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L'arte dell'improvvisazione dagli oracoli allo streaming

Roberto Ottolino

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  1. 192 Seiten
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L'arte dell'improvvisazione dagli oracoli allo streaming

Roberto Ottolino

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Über dieses Buch

Cosa significa improvvisare? Come mai il nostro rapporto con il tempo è sempre cosÏ controverso? PerchÊ, a conti fatti, non possiamo non improvvisare? Rispondere a queste domande è tutt'altro che semplice, ma diventa necessario nel momento in cui, all'indomani di quella che è stata probabilmente la piÚ grande improvvisazione di massa della storia dell'umanità, avvertiamo il bisogno non solo di capire cosa ci è accaduto, ma anche di definire nuovi modelli di azione per il futuro. #Freestyle è un percorso necessariamente eclettico, originale, a tratti spiazzante, incentrato su due grandi approcci culturali, sociali e antropologici, soltanto in apparenza contrapposti: l'improvvisazione come reazione, ovvero la gestione virtuosa della contingenza, e l'improvvisazione come creazione, ossia l'esplorazione di scenari ignoti alla ricerca di nuove opportunità. Da Lucio Anneo Seneca a Marco Van Basten, da Marina Abramovi? a Keith Jarrett, una raccolta di spunti preziosi per avventurarci alla scoperta di tutto ciò di cui ancora non sappiamo di avere bisogno.

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Information

Verlag
Hoepli
Jahr
2022
ISBN
9788836007035
[FUORI TEMPO]
L’IMPROVVISAZIONE NON SI IMPROVVISA
AVREI DAVVERO VOLUTO ESSERE IO, L’AUTORE DI questo eccezionale aforisma1, ma sono stato preceduto di alcuni decenni da un illustre concittadino.
La frase appartiene infatti a Giancarlo Schiaffini, compositore e trombonista nato a Roma nel 1942 che, dopo un’insospettabile ma tutt’altro che irrilevante laurea in fisica, si è dedicato in maniera esclusiva al free jazz e alla musica d’avanguardia, accumulando un curriculum impressionante: studi con Karl-Heinz Stockhausen e Franco Evangelisti, fondazione del gruppo strumentale da camera Nuove Forme Sonore, docenze a Friburgo, Melbourne e New York, produzioni con John Cage e il Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza, del quale è stato collaboratore dal 1972 al 19832.
Quella che a una prima lettura potrebbe sembrare una dichiarazione sconclusionata e contraddittoria, poco più di una boutade senza grande profondità, svela in realtà il potentissimo paradosso nascosto nel concetto stesso di improvvisazione: la qualità, l’attendibilità e l’autorevolezza del gesto estemporaneo, di qualsiasi tipo, sono influenzate in modo determinante dall’esperienza, dalla memoria, e da un talento opportunamente allenato. Per imparare a improvvisare, insomma, occorrono tempo, dedizione e uno studio sistematico, lungo un percorso che, idealmente, non si conclude mai. E se è vero che non si smette mai di imparare, allora è vero anche che non si smette mai di improvvisare: perché cos’è in fondo la vita stessa, se non una lunga, costante, magnifica improvvisazione?
COSA SIGNIFICA IMPROVVISARE
Si potrebbe liquidare la questione in un modo rapido, e per la verità un po’ furbo, affermando che improvvisare significa semplicemente esistere, con tutto ciò che ne consegue. Improvvisiamo quando ordiniamo un cocktail al bar, improvvisiamo quando attraversiamo la strada, improvvisiamo quando telefoniamo a un amico, improvvisiamo quando sosteniamo un colloquio di lavoro, improvvisiamo quando chiediamo un appuntamento alla persona che ci piace. Improvvisiamo, insomma, in quanto esseri viventi chiamati a prendere decisioni nella speranza che avranno un impatto positivo sul nostro benessere, immediato o futuro, esattamente come fanno anche i tafani, le balene, i barbagianni, gli astici o gli eucalipti, ciascuno naturalmente con i suoi tempi e modi.
Ma è evidente che non tutte le decisioni sono uguali: ogni scelta ha un peso diverso in termini di complessità, difficoltà, urgenza, e soprattutto rischio. Scrivere un messaggio alla persona che ci piace per chiederle di uscire possiede un coefficiente di improvvisazione sicuramente inferiore rispetto all’esprimere il desiderio di persona; anche se non sapremmo stabilire esattamente di quanto, avere la possibilità di riscrivere più volte il testo, cercando con calma le parole giuste, ci sembra quasi sempre una modalità meno stressante rispetto alla richiesta dal vivo, per la quale abbiamo una sola possibilità che dobbiamo giocarci subito al meglio, con tutti i rischi del caso.
Eppure, entrambe le situazioni sono accomunate da una componente decisiva, soverchiante: l’assenza di certezze riguardo al tipo di risposta che riceveremo. Potrebbe essere positiva, e dunque spingerci immediatamente verso l’entusiasmo, ma potrebbe anche essere negativa, gettandoci nel baratro della delusione: due scenari opposti ma, in linea teorica, entrambi senz’altro possibili.
Per questo, quando facciamo una richiesta di questo tipo, le nostre energie non si esauriscono nella domanda. Al contrario, la parte piÚ rilevante della nostra intelligenza emotiva è impegnata nel prepararsi simultaneamente per i due esiti, vivendo di fatto una contemporanea elaborazione mentale dei due scenari per quei lunghissimi secondi (o minuti e oltre, se la richiesta è stata mediata tecnologicamente) che ci separano dal responso: una fase estremamente delicata, in cui ci proiettiamo virtualmente nel futuro e iniziamo a preparare le nostre due reazioni, immaginando già quello che diremo.
E mentre il nostro cervello elabora questa duplice fantasticheria ucronica, i nostri sensi processano alla velocità della luce le microreazioni che la nostra proposta ha suscitato nell’altra persona, alla ricerca di indizi che ci permettano di intuire, con una frazione di secondo di vantaggio, quale risposta riceveremo: a seconda dei casi, cambiamenti nell’espressione, sorrisi, movimenti del corpo, schiarimenti di voce, oppure semplicemente emoji, frasi introduttive, e in definitiva il tempo stesso di elaborazione della risposta. Intuire con ragionevole fiducia il responso in anticipo ci permette di prepararci in modo più accurato per la nostra ulteriore replica, calmierando le emozioni più estreme: terremo a bada l’entusiasmo più sfrenato, in caso positivo, per evitare di sciorinare subito tutte le carte in tavola; nasconderemo la delusione più cocente, in caso negativo, per preservare il nostro amor proprio.
In entrambi i casi il nostro agire sarà stato composto da una miriade di piccole azioni fra loro interconnesse, frutto dell’incrocio fra variabili psicologiche, ambientali e, in special modo, culturali. Ecco perché il luogo migliore per iniziare la nostra esplorazione non può che essere il vocabolario.
Definizioni e pregiudizi
Se cerchiamo il significato di improvvisare all’interno del vocabolario online Treccani, otteniamo tre definizioni diverse. La prima è quella più generica:
Dire, scrivere, comporre (versi, un discorso, ecc.) all’improvviso, seguendo l’ispirazione del momento, senza cioè preparazione o meditazione; comporre musica mentalmente nell’atto stesso dell’eseguirla.
Capiamo quindi che a monte dell’atto stesso dell’improvvisare c’è uno scenario imponderato, vago, nel quale sembra però comunque possibile muoversi con una certa serenità guidati dall’ispirazione e quindi, segnatamente, dal proprio talento. Il focus resta centrato sulla dimensione artistica, in ogni sua forma, sottintendendo la presenza di un pubblico informato dell’improvvisazione in corso, e dunque di un maggior valore percepito a causa dell’abilità esibita in scena.
La seconda definizione allarga, e non di poco, l’orizzonte:
Con significato piĂš generico, organizzare, allestire in fretta qualche cosa, di solito per circostanze imprevedute.
Fa il suo ingresso un elemento improvviso, inatteso, inaspettato, che implicitamente segna l’innesco, più o meno diretto, dell’azione. È successo qualcosa, qualcosa di imprevisto, forse addirittura di negativo, che ha cambiato le carte in tavola e ci costringe a una reazione. La dimensione temporale, che prima si limitava alla simultaneità fra composizione ed esecuzione, si carica di un nuovo tratto, senz’altro più drammatico: l’urgenza.
La terza e ultima definizione complica ulteriormente il discorso, poichĂŠ introduce una dimensione qualitativa:
Nel riflessivo, e con complemento predicativo, assumere improvvisamente un aspetto, una funzione insolita, senza avere alcuna preparazione specifica.
Qui il senso di urgenza raggiunge il livello massimo. Un livello talmente elevato che, pur di risolvere la contingenza, siamo disposti a delegare le operazioni a chi, in uno scenario ordinario, non possiederebbe le competenze necessarie. Ma evidentemente la persona piÚ titolata in questo momento è impossibilitata ad agire, e dunque dobbiamo necessariamente accontentarci della seconda, o della terza, o della decima scelta disponibile.
È lo scenario più drammatico, che rimette fortemente in discussione il rapporto fra improvvisazione e talento. Se all’inizio l’atto stesso di improvvisare costituiva intrinsecamente una dimostrazione di abilità, ora agiamo semplicemente per ripiego: ci interessa trovare una soluzione efficace, e non ci curiamo granché della forma estetica che essa assumerà.
L’assenza di talento emerge nella sua dimensione più deteriore quando leggiamo la definizione di improvvisato:
Con riferimento a composizioni letterarie o musicali, include a volte un giudizio negativo (per le qualità spesso scadenti delle creazioni estemporanee, per la mancanza del necessario lavoro di preparazione e di lima, e anche perchÊ non di rado quella che è detta ispirazione è soltanto abilità e bravura).
Qui il divario è massimo: l’improvvisato è, sostanzialmente, un impostore che millanta un talento che non possiede o, peggio ancora, simula un’improvvisazione laddove sta in realtà solo eseguendo meccanicamente qualcosa che ha già preparato in anticipo.
Già dal confronto fra queste poche definizioni, è evidente come la nostra percezione culturale dell’improvvisazione risulti decisamente controversa, se non proprio contraddittoria, alla luce della grande complessità di scenari che essa può attraversare.
In uno scenario ordinario, privo cioè di urgenze, siamo ben disposti a premiare un atto estemporaneo purché esso mantenga uno standard estetico elevato, limitando al minimo gli errori. Al tempo stesso, però, pretendiamo che l’atto sia verosimile, credibile, autentico: un’improvvisazione di qualità, quindi, deve anche necessariamente sembrare un’improvvisazione. Diversamente ci sentiremmo truffati.
In uno scenario straordinario, carico di urgenze, siamo invece ben disposti a sacrificare la dimensione estetica purché lo status quo venga ripristinato tempestivamente almeno a livello funzionale. E dato che l’urgenza più tipica è proprio l’indisponibilità del talento di prima scelta, accettiamo di buon grado che l’improvvisazione venga eseguita da qualcuno che non possiede le competenze specifiche, e dunque agisce fuori ruolo: ne celebriamo anzi ben volentieri le gesta, per quanto disarmoniche e antiestetiche possano essere, nel caso in cui contro ogni pronostico riesca a risolvere la situazione.
Ciò che proprio non siamo disposti a tollerare è l’intervento, in uno scenario ordinario, di qualcuno che non risulti preparato in modo adeguato. Ma attenzione: stiamo comunque parlando di improvvisazione, dunque nello specifico desideriamo qualcuno che sia preparato a non essere del tutto preparato. Vogliamo insomma assistere a una performance di qualità, ma essere costantemente rassicurati del fatto che si tratta di un qualcosa di autentico, non preparato a tavolino. Ricerchiamo i segni della verosimiglianza, le minuscole crepe strutturali, le piccole esitazioni nel prendere le decisioni. Siamo insomma calati, magari non del tutto consapevolmente, in una dimensione formale decisamente anomala: l’estetica dell’imperfezione.
Estetica dell’imperfezione: dagli oracoli al rap
Per poter parlare adeguatamente di imperfezione, dobbiamo necessariamente mettere a fuoco cosa si intenda esattamente per perfezione. Il verbo latino perficere significa letteralmente “compiere, completare, finire, terminare, fare completamente”. Ci troviamo dunque su un terreno in qualche modo precedente rispetto a quello in cui ci muoviamo abitualmente in termini culturali: più che evocare categorie ideali come l’insuperabilità, l’impossibilità di fare meglio o la proiezione verso l’assoluto, la perfezione ci trasmette per prima cosa, con un certo inconfondibile pragmatismo romano, la conferma di aver portato a termine quello che c’era da fare. L’imperfetto è dunque tutto ciò che ricade nell’incompiuto, nell’incompleto: ciò che risulta non ancora finito, e dunque può e deve essere completato aggiungendo tutto quello che ancora manca.
È inevitabile, tuttavia, trascendere dal piano quantitativo a quello qualitativo: ciò che è completo, e dunque perfetto, risulta certamente migliore rispetto a ciò che è incompleto, e dunque imperfetto. La perfezione diventa lo stato di cose in cui non è piÚ possibile migliorare, poichÊ nulla può piÚ essere aggiunto. Un risultato ambizioso, se non addirittura utopistico, che richiede inevitabilmente un attento lavoro preparatorio, con lo scopo di prevenire e risolvere in anticipo qualunque criticità che potrebbe compromettere il risultato. Per usare le parole del filosofo Alessandro Bertinetto:
È l’estetica dell’organizzazione formale progettuale anteriore alla sua esecuzione: l’estetica dell’opera come universale “platonico” che esiste indipendentemente dalle sue realizzazioni empiriche e che premia la fedele adeguazione di queste ultime alla prima; l’estetica dell’eliminazione della contingenza3.
Lo slancio verso la perfezione, intesa come ideale teorico potenzialmente irraggiungibile, risulta però inevitabilmente frustrante e problematico: siamo pur sempre esseri umani, e in quanto tali limitati, fallibili, imperfetti. Sappiamo fin troppo bene che, per quanti sforzi preventivi possiamo fare, non potremo mai prevedere davvero tutto: ci sarà sempre un imprevisto, un inconveniente, un cambio di programma a cui dovremo far fronte.
Più della contemplazione della perfezione, allora, ciò che davvero ci esalta è proprio la possibilità di ammirare un talento mentre affronta, e supera, la contingenza. Un’improvvisazione ben eseguita ci riguarda tutti da vicino, perché ci ricorda la possibilità che abbiamo, come esseri umani, di prenderci una rivincita sul destino, sulla natura, sulla vita: magari non potremo prevedere tutto, ma potremo quantomeno affrontare il problema in tempo reale, facendo valere al meglio le nostre limitatissime risorse. È una guerra ad armi scandalosamente impari che di tanto in tanto, tuttavia, riusciamo a vincere.
Per questo ci affascina da sempre l’improvvisazione artistica, in ogni sua forma: è una metafora estetica dell’improvvisazione ben più grande che tutti noi, ogni giorno, conduciamo nelle nostre vite. E perché questa metafora sia credibile, attendibile, in grado di scatenare in noi la sospensione dell’incredulità, è necessario che l’improvvisazione porti con sé delle tracce tangibili di imperfezione: una nota di sax un po’ sporca, un tiro al volo svirgolato un po’ sopra la traversa, una battuta spontanea recitata con la voce un po’ roca. Una collezione di tanti piccoli po’ capaci, tutti insieme, di tracciare il confine sostanziale che sta tra un’azione perfetta e un’azione vera.
Nessuno meglio di Jimmy Page, il leggendario chitarrista dei Led Zeppelin, ha saputo evocare la grazia scheggiata che prende vita in quegli attimi:
Quello che mi piace dell’improvvisazione è che la grande musica è fatta di tensione e di sollievo: a volte viene fuori qualcosa e altre no. Non hai fallito se non ti è uscito un bell’assolo, si tratta piuttosto di un’eroica storpiatura. Le tue possibilità di successo, però, aumentano parecchio quando sei circondato da grandi musicisti, com’era nel mio caso4.
Il contrasto inevitabile fra qualità e autenticità, fra perfezione e imperfezione, crea però inevitabilmente degli attriti quando ci approcciamo all’improvvisazione con intento critico. Il confine perfetto fra le due istanze ovviamente non esiste: varia in base alla sensibilità personale, varia in base al contesto culturale, varia in base allo Zeitgeist.
Uno dei dibattiti piÚ suggestivi in merito è quello relativo a una delle forme piÚ arcaiche di improvvisazione conosciute: gli oracoli. Collocato nei pressi della ci...

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