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Carmelo Sardo, Giuseppe Grassonelli

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Carmelo Sardo, Giuseppe Grassonelli

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Über dieses Buch

"Malerba", erba cattiva: lo chiamavano cosĂŹ nel paese siciliano dove Ăš nato. La sua storia comincia quando, ragazzino, viene spedito in Germania per allontanarlo da una giovinezza scapestrata. Ad Amburgo si inserisce in un ambiente di night e belle donne. Con le carte Ăš abilissimo: al tavolo verde bara e si arricchisce. Coltiva nuove amicizie, scopre il sesso e il lusso. La Sicilia sembra lontanissima. Ma il destino lo richiama. Dopo il servizio militare, a vent'anni, torna al paese: un'immersione negli affetti famigliari prima di ripartire per la Germania. Ma proprio la sera precedente alla partenza resta ferito nella strage con cui comincia lo sterminio dei suoi parenti: un regolamento di conti mafioso nello stile piĂč atroce. Fugge, sconvolto, ma presto scopre che Cosa Nostra ha affidato il compito di ucciderlo a uno dei suoi amici d'infanzia... Questa Ăš la storia di un giovane uomo che sente di dover fronteggiare da solo lo sterminio della propria famiglia. Di un uomo che non ha fiducia nello Stato, nĂ© in alcuna altra istanza morale capace di contenere la ferocia umana. Di un uomo che scampa per miracolo a quattro agguati e decide di rinunciare a tutto, anche all'amore, per vendicare i suoi cari e sopravvivere. Giuseppe Grassonelli, che assume in queste pagine il nome fittizio di Antonio Brasso (suo "nome di battaglia" negli anni della guerra di mafia), ci racconta la storia della sua vita breve e intensissima: segnata dalla morte e dalla cesura dell'arresto, all'etĂ  di ventisette anni. L'ebbrezza dell'illegalitĂ , l'orrore indicibile di un intero sistema di relazioni nel quale la vita umana e la dignitĂ  individuale non hanno alcun valore, ma tutto Ăš clan, affiliazione o infamia, emergono in queste pagine con potenza sinistra. A parlarcene Ăš la voce di un uomo radicalmente cambiato dall'esperienza della detenzione. Giuseppe Grassonelli non si pente, non collabora con la giustizia e sconta dunque la pena durissima dell'ergastolo ostativo. Comincia a leggere, a studiare, fino a laurearsi e a diventare un detenuto modello. Per raccontare la propria storia si affida al cronista che anni prima aveva seguito la sua "guerra" come giornalista per una TV privata: Carmelo Sardo, che con efficacia e partecipazione ci conduce attraverso queste pagine. Per provare a capire. PerchĂ© le parole, e la memoria, sono l'arma piĂč potente contro la silenziosa omertĂ  del male.

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Information

Verlag
Mondadori
Jahr
2014
ISBN
9788852051432

La leva

«Antonio Brasso, nato il 18 marzo 1965 a Casamarina, figlio di TotĂČ e di Reale Francesca. Altezza un metro e settantadue, occhi castani, capelli neri, visto regolare, segni particolari nessuno. Idoneo.»
Avevo affermato di accusare dolori di ogni tipo per scansare il servizio di leva, ma fu inutile. I medici, ben avvezzi alle scuse che ognuno di noi si inventava, non tennero in nessun conto i miei malanni. Avevo provato anche altre strade, tentando di corrompere qualche medico, ma mio padre lo aveva scoperto e mi aveva detto, laconico: «Tu vai a fare il servizio militare, costi quel che costi. Devi imparare un po’ di disciplina».
Avrei voluto ribattere che lui non l’aveva fatto, il militare, ma non volevo neanche rischiare di farmi pestare inutilmente. Mi sentivo “grande”, ma per mio padre ero ancora un ragazzino viziato. Avrei voluto urlargli che ormai ero maggiorenne, ma in casa mia non valeva niente. Mio nonno faceva volare di tanto in tanto qualche ceffone ai propri figli e mio padre non aveva mai osato mai contestare una sua decisione. Anche se con me mio nonno fu sempre estremamente dolce.
Il giorno della visita medica superai, con altri cinque ragazzi, un test d’intelligenza. Rimasi sbalordito dalla semplicità delle domande: quante facce ha un dado; qual ù la capitale d’Italia; in quale regioni vivi; quanto fa nove per nove; come si trova l’area di un quadrato.
Pensavo ci stessero prendendo in giro e invece dovetti constatare che oltre la metĂ  consegnĂČ in bianco, mentre il resto rispose soltanto a qualche domanda. Fummo solo in cinque a completare con successo il test. Scoprii cosĂŹ che c’erano ragazzi molto, ma molto piĂč ignoranti di me. Certo, se risposi esattamente a tutte quelle domande devo dire che fu grazie a mio padre, il quale non mancava mai di interrogarmi a pranzo e a cena: un metodo d’insegnamento piuttosto discutibile, ma che, devo ammettere, fu efficace.
Arrivai al Centro addestramento reclute di Roma un giorno prima rispetto alla data di convocazione. Era una caserma grandissima, anzi era una grossa città-caserma. Guardandola dall’esterno sembrava un’enorme prigione. Non avevo proprio voglia di entrarci, ma dovevo farlo. Dovevo.
Affittai per un mese, tanto durava l’addestramento, una piccola stanzetta in una pensione che distava alcune centinaia di metri dalla caserma. In realtà avrei dovuto dormire tutte le sere in caserma, ma tutta la mia roba non avrebbe trovato posto dentro un piccolo armadietto. E poi così avrei potuto portarci qualche ragazza, riposarmi quando ero in libera uscita. Soldi non me ne mancavano: avevo un paio di milioni di lire in tasca, in un periodo in cui un soldato semplice riceveva una paga di poche migliaia di lire al giorno.
Il giorno dopo, a malincuore, ma deciso, mi presentai davanti alla porta carraia del posto di guardia, vestito come un damerino: abiti e scarpe firmate e una piccola borsa con poca roba intima e gli accessori per la barba provocando immediatamente l’ilarità dei soldati all’ingresso. “Cominciamo male” pensai.
Entrai dentro la caserma e mi sentii come Dante all’inizio del suo viaggio nell’Inferno. Uscito dall’atrio e percorsi pochi metri mi ritrovai di fronte numerosissimi soldati inquadrati perfettamente che marciavano sincronizzati. Mi accompagnarono in una camerata da sette. Ci saremmo stati io, due sardi, due pugliesi e due campani. A parte i sardi, che mostrarono subito una certa dimestichezza, gli altri miei compagni di stanza erano davvero spaesati, pur avendo la mia stessa età. Fui colto da un fremito di rabbia e di frustrazione: che ci facevo io in quella stanza con dei compagni che frignavano continuamente per aver lasciato il paese, la ragazza, la famiglia?
Marciavamo tutti i giorni, e io, che indossavo solo scarpe fatte a mano, imparai a convivere con le vesciche provocate dagli anfibi. PerĂČ se li indossavano tutti, potevo farlo anch’io, mi dissi.
Montavamo e smontavamo continuamente le armi. Tutti i giorni facevamo le stesse cose. Alla fine del corso di addestramento marciavamo perfettamente allineati e sapevamo smontare e rimontare le armi con gli occhi chiusi.
Uscivamo tutte le sere e tutte le sere invitavo i miei compagni di camerata a cena nella pensione dove avevo preso la stanza. Mangiavamo ogni ben di dio, e i pugliesi in particolare ingoiavano il cibo come se non avessero mai mangiato in vita loro. Cominciai ad affezionarmi a loro. Finita la cena salivo in camera, mi cambiavo, indossavo abiti eleganti e puliti e uscivamo. I miei compagni pensavano che fossi un miliardario in vacanza. Mi accollai io, infatti, anche le spese del cinema e delle puttane. Con queste ultime feci un vero e proprio patto: tanti soldi per tante scopate ogni sera. Divenni il leader naturale del gruppo.
Qualche giorno prima della partenza per la caserma di assegnazione ci accordammo su come ci saremmo comportati, dopo tutto quello che avevamo sentito sui “nonni” – i soldati prossimi al congedo –, tra cui l’obbligo di rifare loro le brande. A me questo fatto non andava giĂč, ma mi feci convincere dai miei compagni che era meglio non andare incontro ai guai, e poi si trattava di una tradizione che doveva essere rispettata da tutti.
Era una fredda mattina di marzo, anche se il sole splendeva, quando io e i miei compagni arrivammo a Poggiano, un piccolo comune montuoso in provincia di Bari. Non avemmo neppure il tempo di entrare in caserma che i “nonni” ci accolsero urlandoci come forsennati di scendere presto dalle camionette e di metterci subito in riga.
L’aria che respiravamo non era piĂč quella del CAR, che al confronto era stato una passeggiata.
I “nonni” sghignazzavano nell’osservare i nostri movimenti goffi. Ci fecero salire su altri camion e ci portarono in caserma. Non sentivamo altro che urlare, urlare e urlare. Tra spintoni e scherzi di cattivo gusto ci accompagnarono ognuno nei reparti assegnati. Lasciati gli zaini nelle rispettive stanzette, fummo subito dopo convocati in adunata. Rimanemmo sull’attenti circa un’ora, finchĂ© arrivĂČ un ufficiale che ci spiegĂČ la nostra attuale condizione: «Siete stati assegnati a questa caserma punitiva perchĂ© siete tutti pregiudicati; non meritate di stare tra le persone civili perchĂ© siete dei malfattori, e sarĂ  mia intenzione educarvi a dovere. E sappiate» continuĂČ Â«che chiunque di voi proverĂ  a scappare sarĂ , una volta preso, condotto a Gaeta e condannato a sei mesi di carcere. E una volta scontata la pena tornerĂ  di nuovo qui. Tirate voi stessi le conclusioni su quanto vi convenga scappare».
L’ufficiale fu piuttosto convincente, tanto che nessuno di noi tentĂČ mai la fuga.
Per qualche giorno fummo lasciati in pace: dovevamo organizzare le nostre stanze, montare le brande, pulire e ripulire piĂč volte i nostri armadietti, visto che a ogni ispezione ci veniva puntualmente detto che erano ancora sporchi.
Lo stress dei primi giorni fu davvero intenso. Ognuno di noi ogni tanto veniva chiamato e costretto a fare i letti di questo o di quello.
Un vicenonno, soldato di uno scaglione inferiore, venne a dirmi che dovevo andare in una certa stanzetta a fare la branda al capostecca, cioĂš il capo dei nonni, il quale riteneva che fossi troppo presuntuoso con i miei atteggiamenti.
Gli risposi che sarei andato certamente se lui prima fosse venuto a farmi un pompino.
«Cosaaaa?» mi urlĂČ il vicenonno avanzando lentamente verso di me.
Con estrema calma gli afferrai la gola, per l’esattezza il muscolo della trachea, e affondai le dita. In meno di qualche secondo il suo viso divenne paonazzo, le ginocchia gli cedettero. Lasciai la presa: l’avrei ucciso se avessi continuato a stringere. Guardandolo in ginocchio, mentre con le mani si teneva la gola dolorante, gli dissi: «La prossima volta il tuo capo deve mandare un uomo e non una femminuccia. Hai capito cosa devi dire al tuo capo?».
«SÏ, sÏ...» rispose quello terrorizzato.
«E cosa devi dirgli anche? Ripeti.»
«Che la prossima volta...»
«No, quello che ti ho detto prima» lo interruppi.
Ci pensĂČ qualche attimo e poi: «... solo se ti farĂ  un pompino?».
«Bravo! Ora vai, pezzo di merda.»
I miei compagni di stanza mi guardarono basiti. Lo so, eravamo rimasti che avrei fatto anch’io il letto a qualche nonno, ma quel modo arrogante di chiederlo mi aveva mandato su tutte le furie. E poi avevo capito che non si trattava piĂč semplicemente di rifare un letto, ma di diventare veri e propri schiavi dei nonni: andare a prendere la colazione, lavare i loro sudici calzini e tutta una serie di compiti umilianti. Mai! Piuttosto mi sarei fatto ammazzare. E fu la guerra.
Il mio obiettivo iniziale era fare un anno di militare tranquillo, ma ormai non potevo piĂč tirarmi indietro.
L’indomani, durante l’adunata, il capostecca, Tano Testadicane – mai cognome piĂč appropriato –, mi urlĂČ: «Stasera te lo faccio, quel servizietto, non ti preoccupare...».
«Mi raccomando» gli risposi, «il pompino mi piace con l’ingoio. Sentirai com’ù dolce la mia sborra...»
Era infuriato come un toro. Aveva perso la faccia davanti ai suoi compagni: ero sicuro che me l’avrebbe fatta pagare.
Cazzo, era davvero grosso, pensai. Era alto circa un metro e ottanta, spalle larghe e grandi mani da contadino – scoprii poi che contadino lo era stato davvero. Dal suo linguaggio – un dialetto strettissimo – capii che era siciliano: stavo scherzando con il fuoco.
Dovevo procurarmi un’arma. Qualcosa di molto pesante in grado di fermarlo se avesse provato ad aggredirmi. Presi due lunghe calze di lana e vi introdussi dentro delle pietre. Mi sarebbe bastato colpirlo bene una sola volta per arrestare la sua furia: con le sole mani non ce l’avrei fatta. Pensai in un primo momento di attaccarlo subito, quando non se l’aspettava, ma temevo di ammazzarlo. Presi tempo.
La sera non ebbi il permesso di uscire: durante il mio servizio di guardia un ufficiale aveva notato che la mia divisa non era in ordine – alla giacca mancavano alcuni bottoni – e per questo ero stato punito.
I nonni ci avevano fregato le altre divise già al primo giorno. Eppure gli ufficiali sapevano quanto succedeva dentro le camerate. Perché permettevano tutto questo?, mi chiesi.
Mentre gli altri nicchiavano, i miei compagni sardi, che ormai consideravo amici, si schierarono subito con me, ed era a loro che chiedevo di vigilare su di me mentre dormivo: da giorni non dormivo bene, ero spaventato da quell’ambiente, dai nostri infidi superiori e da quel gigante senza cervello. Nessuno mi aveva piĂč chiesto di fargli il letto, e persino nessun nonno si era piĂč permesso di passarmi davanti in mensa. Evidentemente era girata la voce. Ma questa calma apparente mi inquietava.
E così successe che una notte fui come svegliato da un’ondata di mare burrascoso in cui ebbi l’impressione di annegare. Era piscio misto a qualcos’altro. I colpevoli erano scomparsi prima che riuscissi a riaprire gli occhi.
Me l’aspettavo. Subito fui preso dalla smania di vendetta ma poi riflettei. Il bastardo sarebbe stato in guardia. Dovevo pianificare con cura cosa fare, ma promisi a me stesso che prima che questi si fosse congedato – e mancavano meno di due settimane – sarebbe arrivata la mia risposta.
Il giorno seguente chiesi al maresciallo di firmarmi l’autorizzazione per ritirare il materasso e le lenzuola dal magazzino. Voleva sapere il perchĂ©. Gli risposi che involontariamente m’ero pisciato addosso durante la notte.
Mentre ritiravo la roba da una finestrella del magazzino notai che il sottufficiale e Tano, il capostecca, confabulavano tra loro nascosti dietro a un camion. Qualcosa non quadrava. O meglio, molte cose iniziavano a quadrare. La mia situazione si aggravava sempre piĂč.
Uno dei compagni di scaglione che avevo conosciuto a Roma e a cui avevo offerto qualche scopata entrĂČ in servizio in fureria. Gli chiesi di procurarmi tutti gli estremi del bastardo. Non se lo fece dire due volte. Il giorno dopo ero in possesso di tutte le informazioni private che riguardavano il capostecca: nomi e cognomi dei genitori e della sorella, il paese – cosĂŹ scoprii che veniva dalla mia stessa provincia –, l’indirizzo, e persino il numero di telefono.
«Splendido!» dissi. Lo ringraziai e gli promisi che gli avrei pagato una scopata coi fiocchi.
All’imbrunire scavalcai il muro di cinta rischiando di farmi sparare, e mi avviai alla mia pensione. Feci alcune telefonate e chiesi a un amico di rintracciare i miei compagni d’infanzia, gli unici di cui potessi fidarmi, ’u Mancinu e ’u Grossu. Nell’attesa mi concessi un bel bagno caldo: mi avrebbe aiutato a riflettere su quanto dovevo dirgli.
All’ora stabilita arrivĂČ la telefonata che aspettavo: era Tinu ’u Mancinu.
Dopo qualche convenevole gli spiegai quanto mi stava succedendo. Non avevo ancora finito di parlare che Tino mi disse che lui e ’u Grossu stavano venendo su.
«Noooo!» gli urlai. «Ascoltami e basta.»
Riuscii finalmente a raccontare fino alla fine come stavano le cose col capostecca. Coincidenza volle che ’u Mancinu tutte le mattine accompagnasse con il suo furgone a Tecali – il paese dove abitava il “nonno” – gli operai di un cantiere. E poi ritornava a riprenderli la sera.
«Perfetto!» esclamai e gli dissi quello che avevo in mente: una visitina di cortesia alla famiglia del cornuto. ’U Mancinu mi rispose subito di stare tranquillo: «Domani risolvo io il problema».
«Ti sono grato, amico mio.»
Prima di chiudere gli raccomandai che doveva essere gentile ma fermo nel dirgli che non ci si comporta cosĂŹ con i paesani.
«Stai tranquillo: cchiĂč tardu parlu cu Grossu.»
Io intanto sarei entrato in azione quella sera stessa. Prima di mettermi a scavalcare il muro di cinta guardai chi ci fosse di guardia al cancello: era un mio compagno del secondo, perciĂČ decisi di entrare dalla porta principale. Quando quello mi riconobbe si voltĂČ dall’altra parte facendo finta di non vedermi.
Aspettai che si addormentassero tutti. Il piantone di guardia ai corridoi ronfava come un trattore. Quando la mia vista fu abituata alla luce notturna, indossai la mimetica, calzai gli anfibi e mi recai in bagno. Presi la busta in cui da due giorni defecavo. Ci pisciai dentro, diluii il tutto con acqua, ammoniaca e detersivi vari e mi avviai alla stanzetta dove dormiva Tano.
Per colpa sua avevo passato due settimane d’inferno e non avrei permesso che si congedasse tranquillamente dopo quello che m’aveva fatto. Aprii piano piano la porta senza arrischiarmi a entrare, visto il buio, quindi, facendo molta attenzione che il contenuto non fuoriuscisse, la lanciai verso la seconda branda: lo centrai in pieno viso: «Spero tu abbia inghiottito un po’ di merda, bastardo» urlai.
Ritornai veloce nella mia stanzetta e mi appoggiai con tutto il corpo contro la porta. Come avevo immaginato qualcuno tentĂČ di aprirla.
Era lui. Aveva capito ch’ero stato io e voleva farmela pagare. IniziĂČ a colpire la porta con tutta la sua forza bruta, anche se lo sentii piĂč volte scivolare a terra, imbrattato com’era. Gridava come un pazzo. Tanto che svegliĂČ l’intera camerata. Allora il piantone lanciĂČ l’allarme e in pochi minuti arrivĂČ l’ufficiale di guardia con la scorta.
Il miserabile iniziĂČ ad accusarmi apertamente di averlo conciato cosĂŹ. Naturalmente negai, ma non riuscii a dimostrare come mai a quell’ora di notte avessi addosso la m...

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