Storia di Tönle. L'anno della vittoria
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Storia di Tönle. L'anno della vittoria

Mario Rigoni Stern

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Storia di Tönle. L'anno della vittoria

Mario Rigoni Stern

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La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto per caso nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la sopravvivenza sua e della civiltà cui sente di appartenere.
L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta la storia di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra. Il lento ritorno alla vita, la fatica di riannodare i fili degli affetti e dei sentimenti, la riscoperta di luoghi e ritmi di vita perduti: Rigoni Stern dà voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.

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Information

Verlag
EINAUDI
Jahr
2013
ISBN
9788858410530

L’anno della vittoria

Capitolo primo

Il cannoneggiamento era incominciato la notte del 24 ottobre, alle tre. I cannoni dall’altra parte avevano subito risposto e in breve sembrava che tutti, italiani e austriaci, volessero dar fondo alle riserve di munizioni. Nei giorni successivi, come trascorreva il tempo e gli austriaci si allontanavano, smisero di sparare i piccoli calibri, poi smisero anche i medi e solo i grossi cannoni prolungati accompagnavano la ritirata con ferocia spietata. Dopo quel continuo boato che sembrava non dovesse mai aver fine, venne finalmente un silenzio profondo e impressionante che da quattro anni piú nessuno, da quelle parti, aveva ascoltato. Una sera venne anche la notizia che la guerra era finita, che era stato firmato l’armistizio, e le poche campane superstiti ne mandarono l’annuncio per i piccoli paesi sparsi tra le colline.
Quella notte non dormí. Stava rannicchiato, come avvolto, nel saccone di cartocci di granoturco: aveva fisso nella memoria la mattina del 16 maggio 1916 quando dovettero scappare verso la pianura. Sua madre era andata via disperata tenendosi stretta Orsola che aveva appena imparato a camminare, mentre Nina si era attaccata ai suoi pantaloni senza piangere ma con gli occhi spalancati dalla paura. Ricordava anche il vecchio Tönle e il cane Nero che spingevano via le pecore verso il bosco, in alto. Il vecchio gridava al cane: – Dài, dài Nero! Para! – e alla gente della contrada: – Via, andate! Ostia di ferro. Tornerete quando sarà passata!
Con le gambe come fossero legate e il cuore gonfio che sembrava scoppiare erano andati via per la strada che costeggia il letto del Grabo; voltandosi indietro avevano visto le loro case senza vita, chiuse le porte e le finestre come mai lo erano state, nemmeno quando soffiava la tormenta, e con i camini senza il fumo. I carabinieri lungo la strada che andava oltre i monti spingevano i piú restii e facevano fretta e largo ai soldati che salivano dalla pianura. Alle loro spalle il paese bruciava e il campanile sembrava una torcia. Ogni tanto un grosso boato faceva sussultare la terra.
Ora, in questa prima notte silenziosa, sentiva che anche il nonno non dormiva e che si voltava e rivoltava nel suo letto. – Non dormi neanche tu, nonno? – gli chiese. – Non si sentono piú sparare i cannoni.
– Non si sentono. È finita la guerra, ma domani quando vai su devi stare attento. Chissà come sarà la nostra casa.
Si alzarono prima dell’alba. Il vecchio discoprí le braci e mise sul focolare una fascina che rischiarò la stanza; scese anche sua madre che posò tre fette di polenta sui mattoni caldi, e quando furono abbrustolite ne mangiarono una per ciascuno.
Lasciata la piccola casa del Prà del Giglio dove aveva trovato rifugio con i suoi in quel maggio del 1916, camminava per la nuova strada militare che risaliva a tornanti le pendici dell’Altipiano. Andava con passo lesto, sorpassando reparti di soldati euforici che intasavano la via, incrociava camion 18B.L. e XVter che scendevano strombazzando dalle retrovie, autoambulanze e carriaggi, ma in tutto e in tutti c’era uno spirito di pace che si manifestava luminoso come una mattina d’aprile anche se le nebbie si aggruppavano sui fianchi dei monti. Al Fontanello del Vanzo si fermò a bere; lí il Genio aveva fatto costruire delle vasche per raccogliere l’acqua della sorgente per poi mandarla in linea dove c’era sempre tanta sete. Riprendendo la salita si ricordò che proprio su quella strada era morta schiacciata da una masso una ragazza dei Boscardin che lavorava da manovale per i militari con altre donne di Lusiana e di Conco, e quella ragazza di quattordici anni che era finita cosí aveva fatto piú impressione della morte di tanti soldati. Quasi voleva correre per arrivare su alla Cima di Fonte da dove avrebbe potuto vedere la sua contrada; l’acqua gli ballonzolava nello stomaco a ogni passo come in una bottiglia semivuota. Poi rallentò perché gli venne il ricordo di quando avevano abbandonato la loro terra e del paese che bruciava sotto i colpi del cannone che sparava dalla Valsugana. Allora i soldati in marcia verso il nemico gridavano: – Liberate la strada! Fate largo! – I pochi beni e gli animali domestici che erano riusciti a portare con loro venivano perduti lungo la via. I soldati avevano anche ucciso a fucilate i due maiali che le sorelle Ballot si trascinavano dietro con fatica. Le donne giovani e le ragazze dovevano pure difendersi dai violenti desideri dei bersaglieri che andavano su a combattere. Ci fossero stati almeno i loro uomini!
A Camporossignolo avevano anche incontrato il vecchio Tana con Bepi e Toni dei Pûne, ragazzi della contrada e amici di giochi, che paravano verso la pianura il loro piccolo gregge e quello piú grande affidatogli dal Matío Parlío. Il Matío era stato richiamato alle armi tre giorni prima e non aveva parenti cui affidare il gregge. Era la prima volta nella storia della pastorizia che le pecore in primavera erano costrette a scendere in pianura invece di salire la montagna! E lungo il cammino nascevano gli agnelli, e non c’erano asini per caricarli, né era possibile sostare quel tanto da fargli prendere forza e proseguire al seguito delle madri; cosí i soldati che salivano a battaglioni per fermare gli austriaci se li prendevano pagando una lira o anche senza dire grazie. Toni e Bepi erano disperati sia per la fatica di tenere unito il branco in quella confusione, sia per il resoconto dei capi perduti o rubati che avrebbero dovuto fare al loro padre che era fuggito per altra strada con le donne e i bambini piccoli, e al Parlío che era stato richiamato negli alpini.
Poi gli austriaci vennero fermati e i profughi, dalla pianura, guardavano lassú ogni volta che il boato dei cannoni annunciava la ripresa della battaglia. Quando i militari scendevano a riposo dalla prima linea e si fermavano negli alloggiamenti a Fara o alla Mortisa, o a Calvene o a Lugo, dove poi si fecero anche due grandi spacci per i soldati inglesi che erano giunti sul finire del 1917, lui e sua sorella Nina andavano ogni giorno alle cucine per chiedere ai soldati gli avanzi del rancio o pezzi di pagnotta in cambio di piccoli servizi; raccoglievano anche i fagotti di biancheria da portare a lavare dalla loro madre; e questa era l’unica maniera per tirare avanti in attesa della fine della guerra perché la paga del nonno che lavorava a contratto a battere ghiaia, cioè a spaccare i sassi per inghiaiare le strade che salivano al fronte, non era sufficiente a sfamare tutti, come insufficiente era il sussidio giornaliero di una lira a persona che il Regio Governo passava ai profughi. Il nonno lavorava a un tanto al metrocubo di sassi spaccati, e stava tutto il giorno sotto un abete a battere il mazzuolo, curvo e con gli occhi socchiusi. Ai soldati che scendevano al riposo chiedeva sempre come andava lassú, se le case erano ancora in piedi. Oggi, finalmente, Matteo poteva andare a vedere di persona.
Il sole aveva fatto sciogliere le nebbie sui fianchi delle montagne e non sembrava novembre ma un ottobre chiaro e luminoso; saliva per le scorciatoie che univano l’un l’altro i tornanti e quando ansimante e accaldato giunse ai Campigoli della Spitzsbain venne fermato da un capitano dell’Artiglieria pesante campale che poco lontano aveva ancora in postazione i mortai da 210. – I civili, – gli disse con fare autoritario, – e tanto meno i ragazzi, non possono andare dove fino a poche ore prima si è combattuto per liberare il sacro suolo della patria! Ci sono tanti morti da seppellire, bombe inesplose, armi d’ogni genere e, forse, ancora feriti da raccogliere. Ritorna là da dove sei partito!
– Ma io sono scappato da questi monti nel maggio del Sedici, e ora che la guerra è finita vado a vedere la mia casa.
– Non devi mai dire la parola scappato! – s’infuriò il capitano. – Gli austriaci scappano! – Poi chiamò un sergente mingherlino che stava sorvegliando il caricamento di un camion e gli ordinò di buttare su anche il ragazzo e di rispedirlo nelle retrovie.
Il camion, ora che i cannoni avevano saziato la loro fame di bombe, era stato caricato di casse contenenti sacchetti di cordite per riportarli nelle polveriere e scendeva lento e con precauzione verso Granezza; fu qui che Matteo con un balzo scese a terra e si inoltrò nel bosco dove negli autunni piovigginosi e pacifici accompagnava il nonno a cacciare le beccacce. Il loro bosco era irriconoscibile perché anche nella foresta piú cupa e piú fitta le grosse bombe da 380 austriache che cercavano di colpire le batterie italiane, avevano aperto grandi radure dove i tronchi schiantati e denudati biancheggiavano come ossa spezzate; il terreno era sconvolto da strade, mulattiere, sbancamenti per far posto alle baracche e scavi per i ricoveri; talmente era cambiato il paesaggio che sul principio fece anche fatica a orientarsi. Poi tra gli squarci del bosco vide le montagne che stavano alte alle spalle della sua casa e scese verso il bivio della Bassaston.
Senza saperlo giunse nelle retrovie delle prime linee tenute dalla 48a Divisione del Corpo britannico. I camminamenti scavati seguendo gli strati e i corsi della roccia si addentravano nei boschi come profonde ferite rossastre, sembrava che una vita nascosta e sotterranea, protetta dagli alberi e dalle rocce continuasse misteriosa nel sottosuolo, in un silenzio nuovo che ancora non aveva trovato il modo di manifestarsi all’aperto del cielo. Proseguí con timore.
Arrivò a un cimitero con delle croci di legno tutte uguali e allineate sopra la terra smossa; poco dopo a un ospedaletto da campo che già si era annunciato per l’odore di cloroformio e di jodio che l’aria spandeva intorno. Ma anche un altro odore impregnava tutta la valle, un odore a volte secco e piacevole, a volte dolciastro e nauseante; erano gli odori che provenivano dai recipienti di terracotta che avevano contenuto il whisky e che ora facevano mucchi di cocci a ridosso delle baracche e dei ricoveri, dalle latrine recintate di stuoie, dai rifiuti delle cucine da campo. Pochi soldati inglesi andavano e venivano indaffarati o anche annoiati per i loro lavori e non si curavano di quel ragazzo che camminava guardingo ma sicuro tra bosco e strada come fa chi è famigliare ai luoghi. Delle barelle con dei feriti vennero portate davanti all’ospedaletto dove, accanto alla porta bassa e stretta ricavata in una parete di cemento, un ufficiale medico alto e magro nel suo camice bianco era in attesa fumando la pipa. Attorno ai feriti si avvicinarono i soldati che erano lí; Matteo passò via lesto e nessuno gli chiese dove volesse andare con quell’andatura frettolosa.
Alla salita del Mutarhust una profonda trincea tagliava la strada e per passarla erano stati posati dei tronchi, dopo circa mezzo chilometro ce n’era un’altra; alla Luka, l’apertura del bosco che si apriva come una finestra sui prati e le contrade, il groviglio dei reticolati, dei cavalli di frisia e dei gabbioni aveva un varco aperto verso la conca. Ma quando giunse sulle alture della Klama rimase impietrito: niente piú era rimasto di quanto aveva nel ricordo e che aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell’anima: non erba, non prati, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi dietro la sua casa e il monte lassú in alto era tutto nudo giallo e bianco. L’insieme sembrava la nudità della terra dilaniata, lo scheletro frantumato. I gas, le bombe di ogni calibro, le mitragliatrici in tre anni avevano distrutto anche le macerie, ed era questo che i suoi occhi vedevano e la ragione non voleva ammettere. Sentí che le gambe non avevano piú la forza per proseguire e con le mani affondate nelle tasche vuote e con la bocca socchiusa cercava qualcosa di vivo: un segno, un soffio d’aria, un suono. Glielo portò un branchetto di cince di passo che dopo essersi posate su un frassino secco e scorticato erano volate via verso ovest richiamandosi frettolose.
Lo scosse una voce straniera: – Hé, le garçon! Où vas-tu? – Un soldato che dalla divisa riconobbe per francese era di sentinella al varco aperto nei reticolati austriaci a difesa di quelle linee verso la strada del Rodarecchele. Con un gesto lo chiamò a sé: – Viens ici! – E dopo ancora gli chiese: – Mais où est-ce que tu crois aller?
Matteo capí la domanda e con il braccio teso e la mano aperta indicò che là, oltre le macerie che erano state il paese, avrebbe dovuto esserci la sua casa. Il soldato gli fece cenno di no con la testa e Matteo si sedette sullo scavo di una postazione per mitragliatrici.
Con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il mento nella mano guardava fissamente dei soldati, anzi degli scheletri vestiti da soldato, dentro una buca di granata. – T’as faim? – gli chiese il soldato, e raccolta una galletta dentro il tascapane che aveva a tracolla, gliela buttò. Lo guardava mangiare e dopo si accese una sigaretta. – Tu veux fumer? – gli chiese. – Qu’est-ce que tu veux, c’est la guerre. Mais maintenant c’est fini et l’on rentre tous à la maison.
Matteo faceva di sí con la testa anche se non capiva. Il soldato francese accese un’altra sigaretta e gliela porse. Aveva già fumato qualche sigaretta di nascosto, gliele davano i soldati inglesi quando scendevano a riposo, ma ora per l’angoscia, l’emozione, la stanchezza e la fame, il fumo gli cagionava stordimento e nausea. D’un tratto si alzò per andare a vomitare dentro la postazione. Al soldato francese venne compassione: – Ah, mon garçon! Tu n’es vraiment qu’un enfant!
Affondò ancora la mano nel tascapane e gli porse un’altra galletta e una stecca di cioccolata: – Va, rentre à la maison.
Matteo si alzò in piedi, guardò verso la conca e correndo tra armi abbandonate, bombe inesplose, cadaveri insepolti, prese la direzione verso la sua contrada. La sentinella lo richiamava: – Hé, garçon! Garçon! pas par là, reviens donc! – Ma ormai Matteo non lo sentiva piú.

Capitolo secondo

Cercava di andare dove non vedeva soldati, evitava la strada provinciale che era stata sgomberata dai materiali abbandonati dagli austriaci in ritirata e sommariamente riparata dai soldati del Genio per permettere il passaggio dei reparti addetti al recupero dei cannoni e delle polveriere, e di quelli che inseguivano il nemico per le valli del Trentino. Matteo aggirava i reticolati e le grandi buche, saltava le macerie badando dove mettere i piedi. All’Orht, dove il ponte scavalcava il Grabo dei Pennar, stava ancora un soldato di guardia e, per evitarlo, scese in un camminamento e passò sotto il ponte. Qui sotto, lungo le volte in muratura, erano ammucchiati a catasta cadaveri di soldati italiani e austriaci; con una mano si coprí la bocca e il naso, con l’altra fece schermo agli occhi e uscí fuori dall’altra parte, verso il paese.
Ma non passò per il paese dove vedeva aggirarsi dei soldati con i loro ufficiali, e quando giunse dietro le rovine della Villa Baldin, per il corso del torrente Ghelpach e la strada della Kerla si avviò per la contrada Èbene. Dietro i dossi e per la strada erano abbandonati sulla terra cavalli dilaniati dalle bombe, carriaggi capovolti, cassoni di munizioni, armi, zaini, borse, maschere antigas e i corpi senza vita dei soldati austroungarici che due o tre giorni prima erano stati inseguiti sulla via della ritirata dal tiro delle artiglierie.
Voleva correre via, ma non aveva piú la forza per farlo e, del resto, i suoi occhi e il suo naso si erano anche un poco assuefatti. Ancora un poco e sarebbe stato a casa! Non si accorse dei tre soldati inglesi morti e semicoperti da un telo, stesi accanto alle macerie delle case dei Ballot, non vide nemmeno la pattuglia che scendeva dal Moor e che scortava otto prigionieri che portavano quattro barelle. La sua casa non c’era piú e il luogo dove sorgeva era un mucchio di sassi rotti e travi annerite, e l’orto piú in basso era diventato un cimitero dove croci di legno sghembe o spezzate segnavano i tumuli dove nel 1916 e nel 1917 venivano sepolti i soldati italiani che morivano nell’ospedale da campo che era sorto poco lontano, nelle case dei Chescie.
Dopo essersi fermato a guardare la linea dei monti e delle colline e aver visto affiorare il troncone del vecchio ciliegio che cresceva accostato al muro della stalla, si convinse che il luogo era quello. Risalí, allora, il cumulo di macerie e con le mani incominciò a spostare i sassi e le travi carbonizzate. Buttava via con furia ogni cosa morta che gli capitava, come se là sotto dovesse esistere ancora qualcosa di vivo da salvare. Trovò un pezzo del telaio della finestra, i ferri contorti del letto dei genitori, i resti bruciati del piumino, una pentola schiacciata e poi, sotto un’asse, la bambola di pezza con la quale giocavano le sorelline. Era ancora intatta, forse l’unica cosa che ancora rimaneva e le ripulí il viso e le vesti. Sul viso apparvero la bocca ricamata con la lana rossa e gli occhi fatti con la lana nera e celeste. Sulla veste di lino c’erano ancora le impronte lasciate dalle manine delle piccole quando giocavano vicino al focolare.
Gli venne da piangere, ma con il dorso della mano ricacciò le lacrime; mise la pupa sul punto piú alto delle macerie e poi sentí tanta sete, una grande sete, e si ricordò che poco lontano doveva esserci la sorgente del Prunnele. Avrebbe buttato ancora acqua dopo tutto quello che aveva subito la terra? Cercò un recipiente per attingere, camminò attorno e dietro il Grabo dove gli austriaci avevano piazzato una batteria di cannoni. Trovò quanto cercava perché poco lontano dalle postazioni dei pezzi, i soldati avevano scavato i ricoveri addossati al terrapieno costruito in antico per arginare le acque del Madarelo; e lí dentro i ricoveri c’erano tavole, sgabelli, giacigli, coperte, stoviglie di ferro smaltato. Raccolse una gavetta per andare ad attingere e quando si presentò all’imboccatura della nascente rimase sorpreso nel trovare il Prunnele pulito e in ordine e, posata su un sasso, la cazza di rame che da sempre nella sua casa era stata appesa accanto ai secchi per attingere l’acqua e bere.
Bevette avidamente attingendo due volte e gli sembrava che quell’acqua fosse la migliore di ogni altra; ma ancora non sentiva sazia la sua sete e ancora attinse.
Le ore del giorno erano corse via senza che se ne rendesse conto; le ombre della sera scendevano dal Mosciagh verso il Moor e il Kranzenarecche; laggiú, tra le macerie del paese, sentí una tromba che chiamava l’adunata per ...

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