L'impero dei draghi
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L'impero dei draghi

Valerio Massimo Manfredi

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L'impero dei draghi

Valerio Massimo Manfredi

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Über dieses Buch

Anatolia, 260 d.C. L'assedio dei Persiani ha stremato la resistenza della città romana di Edessa, l'imperatore Valeriano è stato catturato insieme al capo della sua guardia personale, Marco Metello Aquila, eroe dell'impero e leggenda vivente, e ad altri dieci dei suoi uomini più valorosi. Marciranno ai lavori forzati, in una miniera da cui nessuno è mai riuscito a evadere. Ma c'è chi conosce quei cunicoli bui: Metello e i suoi fuggono e trovano rifugio in un'oasi dove è atteso un misterioso personaggio braccato dai Persiani. I Romani ne diventano la milizia privata con il compito di scortarlo nel mitico regno della seta, la Cina. Ha inizio così un'epopea straordinaria attraverso le foreste dell'India, le montagne dell'Himalaya, i deserti dell'Asia centrale: un viaggio favoloso al termine del quale Marco Metello scoprirà di non essere il primo Romano ad aver raggiunto quel mondo remoto¿

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Information

Verlag
Mondadori
Jahr
2010
ISBN
9788852010668

1

I raggi del sole nascente bagnarono le vette del Tauro, i picchi innevati si tinsero di rosa, scintillarono come gemme sulla valle ancora nell’ombra. Poi il manto lucente cominciò a distendersi lentamente sui gioghi e sui fianchi della grande catena montuosa risvegliando dai boschi la vita addormentata.
Le stelle impallidirono.
Il falco si librò per primo in alto a salutare il sole, e le sue strida acute echeggiarono sulle pareti rupestri e sulle forre, sugli aspri dirupi fra cui scorreva spumeggiante il Korsotes, gonfiato dallo sciogliersi delle nevi.
Shapur I di Persia, il re dei re, dei Persiani e dei non Persiani, il signore dei quattro angoli del mondo, riscosso da quel grido alzò lo sguardo a scrutare l’ampio volo del signore delle altezze, poi si avvicinò al purosangue arabo splendidamente bardato che gli portava lo scudiero. Un servo si inginocchiò perché lui potesse appoggiare il piede sulla sua gamba flessa e balzare in sella. Altri due servi gli porsero l’arco e la scimitarra dal fodero d’oro e un alfiere gli si pose al fianco impugnando lo stendardo reale: un lungo vessillo di seta rossa con l’immagine in oro di Ahura Mazda.
I suoi ufficiali lo aspettavano al centro del campo armati di tutto punto, in sella ai loro cavalli coperti da preziose gualdrappe, con la fronte protetta da piastre d’acciaio. Ardavasd, il comandante supremo, lo salutò con un profondo inchino e lo stesso fecero gli altri; poi, a un cenno del re, toccò i fianchi del cavallo con i talloni e si mise in marcia. Tutti gli altri ufficiali si disposero a ventaglio a destra e a sinistra di Shapur e insieme cominciarono a scendere dalla collina.
La luce aveva ormai raggiunto l’imbocco della valle e cominciava a rischiarare le torri di Edessa, alta sul pianoro stepposo, battuta dal vento del deserto.
Un gallo salutò l’astro nascente con un richiamo lungo e ripetuto.
Nel cortile della sua casa Marco Metello Aquila, legato della Seconda Legione Augusta, era in piedi da tempo, già vestito e ricoperto dell’armatura.
Nativo dell’Italia meridionale, aveva indurito ossa e muscoli in un lungo servizio su tutte le frontiere dell’impero: l’abitudine a gridare i suoi comandi sul campo di battaglia gli aveva reso fonda e rauca la voce e brusco il modo di parlare. Gli zigomi alti, la mascella forte e il naso diritto ne testimoniavano la discendenza aristocratica, ma il taglio sobrio, quasi rozzo, dei capelli e la barba mai del tutto domata dal rasoio mostravano l’austerità del soldato e la consuetudine alla fatica. Per il suo cognome, ma anche per il colore ambrato degli occhi e per una certa espressione rapace dello sguardo nell’imminenza del combattimento, era conosciuto fra tutti i reparti a sud del Tauro come “il comandante Aquila”.
Agganciava in quel momento il gladio al cinturone, un’arma obsoleta eredità di una stirpe antica che lui rifiutava di appendere al muro e di cambiare con l’arma di dotazione. Anzi, ne portava sempre un altro appeso alla sella del cavallo ed era solito dire che con due di quelli poteva pareggiare le spade più lunghe.
«Il canto di un gallo in una città assediata è di buon augurio» disse mentre un attendente gli fissava alle spalle il mantello rosso insegna del suo rango. «Se è sopravvissuto lui con la fame che c’è in giro sopravvivremo anche noi.» Si avvicinò all’edicola dei lari e depose un’offerta, piccola, ma tanto più preziosa in un periodo di tale penuria – un pugno di farina di farro alle ombre dei suoi antenati – e si accinse a uscire.
Lo fermò la voce della sposa: «Marco».
«Clelia. Come mai in piedi così presto?»
«Esci senza nemmeno salutarmi?»
«Non volevo destarti. La scorsa notte sei rimasta sveglia a lungo e hai dormito male.»
«Sono preoccupata. È vero che l’imperatore vuole andare all’incontro con il Persiano?»
Marco Metello sorrise. «È incredibile come le donne riescano sempre a conoscere le notizie che noi cerchiamo di tenere più segrete.»
Anche Clelia sorrise. «L’imperatore ha una moglie, che ha delle dame di compagnia, che hanno delle amiche…»
«Già.»
«Allora?»
«Temo di sì.»
«Ci andrà?»
«È molto probabile.»
«Ma perché?»
«Ha detto che la pace vale bene il rischio della vita.»
«E tu? Non farai nulla per dissuaderlo?»
«Parlerò se chiederà il mio parere, e in tal caso cercherò di fargli cambiare idea. Ma una volta che avrà deciso, il mio posto sarà al suo fianco.»
Clelia chinò il capo.
«Forse vuole soltanto prendere tempo. Gallieno è ad Antiochia. In pochi giorni di marce forzate potrebbe essere qui con quattro legioni e sbloccare la città.» Le sollevò il mento e vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. «Clelia… piangere salutando il proprio marito è di cattivo augurio, non lo sai?»
Clelia cercò di asciugarsi gli occhi. Nello stesso istante si udì il rumore di piccoli piedi che scendevano precipitosamente le scale e una voce chiamare: «Padre! Padre!».
«Tito! Che fai qui? Torna subito a letto!»
«Avevi promesso che oggi mi avresti portato con te alla palestra.»
Marco Metello si chinò a guardare negli occhi il bambino. «L’imperatore mi ha chiamato. Lui è il padre di tutti, figlio mio, e quando chiama dobbiamo accorrere al suo fianco. Ora torna a letto e cerca di dormire.»
Il piccolo si fece improvvisamente serio. «Tu andrai via con l’imperatore e mi lascerai solo.»
Marco Metello si fece a sua volta scuro in volto. «Ma che dici? Io tornerò, stanne certo. Ti prometto che tornerò prima di sera. E tu sai che un Romano mantiene sempre la parola data.» Baciò la moglie in lacrime e uscì.
Sulla strada, ai lati della porta d’ingresso, lo aspettavano i suoi aiutanti di campo, i centurioni Elio Quadrato e Sergio Balbo. Il primo era italiano, di Priverno. Il secondo spagnolo, di Saragozza. Ambedue avevano facce segnate dal tempo e dalle molte battaglie sostenute in tutti gli angoli dell’impero, facce rocciose, sopracciglia folte, barba ispida. Quadrato portava i capelli cortissimi, era stempiato, alto, di corporatura massiccia; Balbo era più basso, scuro di carnagione, ma con occhi chiari e con un naso schiacciato che testimoniava la sua passione per il pugilato.
Metello calzò l’elmo, si allacciò le stringhe sotto al mento, poi scambiò con loro uno sguardo d’intesa e disse: «Andiamo».
Percorsero le strade ancora deserte e silenziose della città a passo sostenuto, ognuno assorto nei propri pensieri, ognuno con il cuore pesante.
Il canto del gallo risuonò ancora e il sole inondò di luce la strada che percorrevano facendo risplendere il lastricato di basalto e allungando le loro ombre fino ai muri delle ultime case alle loro spalle.
A un incrocio si trovarono di fronte un altro gruppetto di ufficiali diretti, evidentemente, allo stesso appuntamento.
Marco riconobbe il collega. «Salve, Lucio Domizio.»
«Salve, Marco Metello» lo salutò l’altro.
Proseguirono insieme fino al foro, che attraversarono in direzione del quartier generale. Di là si poteva vedere il camminamento di ronda sul ballatoio delle mura. Il cambio della guardia: passi cadenzati, rumori metallici di giavellotti contro scudi. Saluti. Ordini secchi.
«L’ultimo cambio che smonta» disse Marco Metello.
«Per oggi» corresse Lucio Domizio.
«Per oggi» confermò Metello.
Lucio Domizio era superstizioso.
Raggiunsero l’ingresso del quartier generale. Li attendeva Cassio Silva, comandante della piazza, compagno di tenda e commilitone per anni di Gallieno, il figlio dell’imperatore.
Un picchetto di pretoriani presentò le armi al passaggio dei tre legati e li introdusse all’interno. I centurioni e gli altri ufficiali inferiori rimasero fuori.
L’imperatore Licinio Valeriano li accolse di persona, pronto e armato. «Vi comunico che ho deciso di andare all’incontro con Shapur. Già da ieri notte un drappello dei nostri, una cinquantina di uomini, è in terra di nessuno sulla riva destra del Korsotes. Dall’altra parte del fiume altrettanti cavalieri persiani vigilano presidiando il terreno destinato all’appuntamento.
«L’incontro non è improvvisato: i nostri plenipotenziari hanno preparato gli argomenti di cui si discuterà in modo che tutto venga semplificato.
«Shapur sembra disposto a discutere la fine del blocco a Edessa – anche se la città, per la sua posizione di snodo geografico e commerciale tra l’Anatolia e la Siria, è importantissima – in cambio di un accordo generale che ridisegni i rapporti fra i nostri due imperi e stabilisca una pace duratura. Ci chiede qualche rinuncia territoriale in Adiabene e in Commagene ma senza preclusioni. È disposto a negoziare. Le premesse mi sono sembrate buone e ho deciso di andare all’incontro.»
«La tua è una saggia decisione, Cesare» approvò Cassio Silva.
Lucio Domizio Aureliano aveva ascoltato fino a quel momento scuro in volto, stringendo con la mano l’impugnatura della spada. Era un soldato formidabile: in diverse campagne aveva ucciso di sua mano quasi novecento nemici e altrettante tacche aveva inciso sul manico del suo giavellotto. Tale era la sua rapidità nell’estrarre la spada dal fodero che i suoi uomini lo chiamavano manus ad ferrum, “Mano-alla-spada”. Chiese la parola. «Ho sentito dire che tuo figlio Gallieno è ad Antiochia e che potrebbe essere qui con quattro legioni entro cinque giorni. Perché correre dei rischi?»
«Perché abbiamo cibo sufficiente solo per due» ribatté Silva.
«Possiamo razionarlo e farlo bastare: un po’ di fame non ha mai ucciso nessuno.»
«Non è soltanto questione di viveri» replicò l’imperatore. «Non è certo che Gallieno arrivi, né che ci impieghi solo cinque giorni. I nostri informatori dicono che vi sono unità di cavalleria persiana lungo tutta la strada che viene da Antiochia con il compito di disturbare le nostre comunicazioni e tagliare i rifornimenti. No. Devo andare all’incontro con Shapur. Non fosse altro per scoprire le sue intenzioni. Se potremo gettare le basi di un accordo durevole, tanto meglio. Se riuscirò a prendere tempo, a evitare un attacco in forze nell’attesa che arrivi Gallieno, sarà comunque un buon risultato. Il fatto che sia stato Shapur a chiedere l’incontro mi fa ben sperare.»
Si volse a Metello. «E tu non dici nulla, Marco Metello? Qual è il tuo parere?»
«Non andare, Cesare.»
Valeriano lo guardò più sorpreso che turbato. «Perché?»
«Perché tutta questa faccenda non mi piace. Puzza di trappola lontano un miglio.»
«Ho preso tutte le mie precauzioni: incontro in campo neutro, su un terreno scoperto. Cinquanta uomini di scorta per parte. Non può succedere niente. Andrò, ormai ho deciso. E poi non voglio che Shapur creda che l’imperatore dei Romani ha paura.»
Uscì, seguito dagli altri ufficiali.
Metello gli si affiancò. «Allora verrò con te, Cesare.»
«No» rispose l’imperatore. «Meglio che tu resti qui.» Gli si accostò fin quasi a parlargli all’orecchio. «Voglio essere certo di trovare la porta aperta quando torno.»
«Allora lascia Lucio Domizio: è l’uomo più leale che io conosca, ha un grande ascendente sulle truppe e già altre volte si è trovato in situazioni simili. Io ti sarò più utile là fuori.»
L’imperatore guardò Metello e poi Lucio Domizio, che era rimasto indietro di qualche passo, e assentì. «Sta bene, allora. Tu verrai con me e Lucio Domizio resterà in città. Voglia il cielo che questa sia la decisione giusta…»
Cassio Silva sorrise. «Chiunque venga con te, Cesare, non fa differenza. In ogni caso fra poco ci ritroveremo tutti qui per il pranzo, a meno che Shapur non voglia invitarci sotto la sua lussuosa tenda.»
Uno stalliere portò il cavallo dell’...

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