1 NOTIZIA SUL TESTO
Taccuini a parte, dovâĂš dato di sorprendere fin dal â95 qualche lacerto alcionio («Le cicale mescolano il loro canto al mormorio fresco dellâacqua», «Il pino [...] dĂ un suono melodioso, come uno strumento», T III, 55 e 57), Ăš senza dubbio nella lettera a HĂ©relle del 16 gennaio 1896 il primo segno, consapevolmente comunicato, della disposizione poetica dalla quale dovevano nascere le Laudi. «Da qualche settimana sboccano nella mia anima fiumi di poesia» scrive il poeta da Pisa, riadattandosi una topica, invertito per ora, ma solo per ora, il dantismo del largo fiume che si spande, immancabile poi ogniqualvolta gli occorrerĂ di riferirsi ad Alcyone.
SpetterĂ allâeroe del Fuoco, storia esorcistica di una vocazione, di rivelare, fra uno scongiuro e lâaltro («Ah se non sarĂČ sopraffatto dalla mia stessa abondanza»), le ragioni speculari del traslato («si udrĂ a traverso tutta la mia opera [...] la melodia dellâacqua [...] Lâho trovata!»), con la stessa euforia vittoriosa che accompagna lâannuncio alcionio. «Io sono [...] converso in innumerevoli ruscelli di poesia», «mi pare che tutto il mio sangue sia divenuto un fiume lirico inesauribile»: nellâestate del 1902, mirabilmente prolifica quando la fisionomia del canzoniere va precisandosi assumendo i connotati del diario lirico, la consueta immagine strumenta unâeccitata metamorfosi. Lâimmagine, consueta davvero, era infatti giĂ comparsa allâalbore delle Laudi, nel luglio â99: «i versi nascono spontanei dalla mia anima come le schiume dalle onde», e poco dopo, nellâagosto: «mi abbandonai al fiume di poesia cui avevo resistito per tanto tempo». La metafora equorea si celebrava del resto allâinsegna di Glauco («Io veramente [...] mi sono trasfuso nel mito di Glauco»), uno dei grandi patroni delle arcane trasfigurazioni del canzoniere, composto appunto «imitando acque» sempre piĂč impetuose: «sento scorrere dentro di me torrenti di poesia» (dicembre 1900).
Sulla traccia sicura, segnata da unâoccorrenza tanto puntuale, torniamo dunque pure al â96, ai giorni del gennaio durante i quali il fiume di poesia comincia a scorrere se non ancora a spandersi: dâAnnunzio Ăš con la Duse a Pisa, a San Rossore, al Gombo. Lâescursione sarĂ senzâaltro fatale, foriera, intanto, della Capponcina, stando allâesclamativo, giusto allâesordio della lettera appena menzionata: «Non riesco a liberarmi dallâincantesimo toscano!», se non forse di una prima movenza laudistica, provocata ora dalla suggestiva iscrizione del portale pisano: «Illaesus! [...] benedetta sia la Natura» aggiunge a commento «poichĂ© mi concede di ripetere questa parola, quando sto al sole, con i piedi nellâerba, con gli occhi fissi su una cosa di bellezza». E si fa udire qui la voce di quello stesso Keats (a thing of beauty is a joy for ever) chiamato poi a dialogare con il DĂšspota nella battute inaugurali della TREGUA: O magnanimo DĂšspota, concedi [...] châei senta lâerba sotto i nudi piedi [...] ei sarĂ giovine ancĂłra! (I shall be young again), comâera giĂ nellâepigrafe di Canto novo e come compariva, a riprova dellâorigine simultanea delle Laudi, nel primitivo abbozzo di LAVS VITAE (cfr. la Notizia sul testo a Maia).
Conviene pertanto non eludere la sottile agnizione dannunziana. Se illaesus Ăš cifra che ben si addice allo stato di grazia, alla felicitĂ edenica suggeriti da certa poesia di Alcyone, il benedetta sia la Natura, che segue, sembra segnare un limite preciso allâabbandono lirico, additando subito lâintraprendenza rituale dellâeletto scriba. Era questa â si ricorderĂ â lâopinione di Solmi, allorchĂ© negava lâesistenza del dâAnnunzio «passivo» ritagliato dai cultori della lirica pura e insisteva invece sulla prodigiosa virtĂč mimetica del poeta, avvertibile meglio che altrove proprio nella lauda, «esplicazione volontaria» come la definiva «operante sulla passivitĂ dellâimpressione, inserzione dellâio nel puro abbandono poetico» (p. 184).
Non parrĂ allora casuale che il primo indizio di una procedura cosĂŹ implicata con il destino della poesia dannunziana, la benedizione, appunto, della natura, faccia da preludio a una sequenza proprio alcionia: «Vado a San Rossore» scrive sempre a HĂ©relle nella stessa lettera «nei boschi, a contemplare le file dei cammelli carichi di frasca; e poi al Gombo su la riva del Tirreno sparsa di alghe morte, dove erra lo spirito giovanile di Percy Shelley». Due giorni dopo, dâAnnunzio scriverĂ di nuovo a HĂ©relle confidandogli di sentirsi «gravido piĂč che mai: onustior; e con una gran voglia di lavorare».
Lâaccensione lirica, al colmo del trasognato vagabondaggio sul litorale pisano, doveva attendere tuttavia piĂč di un lustro prima di risolversi nella pagina di Alcyone: IL GOMBO, ANNIVERSARIO ORFICO, I CAMELLI (agosto 1902) sono infatti ancora di lĂ da venire. Per il momento, solo i taccuini sâincaricano di conservare, come dâuso, quella che Ăš sĂŹ, certo, lâimmediatezza delle impressioni, ma insieme anche la riscrittura dei luoghi shelleyani ai quali non poco deve la vicenda alcionia. Ecco una nota del 15 gennaio 1896: «La pineta del Gombo. Tutta la spiaggia arenosa Ăš sparsa di alghe morte, dalle radici contorte e nodose. Il mare grigio rumoreggia. Una solitudine immensa, quasi terrificante [...] E il cadavere di Percy Shelley approda, dâimprovviso, sotto i miei occhi stupefatti». E dopo avere osservato il moto «tardo e grave dei camelli», dâAnnunzio si sofferma sul paesaggio pisano: «la campagna Ăš verde e piana, solcata di solchi acquosi, dove si mira il cielo» (T VI, 81-82). A monte, fra lâaltro, di LUNGO LâAFFRICO, lâappunto Ăš memore di The cloud e di The recollection che facevano di uno stagno strip of the sky o a little sky / gulfed in a world below. La poesia di Shelley, giĂ vicinissima alle fantasmagorie di Andrea Sperelli, presta ora al dâAnnunzio il registro percettivo, media lâosservazione del paesaggio che il taccuino tesaurizza.
Non sempre facile motivare con certezza il rinvio della composizione delle Laudi, di cui intanto Ăš surrogato il rifacimento di Canto novo. Le OFFERTE VOTIVE, che risalgono proprio ai primi mesi del â96, sembrano soddisfare lâesigenza di un canto «grecamente composto» («di un libro sovrabbondante, diseguale, contraddittorio ho fatto un libro quasi grecamente composto») e quel «bisogno di essere altrove» da cui nascono â come sâĂš visto â le prime prove di LAVS VITAE; senza contare poi il frammento di Persefone, inserto lirico destinato al Fuoco, giĂ scritto, si direbbe, nellâestate. Per lâoccasione dâAnnunzio avverte Emilio Treves di essere «ritornato al Verso con abitudini nuove», mentre si lascia sfuggire un Laus Deae! sin troppo indiziato (31 agosto 1896). Portavoce dellâeditore, lâ«Illustrazione Italiana» dĂ notizia precisa di questo ritorno alla fine dâottobre, annunciando come prossimi alla pubblicazione ben tre misteri: Persefone, Adone e Orfeo. La reticenza dei titoli, che resteranno per sempre tali, non cela comunque lâinteresse per il mito demetriaco e orfico â la sostanza eleusina di Alcyone â quando poesia e tragedia si confondono nei progetti di un dâAnnunzio oramai rivolto a quella classicitĂ misterica di cui sâerano fatti portavoce, oltre che Nietzsche, Pater e SchurĂ©.
I Sonnets cisalpins, composti alla fine dellâanno e per i quali non ha mezzi toni («quello scoppio di fanfara barbarica che Ăš il verso A PersĂ©phonĂ©ia fille de DĂ©mĂ©tĂšr [...] piacerebbe molto a Gustavo Flaubert», a HĂ©relle, 24 dicembre 1896), ribadiscono lâirresistibile attrazione verso la poesia, anche perchĂ© la polemica dei plagi, nonostante la disinvoltura che dâAnnunzio non mancĂČ allora di ostentare, lo costrinse pure ad aggiustare il tiro, a rivedere i propri programmi rincarando la dos...