Meno dodici
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Meno dodici

Perdere la memoria e riconquistarla: la mia lotta per ricostruire gli anni e la vita che ho dimenticato

Pierdante Piccioni, Pierangelo Sapegno

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  1. 360 Seiten
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Perdere la memoria e riconquistarla: la mia lotta per ricostruire gli anni e la vita che ho dimenticato

Pierdante Piccioni, Pierangelo Sapegno

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Über dieses Buch

DA QUESTA BIOGRAFIA LA FICTION TV "DOC - NELLE TUE MANI" CON LUCA ARGENTERO. L'ultimo giorno di maggio del 2013, Pierdante Piccioni, primario all'ospedale di Lodi, finisce fuori strada con la macchina sulla tangenziale di Pavia. Lo ricoverano in coma, ma quando si risveglia, poche ore dopo, il suo ultimo ricordo è il momento in cui sta uscendo dalla scuola dove ha appena accompagnato il figlio Tommaso, nel giorno dell'ottavo compleanno. Precisamente il 25 ottobre 2001, dodici anni prima della realtà che sta vivendo.

A causa di una lesione alla corteccia cerebrale, dodici anni della sua vita sono stati inghiottiti in un buco nero, riportandolo indietro nel tempo, quando in Italia c'era la lira e la crisi economica pareva lontana, persino impensabile, mentre la rivoluzione digitale che sta cambiando il mondo era appena agli albori e nessuno parlava di post su Facebook o video su YouTube.

All'improvviso Pierdante Piccioni è diventato un alieno, incapace di riconoscere le sue cose, le sue abitudini, addirittura se stesso in quel volto invecchiato che gli restituisce lo specchio e in cui a stento ritrova la propria immagine. Attorno a lui tutto è cambiato: i figli non sono più due bambini di otto e undici anni, ma due maschi adulti, con la barba e gli esami all'università, mentre la moglie sembra un'altra donna, con le rughe e i capelli corti che hanno cambiato colore. Come potrà riprendersi la propria vita?

Nelle pagine del suo diario, in questo viaggio incredibile fra due esistenze parallele che non riuscirà mai a riallacciare completamente, Piccioni racconta non solo l'angoscia di un uomo costretto a guardare la realtà con gli occhi di un estraneo, come fosse un marziano, ma la lunga e faticosa riconquista della propria identità, delle relazioni con i familiari e con i colleghi, di tutto il tempo perduto che non riavrà più indietro.

Da vittima di un banale incidente, Piccioni diventa così il medico - e il paziente insieme - protagonista di una straordinaria vicenda umana, di chi sulla propria pelle ha esplorato l'abisso della memoria e ne è risalito, per ricominciare a vivere.

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Parte seconda

NATO DUE VOLTE

X

Uscii dall’ospedale senza girarmi. Tenevo gli occhi abbastanza bassi perché avevo un po’ di paura a guardarmi in giro. Mark Twain ha detto che i giorni più importanti della tua vita sono due: quello in cui nasci e quello in cui scopri perché. Io ero nato due volte, ma non avevo scoperto perché. C’era qualcosa a cui non riusciva a dare un senso nemmeno la mia fede. Forse i marziani non hanno religione.
Con lo sguardo sfioravo appena, con timore crescente, l’estraneità del mondo. C’erano macchine che non avevo mai visto, e quelle che conoscevo avevano una tinta più sbiadita, come se venissero da lontano, con le ruote consunte e la carrozzeria segnata.
Mi fecero salire su una piccola Peugeot nera con quattro porte e un cuore rosso appiccicato sul portellone posteriore. La targa iniziava con DV. La mia macchina, o meglio quella che mi ricordavo, aveva la targa che cominciava con BF. Due lettere in dodici anni.
«Benvenuto sulla Lattina» disse Filippo. «È così che chiamiamo la macchina della mamma. In un minuto saremo a casa.»
Aprì le portiere, poi allungò le chiavi a suo fratello. «Tommy, guida tu che io mi sono dimenticato a casa la patente, cazzo.»
Hanno la patente, pensai. Non sono più bambini.
Non ci mettemmo un minuto. Ma non importa quanto impiegammo. Mi struggevo con le schegge del mio vecchio io, mentre accanto a me scorrevano visioni familiari, nella congestionata architettura di strade che avrei dovuto riconoscere, con i grovigli di case affastellate ai margini, le loro facciate squadrate, i muri spessi e i cortili coronati da siepi. C’erano aiuole trasandate e grandi rotatorie al posto dei semafori. Le strutture di ferro e gli scali ferroviari stavano arrugginendo nel laccio di tangenziali che accerchiavano la città. Più che diversa, mi sembrava invecchiata. Anche i cartelloni pubblicitari era come se si fossero stracciati, mostrando relitti di immagini strappate al tempo.
Sfilammo davanti al cinema. Era diventato una multisala. Pensai al film guardato sul computer, e a quello che mi aveva detto Giovanni, che se impari a navigare su internet puoi vederti persino ciò che non è ancora in circolazione. I grandi cinematografi della mia gioventù, riempiti da quegli odori confusi, con i velluti scuri, i sussurri e le risatine, lo sfarfallio sobbalzante di qualche pellicola, le file di poltrone sfondate e le mani tenute nelle mani abbandonando la testa sullo schienale, appartenevano ormai a un’altra epoca. Ma questo almeno lo sapevo già.
Così come intuii, in un momento di lucidità, che tutto quello che avrei visto non mi avrebbe fatto bene. Ne avrei solo sofferto. Semmai, dovevo approfittare delle nuove tecnologie per buttarmi nello studio del futuro, per aggiornarmi e recuperare tutte le nozioni che avevo perduto. Questo mi sarebbe servito molto di più.
Anche perché, quello che volevo capire adesso, soprattutto come medico, e che avevo già cercato di verificare nelle lunghe lezioni di Giovanni, è se puoi fare affidamento sulla memoria anche se non ricordi più nulla, come in fondo suggerisce il procedimento dell’anamnesi di Platone, la teoria della conoscenza. In realtà, sostiene Platone, tutto quello che impari è soltanto un ricordare cose che sapevi già, farle riemergere. L’esempio lo fa Socrate nei dialoghi: uno schiavo opportunamente interrogato giunge a ricordare – non a imparare – il teorema di Pitagora. Non so se questa teoria poteva avere un fondamento neurologico, per cui studiando una cosa si riattivano quelle zone cerebrali che sono «addormentate», però ci contavo.
Il fatto è che non me ne rendevo conto, ma non ero ancora disposto mentalmente a tutto ciò. Anche se avevo accettato l’idea di essermi risvegliato il 31 maggio 2013, continuavo a comportarmi come se avessi ricominciato a vivere dal 26 ottobre 2001. Non è solo un’abitudine alle cose. È una struttura mentale che ti condiziona e influisce sui tuoi pensieri e sulle tue azioni. La verità è che non ero ancora pronto nemmeno per Platone. Dovevo capirlo quando misi piede nella nuova casa.
Ci avevo vissuto nove anni, mi avevano detto. Ma io la guardai come un’altra delle cose che aveva sostituito la mia vita. Anche se, entrando in quella cascina dove si trovava il nostro nuovo appartamento, mi sembrava di essere in un sogno. C’era un giardino ben curato, con piante di alloro ordinatamente disposte a delimitare i passaggi pedonali e quelli carrai. Lunghe file di portici, con enormi paracarri, vestigia di pesanti lavori pregressi. E poi il sapiente abbinamento dei colori, con diverse sfumature di marrone: persino le unità esterne dei climatizzatori erano state dipinte in modo che si mimetizzassero. In un angolo, all’ombra, alcune bambine giocavano tranquille con le loro bambole. Nel corpo principale una torre, una piccionaia, si alzava per almeno quindici metri.
«Casa nostra è quella a destra della torre» mi fece segno Kunta. «Un tempo erano le scuderie, le stalle dei cavalli. Circa vent’anni fa l’intero complesso è stato completamente ristrutturato rispettandone la struttura originaria. Fa parte del circuito delle cascine storiche lombarde. Le prime notizie risalgono al VII secolo dopo Cristo, pare fosse un convento, usato poi come ostello dai crociati e infine diventato cascina nel XIX secolo.»
L’avevamo acquistata nove anni prima, mi ripeté ancora una volta, come per volermi confortare. Era disposta su quattro piani e aveva una superficie di trecento metri quadri, con un portico sul davanti, una veranda di trenta metri e un giardino di quattrocento metri quadrati dietro.
«Non è molto distante da dove abitavamo» mi disse mia moglie. Mi ricordo che invece pensai automaticamente: da dove abitiamo adesso, cioè ieri. Poi feci il solito calcolo: ieri più dodici.
Le chiesi quanto l’avevamo pagata.
«Quasi cinquecentomila euro» rispose.
Rimasi sbalordito «Quasi cinquecentomila euro sono un miliardo.» Avevo fatto i conti velocemente. «Ma dove li abbiamo presi tutti questi soldi?»
«Negli ultimi anni, appena prima che la comprassimo, io ero diventata ricercatrice e poi professore associato e tu facevi un sacco di straordinari. I tuoi ci hanno regalato cinquantamila euro e abbiamo fatto un mutuo di centocinquantamila che stiamo ancora pagando.»
Non mi aveva tanto convinto. «Che mi ricordi io, nel 2001, avevamo in banca nemmeno cento milioni di lire. Possibile che abbiamo guadagnato tanti soldi in così pochi anni?»
«Pier, non so cosa dirti.»
«Come non sai cosa dirmi?»
«So solo che il mutuo l’abbiamo quasi tutto restituito e l’anno scorso abbiamo anche comprato un altro garage, sempre qui in cascina, spendendo trentamila euro.»
Stavo fermo, incredulo.
«Sai che non mi sono mai occupata delle questioni economiche. Ci hai sempre pensato solo tu, ma ti posso assicurare due cose: non abbiamo rubato e, per fortuna, non abbiamo problemi di soldi.»
Ripresi a camminare, un po’ claudicante.
«Tu da primario guadagni bene» mi inseguì la sua voce.
Primario? Come faccio a farlo? E se non ne fossi più capace?
Entrai in silenzio, quasi intimorito. Kunta mi fece da guida, facendomi visitare ogni stanza. Compresi i bagni, ne contai sedici. Be’, ci trattiamo bene, pensai.
Ma c’era qualcosa che mi si torceva dentro lo stesso. Lei continuava a condurmi per mano. La casa era ampia, spaziosa, con pavimenti di cotto toscano e granito, mobili antichi elegantemente abbinati a quelli moderni. Un camino d’epoca.
Ero senza parole.
Parlava lei: «La cucina e gli armadi li abbiamo fatti fare su misura dai falegnami di Cicognolo che ci avevano fatto il mobile del bagno nella casa vecchia».
Già, ma allora era un po’ diverso. Questa è tutta roba da ricchi. Che cosa c’entro io con tutto questo? Nel mio pianeta, con due bambini piccoli e la moglie con una borsa di studio, si fa una gran fatica ad arrivare alla fine del mese.
Lei mi portò nel retro della casa. «Vieni, vieni.» Da una parte sembrava molto fiera di tutto quello che mi stava mostrando, e dall’altra attentissima alle mie reazioni, come se potesse percepirvi segnali utili per capire quello che mi era accaduto.
«Ecco, guarda» disse aprendo una portafinestra. Mi trovai in una veranda spaziosa con tavolo e sedie di legno, circondata da piante di gelsomino e coperta da un pergolato metallico, dipinto di verde, a sua volta rivestito dalle foglie verdi, in perfetto abbinamento con il colore del metallo, di due enormi piante di glicine.
«Dovresti vedere tra aprile e maggio quando fiorisce» disse Kunta indicando il glicine. «Il contrasto del colore viola dei fiori con il verde delle foglie e l’azzurro del cielo è spettacolare.»
Poi mi fece notare il pavimento di cotto, bordato da marmo grigio, e la scala, sempre dello stesso marmo, che conduceva in un giardino ben tenuto con, in fondo, due enormi querce, in mezzo alle quali vi era il cancello esterno, anch’esso di metallo dipinto di verde, ricoperto da una rosa rampicante.
«Questo è il tuo regno, perché sei tu che tieni in ordine il giardino» disse.
Cercai di mettere in pratica la teoria di Platone, anche se non dovevo imparare e studiare nulla, solo guardare. Chiusi gli occhi e li riaprii sul tavolo e sulle sedie, rimirando i colori e assorbendoli dentro di me. Strinsi con la mano un orlo di legno per qualche lunghissimo secondo, sperando che il tatto mi risvegliasse qualche sensazione.
Dalla mia memoria non affiorò niente. Per me quello era un posto sconosciuto.
Non so se Kunta avesse visto quello che stavo facendo. Si voltò per tornare indietro.
«Dove vai?» le chiesi.
«Aspetta qui. Vado un attimo in bagno.»
La guardai allontanarsi. Aspettai di sentire chiudere la porta, poi mi aggirai da solo per quell’enorme casa. Mi sentivo un estraneo. Vidi con nostalgia oggetti e mobili che erano stati miei. Ma non provai nessuna scintilla. Niente.
Sfilando con gli occhi lungo i corridoi e le pareti tinte di colori tenui, mi tornarono alla mente le case che faceva costruire la maestra in prima elementare, con i cartoncini grigi disposti a muro, il camino finto che spuntava dal tetto, le porte intagliate e le finestre disegnate a matita. Quel gioco mi annoiava, ma insieme mi faceva anche sognare, perché mi sembrava di poter inventare la casa delle fiabe. Ecco, io adesso ero dentro a quella casa. Mi accorsi però amaramente che non mi apparteneva. Era ancora più bella di come me la aspettavo, sembrava uscita da una di quelle riviste d’arredamento snob che la gente compra per farsi del male, osservando con invidia quegli appartamenti che non possiederà mai. Tutto coordinato, di classe, elegante.
Tutto tranne me.
Non lo dissi a Kunta, quando ritornò. Mi chiese se mi piaceva. Le risposi con voce neutra che era molto bella. E lei mi squadrò delusa. Credo che avesse capito.
Mi accorsi in quel momento che eravamo soli. I ragazzi, che erano venuti a prendermi in ospedale, non c’erano.
«Filippo e Tommaso?» chiesi.
Come per incanto apparvero proprio in quell’istante, uscendo in veranda con i costumi da bagno e un asciugamano in spalla.
«Noi andiamo in piscina da Guido» disse Filippo.
Prima ancora che riuscissi a chiedere chi fosse questo Guido e dove fosse la piscina, Kunta cominciò ad alzare la voce.
«Ma vi sembra il momento? Da quando siamo entrati in casa non avete degnato di uno sguardo vostro padre e mi avete lasciata da sola a fargli vedere la casa. Voi adesso non andate da nessuna parte!»
«Col cazzo che non ci andiamo!» rispose Filippo in tono sgarbato. «Guido continua a invitarci e noi non ci andiamo mai.»
Decisi di chiederlo, sommessamente. «Chi è Guido?» domandai quasi sottovoce.
Nessuno mi diede retta. Un marziano invisibile.
«E poi è la piscina del nostro vicino di casa» aggiunse Filippo gonfiando il petto nudo. «Se c’è bisogno basta che ci chiami.»
Pensai che forse era una di quelle famose feste di cui si vantava Tommaso. Non si diventa Gatsby per niente. Mister Muscolo e il suo complice ospiti d’onore. Li osservavo come uno spettatore. Sono i piccoli vantaggi di essere un marziano.
«Bisogno?» La voce di Kunta era sempre più alterata. «Ma ti rendi conto che papà è appena tornato? Non vedi com’è disorientato?»
«E cosa dovremmo fare?» intervenne bruscamente Tommaso. Ecco Gatsby.
«Per esempio fargli vedere le vostre stanze, magari mostrandogli anche le vostre fotografie.»
«Quello lo possiamo fare dopo, cazzo» sbraitò Filippo.
«No! Adesso!» gli gridò sopra Kunta.
«Ma adesso è il momento migliore per prendere il sole e fare il bagno…»
In mezzo a tutto quello strepitare mi resi conto di essere capitato in un posto che non volevo e che non riuscivo a sopportare.
Attorno a me, l’incredibile battaglia verbale fra Kunta e i ragazzi, in cui tutti urlavano e nessuno ascoltava, cresceva di intensità e restituiva immagini sconnesse, che io ricomponevo malamente, fissando gli occhi spalancati di mia...

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