione con dottrine o teorie su Dio, né con riti e cerimonie sulla religione. La fede, spiegata dal IV Vangelo, è in relazione principalmente con due fatti, propri della condizione umana, che sono comuni e familiari a tutti gli uomini: l’alimentazione e la salute.
La relazione tra la fede e l’alimentazione, di cui abbiamo bisogno per vivere e per essere felici, compare in questo Vangelo ripetute volte14: nell’eccellente ed abbondante vino delle nozze di Cana (Gv 2, 8-10), che è in relazione con la fede primitiva ed iniziale dei discepoli (Gv 2,11); nell’acqua viva che cerca la donna samaritana (Gv 4,7) e di cui ha bis...

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