Apnea
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Viaggio nelle profondità del corpo e dell'oceano. Per affrontare l'impossibile ogni giorno

Alessia Zecchini

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Viaggio nelle profondità del corpo e dell'oceano. Per affrontare l'impossibile ogni giorno

Alessia Zecchini

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Guardi in basso, davanti a te: il confine da attraversare è una piatta distesa azzurra apparentemente senza fondo, che attende solo di abbracciarti. Gonfi polmoni, pieghi le gambe e ti prepari a trattenere il fiato, a lungo, per metri e metri e metri, sempre più giù, oltre i pesci colorati e le gorgonie, giù, fino a quando la luce si affievolirà e poi sparirà, fino a quando il freddo ti annebbierà la mente e rischierà di farti perdere la concentrazione, fino alle «acque profonde» dove potrai lasciarti affondare e basta. ?15 metri, ?90, ?113… e poi la risalita: sbatti le pinne, raccogli le forze e ti spingi gradualmente verso l'alto. Ecco, ce l'hai fatta. Sei di nuovo fuori. Ora, finalmente, riprendi fiato.La pluricampionessa Alessia Zecchini, «la donna più profonda del mondo», ci guida alla scoperta dei segreti dell'apnea. Alternando aneddoti sulla storia della competizione alle tappe del suo percorso di sportiva internazionale ci conduce in un'esplorazione personale degli abissi del mondo fisico e dell'interiorità: dalle immersioni nel Mediterraneo, nel Mare dei Caraibi e nel Golfo di Aqaba ai sette anni di lotta con i disturbi alimentari; dalle prime vittorie e medaglie alla perdita del maestro in un incidente subacqueo; dalle tecniche con cui ha imparato a controllare le emozioni negative all'impegno che da anni esprime in difesa dell'ambiente. Episodio dopo episodio, il suo racconto si fa introspezione, immersione nella vita e nella ricerca di sé, sempre a caccia dell'equilibrio tra ansie e affetti, eccitazione e pazienza, entusiasmo e controllo.Apnea è un'indagine del limite e di che cosa significa provare a superarlo. Un invito ad affrontare le nostre paure. A scendere nel punto più buio e profondo di noi per risalire verso la luce e l'aria più forti di prima.

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Information

Jahr
2021
ISBN
9788865769287
40 metri
Ascoltando il tuo corpo
Probabilmente è anche per questo, perché la vita di noi tutti è cominciata dal mare e da un mondo acquatico in cui si trattiene il respiro, che mi rifiuto di considerare l’apnea uno sport estremo. Mi rifiuto. Ci si fa molto più male sciando o giocando a calcio, come credo possa testimoniare il mio idolo Francesco Totti. Questo però non significa che le immersioni non presentino i loro rischi, rischi anche seri, che è essenziale conoscere se si decide di dedicarsi a questa disciplina.
Una delle prime lezioni del mio primissimo corso di apnea, quello con Antonio, fu dedicata a un pericolo che ogni apneista ha ben presente: se non ascolti il tuo corpo e non ne rispetti i limiti, se «tiri» troppo, puoi incappare in un blackout, che in termini tecnici si chiama «sincope ipossica»; in pratica, puoi subire una breve perdita di conoscenza causata dalla mancanza di ossigeno prolungata, oppure incorrere in una samba. Durante un episodio di samba, che in gergo medico si chiama mioclonia, restiamo coscienti ma non vigili – perdiamo ogni riferimento sensoriale, come quelli dati dalla vista e dall’udito. Iniziamo a «ballare» (ecco perché proprio «samba») a causa delle contrazioni muscolari involontarie che anticipano l’arresto circolatorio dovuto alla perdita di coscienza quando, non respirando per molto tempo, l’ossigeno (o2) contenuto nel nostro corpo diventa troppo scarso. Nuotando in apnea, infatti, consumiamo una quantità importante di ossigeno senza inspirarne, mentre il livello di anidride carbonica (co2) nel sangue sale gradualmente, poiché questa sostanza è generata dall’attività metabolica dei nostri tessuti ed è impossibile bloccarla. Quando l’ossigeno scende sotto una certa soglia, si ha la sincope, appunto, di cui potremmo dire che la samba è l’anticamera.
Io di blackout ne ho avuti parecchi. Figurarsi, ogni apneista sa che può capitare e impara a non lasciarsi spaventare dalla possibilità: sarebbe come se un calciatore non scendesse in campo per paura di strappi e contratture. C’è anche da dire che la sincope, mentre siamo in acqua, si manifesta come una progressiva perdita di lucidità, come se stessimo per addormentarci, non è una sensazione opprimente o spaventosa; d’altronde, nella stragrande maggioranza dei casi si risolve da sola e senza conseguenze durature non appena si viene riportati in superficie. Per fare un esempio, dopo l’ultima che ho avuto, lo scorso settembre a Cefalù, ho ripreso a respirare da sola in 7-8 secondi da quando i safety mi hanno recuperata. Ma qualche volta, di rado, le cose possono andare storte.
È ciò che è successo, ci spiegarono al corso, a Audrey Mestre, la moglie del grande apneista cubano Pipin Ferreras: era a sua volta un’atleta straordinaria e aveva collezionato un record dopo l’altro in una specialità apneistica molto particolare, l’assetto variabile assoluto, detta anche No Limits dal nome del suo famoso sponsor. In No Limits, gli atleti si immergono con l’ausilio di una zavorra mobile detta «slitta»; è la disciplina in cui si raggiungono le quote più profonde, ma vent’anni fa era anche parecchio pericolosa. Il 12 ottobre 2002, Audrey ebbe un incidente durante un tentativo di stabilire un nuovo record mondiale, non lontano da Santo Domingo: andò in sincope quando si trovava ancora a una quota molto profonda e non se la cavò. Avrebbe toccato i −171 metri, mai nessuno come lei. All’epoca non lo sapevo, ma quella lezione dedicata a Audrey Mestre sarebbe stata una delle tappe decisive per la mia storia atletica e la mia vita, perché mio padre mi fece promettere di non cimentarmi mai nel No Limits. Una promessa che ho sempre mantenuto.
Lo preciso subito, oggi un incidente di quel genere sarebbe pressoché impossibile: le norme e i protocolli di sicurezza sono cambiati radicalmente. In primo luogo, all’epoca la sicurezza in acqua era affidata ai subacquei con le bombole, che per riportare gli atleti in superficie dovevano eseguire le tappe di decompressione necessarie a non mettere a rischio anche la propria incolumità. Adesso i safety divers sono a loro volta apneisti con una preparazione atletica a prova di bomba, che ti vengono incontro verso i −30, −35 metri, in caso di bisogno ti acchiappano e ti chiudono le vie aeree per riportarti a galla nel giro di pochi secondi, senza bisogno di soste di decompressione. Come mai questa differenza? Senza addentrarci in dettagli troppo tecnici, i subacquei in immersione introducono nei polmoni i gas «freschi» erogati dalle bombole a ritmo costante; se però risalgono troppo in fretta, la repentina diminuzione della pressione impedirebbe all’azoto contenuto nel sangue di smaltirsi correttamente, causando la formazione di vere e proprie bolle che possono dare conseguenze anche molto serie se non trattate con tempestività. Non così gli apneisti, safety o atleti che siano: avendo nei polmoni solo l’aria introdotta prima di scendere, non hanno gas in eccesso nella circolazione sanguigna e possono riemergere subito.
Non solo, ma, paradossalmente, si rischia di più in allenamento che in gara, perché durante una competizione ci sono i safety pronti a recuperarti e, nella malaugurata ipotesi che le tue condizioni siano più serie, un medico che assiste a ogni tuffo. Per questo si raccomanda di immergersi sempre almeno in coppia, mai da soli. Mai mai mai.
Bisogna poi tener conto delle peculiarità dell’ambiente in cui ci si immerge, oltre che dei limiti del corpo umano, per esempio della temperatura dell’acqua e della visibilità. Ciascun tuffo in acque libere prevede che a indicare all’atleta la linea di discesa ci sia un apposito cavo-guida, con contrassegni colorati ogni dieci metri in modo da darci una mano con l’orientamento; in alcune discipline, ci è consentito ricorrere al cavo come ausilio per spostarci (per esempio nella Free Immersion, in cui scendiamo e risaliamo avvalendoci della cima), in altre, come nell’assetto costante, solo negli ultimissimi metri della discesa e una sola volta, quando viriamo dopo aver staccato il cartellino dal piattello e invertiamo la rotta verso la superficie, e negli ultimi momenti di risalita, per essere sicuri di riemergere nel punto giusto. Cosa che, fra lo stordimento da narcosi e gli appositi occhialini allagati, perfetti per vedere sott’acqua ma assai poco raccomandabili all’asciutto, non è sempre garantita.
Di certo, però, quando il cavo oltrepassa i −40 metri le cose cambiano, in qualunque specialità. Sì, perché i primi metri di un tuffo in mare aperto passano in un lampo: l’acqua è calda, la visibilità ti consente di goderti lo spettacolo, anche mentre sei concentrata sulla pinneggiata, sulle braccia ben tese in avanti e sulla cima che scende nel blu. Già verso i −20, almeno nel Mediterraneo, si avverte qualche differenza. In primo luogo cambia la temperatura. A questa quota, infatti, c’è quella che potremmo definire la terra di confine fra due mondi: il termoclino, detto anche zona di transizione. Nei corpi idrici profondi, ovvero laghi, mari e oceani, le acque superficiali e le acque profonde hanno caratteristiche molto diverse, come se fossero due province dello stesso regno: le acque superficiali corrispondono alla fascia raggiunta e riscaldata dai raggi del sole, nella quale, di conseguenza, la temperatura cambia a seconda dei momenti della giornata e della stagione; nel Mediterraneo si toccano anche i 28 gradi in estate. È qui che si osserva la maggior parte dello spettacolo sommerso di cui vi ho raccontato nel capitolo precedente, perché la presenza della luce solare permette la fotosintesi e la sopravvivenza degli organismi vegetali, che a loro volta offrono nutrimento agli animali. Man mano che si scende, al contrario, i raggi del sole si fanno sempre più fiochi, e così anche la vita vegetale e animale diventa più rara, fino ad arrivare alle vere e proprie acque profonde: qui la luce è scarsissima e l’acqua è molto più fredda rispetto ai primi metri di discesa, anche se la temperatura resta pressoché costante malgrado l’avvicendarsi delle stagioni. Fra queste due zone si trova l’«acqua di mezzo» del termoclino.
Nel Mediterraneo, che, come accennavo, non è un mare caldo quanto quelli caraibici o l’Oceano Indiano, questa zona di transizione inizia già verso i −20 metri e si mantiene fino ai −40 circa; qui la temperatura decresce rapidamente di pari passo con la profondità, per poi stabilizzarsi, da −40 in giù, su quella delle acque profonde, che nel nostro mare si aggira sui 13 gradi. Tutto sommato non male, rispetto ad altri punti del Sesto Continente: è una temperatura relativamente alta, perché in corrispondenza dello Stretto di Gibilterra, dove il Mediterraneo incontra l’Oceano Atlantico, il fondale è poco profondo, appena 320 metri: in questo modo, nel nostro mare entrano solo le acque oceaniche che si trovano sopra quella quota, più calde rispetto alle masse inferiori (la profondità media dei fondali atlantici è sui 3.300 metri, per dare un’idea).
Non che per un apneista cambi granché: raggiungere il termoclino significa inevitabilmente prepararsi a una botta di freddo mostruoso, detto in parole povere. E non è che ci sia da pensare solo alla temperatura, perché a −40 metri si verifica anche un altro fenomeno: è l’inizio della «fase di caduta».
In base alla legge di Boyle-Mariotte, in condizioni di temperatura costante, il volume di un gas varia in modo inversamente proporzionale alla pressione a cui il gas viene sottoposto; in pratica, più si scende, più la pressione aumenta e più il volume dell’aria nei nostri polmoni si riduce. Lo spazio lasciato libero dal gas viene quindi colmato dal nostro sangue, grazie a un fenomeno denominato blood shift: il sangue viene richiamato dalle zone periferiche del corpo per concentrarsi là dove si trovano gli organi vitali, quindi, appunto, a livello del torace. Su questo, abbiamo un insospettabile punto di contatto con gli esseri marini: il blood shift è un fenomeno adattativo che contrasta la pressione idrostatica e consente un impiego più razionale dell’ossigeno a disposizione, concentrandolo negli organi vitali. Forse non è pura follia cercare di spingersi sempre più a fondo, come si credeva solo qualche decennio fa… ma ne riparleremo fra qualche pagina. In ogni caso, però, i liquidi non sono leggeri quanto i gas, e di conseguenza man mano che la quantità di gas cala per lasciare spazio ai liquidi risultiamo più pesanti: il nostro assetto diventa negativo e scendiamo quasi in caduta libera. Perché proprio a −40 metri? Perché è circa a quella quota che si entra nelle acque profonde: essendo più fredde, sono anche più dense e più pesanti, ed esercitano una pressione maggiore sul nostro corpo rispetto alle fasi iniziali del tuffo.
È bellissima, la fase di caduta, mentre scendi a un metro al secondo hai la sensazione di volare. All’inizio della fase di discesa, l’obiettivo principale di ogni atleta è contrastare la galleggiabilità del proprio corpo, la spinta dell’acqua che tende a mandarci in superficie grazie alla grande quantità d’aria che abbiamo incamerato. Da principio le pinneggiate con cui ci facciamo largo verso il piattello sono ampie, poi si fanno sempre più strette, finché quasi non si annullano ed è come planare verso il blu; il corpo diventa un tutt’uno con l’acqua e scende senza muoversi, senza sforzo, basta che rimanga perfettamente in asse, verticale e rilassato. Fra l’altro, sono stata fra le prime atlete ad affrontare questa fase con le braccia ben tese in avanti in modo da poterle usare come timone e, al contempo, sentire l’acqua che scorre sulle uniche zone di pelle scoperte – le caviglie, le mani e soprattutto il viso. Bisogna poi tenere presente che da qui in avanti la luce sarà sempre più scarsa, quindi occhi bene aperti, almeno per me. Non li chiudo mai per tutta la durata del tuffo, anche se alcuni colleghi lo fanno: il contrasto fra il blu sempre più scuro dell’acqua e il bianco o il giallo del cavo-guida è un aiuto prezioso per mantenere l’orientamento.
Da −40 in giù, in concomitanza con la planata nel blu, è necessario compensare spesso e con una tecnica costante, che in gergo chiamiamo mouth fill: portiamo l’aria all’interno della bocca fino a riempirla completamente, poi teniamo la glottide ben chiusa in modo che l’aria non se ne vada in gola, mentre il naso è tappato dallo stringinaso; in questo modo le trombe di Eustachio rimangono sempre aperte e garantiscono una compensazione ininterrotta. L’idea di gonfiare le guance sott’acqua stile pesce palla può sembrare buffa, ma in realtà il mouth fill è un metodo complesso: lo si padroneggia solo dopo un lungo allenamento, anche perché richiede l’uso di muscoli molto piccoli e difficili da coordinare per chi non è agonista. D’altro canto, come per le attrezzature, anche le tecniche di compensazione si sono evolute con il passare dei decenni, per adattarsi alle sempre maggiori profondità che raggiungiamo.
Insomma, date le premesse, si capirà come mai in questa fase sia essenziale conservare il massimo controllo sul nostro corpo, saperlo ascoltare sottoponendo tutto il nostro sistema a una verifica costante e meticolosa: dobbiamo mantenere i muscoli rilassati pur conservando una posizione corretta e funzionale al tuffo, più idrodinamica possibile, senza però ignorare gli eventuali segnali di tensione o pericolo, anche se siamo focalizzati sull’obiettivo al cento per cento. Il corpo umano è davvero una macchina perfetta, e questo vale a maggior ragione per il nostro cervello, capace di una comunicazione minuziosa, accuratissima – basta saperne cogliere e interpretare il linguaggio.
In questo senso, dubito sarei mai riuscita a raggiungere il grado di controllo e di sicurezza che posso dire di avere ora senza l’aiuto di Giorgio Nardone, uno psicoterapeuta specializzato, fra le altre cose, nella scienza della performance.
Giorgio Nardone e io ci siamo incontrati nel 2013 quasi per caso, e anche qui, come per tante altre cose, devo ringraziare papà: si era trovato a partecipare a una conferenza dedicata alle energie rinnovabili ed era rimasto colpito dall’intervento di questo psicoterapeuta aretino. Papà aveva capito che la preparazione mentale era e sarebbe stata fondamentale per la mia carriera agonistica, e sapeva che io, reduce dai campionati italiani outdoor e dagli Europei cmas del 2012 ad Antalya, desideravo migliorare le mie prestazioni nell’assetto costante, oltre a diversi altri aspetti della mia gestione delle gare.
Non che l’europeo in Turchia fosse poi stato un disastro completo, anzi: oltre al fatto che le prove outdoor si tennero in una baia stupenda, avevo portato a casa un bel quarto posto (il primo andò alla mia cara amica e ...

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