Settembre 2006. Dopo alcune settimane trascorse prima a Santa Margherita Ligure, poi ad Assisi dove ci recavamo per diversi mesi allâanno, eravamo ormai giunti al termine delle nostre vacanze. Mio figlio Carlo, come tutti gli anni, prima di ripartire si recĂČ alla tomba di san Francesco per raccomandarsi e chiedere la sua protezione per il nuovo anno scolastico. Rimase molto male perchĂ© non lo fecero entrare. Avevano chiuso la basilica anticipatamente, ma pregĂČ lo stesso da fuori. Milano ci accolse con il suo consueto brulicare. Le strade erano giĂ piene di gente affaccendata in mille occupazioni. Avanti e indietro. Il lavoro quotidiano non aveva tardato a ripartire dopo la sosta agostana.
Carlo amava ricominciare. Aveva quindici anni. E come sempre visse i primi giorni del mese di settembre senza particolare nostalgia per lâestate che andava scemando, piuttosto con una grande attesa. Voleva rivedere gli amici, i compagni di scuola, i professori. Desiderava rimettersi in gioco. Attesa, era questa una delle parole che lo descriveva meglio di altre, lâatteggiamento di chi sa che ogni istante puĂČ dare qualcosa, puĂČ essere avvenimento.
Entrati in casa trovammo fra la corrispondenza un libro inviatoci da un amico editore e dedicato ai santi giovani. Carlo lo volle leggere subito. Prendendolo fra le mani mi disse: «Mi piacerebbe tanto fare una mostra dedicata a queste figure».
Le mostre erano una sua passione. Ne aveva create di diverse, una in particolare molto apprezzata in tutto il mondo era dedicata ai miracoli eucaristici. Le creava al computer e poi lasciava che facessero il loro corso, che venissero richieste anche lontano da Milano, in giro per il globo. Creare mostre era una sua strategia per soddisfare il suo grande desiderio di annunciare a tutti «la buona Novella». Era animato da un insopprimibile desiderio di portare continuamente alla luce la bellezza dei contenuti della fede cristiana, di essere propositivo nel bene in tutte le circostanze della vita, di mantenersi sempre originale a quel progetto unico e irripetibile che Dio sin dallâEternitĂ ha pensato per ognuno di noi. «Tutti nascono originali, ma molti muoiono come fotocopie», Ăš non a caso una delle sue frasi piĂč conosciute.
Quel libro lo colpĂŹ particolarmente. Venivano raccontate storie di eroismo, vite di giovani spezzate in tenera etĂ e allo stesso tempo offerte. A emergere era principalmente la fede di questi ragazzi, il loro saper credere pur nelle difficoltĂ a una positivitĂ di fondo, in un Dio che nonostante permetta sofferenza e contraddizioni, ci ama infinitamente e non ci abbandona mai. La vita aveva regalato loro spesso fatiche e dolori, ma nel loro cuore erano riusciti a rimanere lieti e a trovare vie di luce.
Questo messaggio affascinava Carlo. Vi ci si ritrovava. Ricordo, fra lâaltro, che proprio in quei giorni aveva voluto stare vicino in particolar modo a una sua compagna di scuola che si era ammalata. I suoi genitori si erano molto preoccupati perchĂ© inizialmente non avevano capito che cosa avesse. Si sospettava una leucemia. Carlo le aveva telefonato spesso durante lâestate. Le diceva di affidarsi al Signore e insieme di stare tranquilla. Alla fine, per fortuna, la malattia si rivelĂČ essere una semplice mononucleosi. «Il Signore ti vuole ancora qui», commentĂČ scherzosamente parlando al telefono con lei.
Anche mio figlio durante quelle settimane non si sentiva particolarmente bene. Aveva dei piccoli dolori alle ossa. Qualche minuscolo livido sulle gambe. Nulla, tuttavia, che ci facesse sospettare qualcosa di grave. Faceva tanto sport e pensavamo che i fastidi fossero causati da questo. Lui stesso, del resto, tendeva molto a minimizzare. E cosĂŹ non ci preoccupammo piĂč di tanto.
La scuola iniziĂČ a metĂ settembre. Furono giorni che ricordo come particolarmente luminosi. Milano era ancora in piena estate, lâautunno sembrava non voler arrivare. Le serate erano soleggiate, amavamo concederci lunghe passeggiate al parco Sempione. Iniziavamo lâanno scolastico con un senso di spensieratezza. I miei sentimenti, in particolare, erano di gioia e di serenitĂ . Tutto avrei immaginato potesse capitarmi, potesse capitarci, davvero tutto, tranne quella tempesta che venne, inaspettata e violenta, a travolgere la nostra vita, a investirci come un improvviso temporale estivo. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
Lâultimo giorno di scuola di Carlo fu il 30 settembre, un sabato. Quando uscĂŹ mai avrei immaginato che non vi sarebbe piĂč rientrato. Eppure fu cosĂŹ che andarono le cose. Frequentava il liceo classico allâIstituto Leone XIII, retto dai padri Gesuiti. ArrivĂČ da scuola particolarmente affaticato. Aveva avuto unâora di educazione fisica e il professore gli aveva fatto fare dei giri di corsa del grande campo da calcio. Pensavamo fossero stati quelli a farlo stancare. Di pomeriggio, in ogni caso, trovĂČ le energie per uscire di casa insieme a me per portare Briciola, Stellina, Chiara e Poldo, i nostri amati quattro cani, al parco per una passeggiata.
La mattina successiva, insieme a mio marito e a mia madre, decidemmo di andare a mangiare fuori. Ci avevano suggerito una trattoria vicino a Venegono, il paese dove la diocesi di Milano fa studiare i suoi futuri sacerdoti. Quando Carlo scese in cucina per fare colazione notai che aveva nellâocchio destro, allâinterno della parte bianca, una piccola macchia rossa. Sembrava un banale colpo di freddo. Anche in questo caso non mi preoccupai piĂč di tanto.
Prima di partire per Venegono andammo a Messa. Alla fine della funzione, Carlo volle recitare insieme a noi la Supplica alla Madonna di Pompei. Era una preghiera alla quale era particolarmente devoto. Ormai conoscevamo bene nostro figlio. Fin da piccolo viveva uno stretto rapporto con la Vergine Maria. Ne parlava spesso. La pregava sempre e invitava anche noi a farlo. Lo assecondammo. Mio marito e io ci eravamo da alcuni anni riavvicinati alla fede. Lâavevamo scoperta grazie a Carlo. Fu lui a portarci vicini al Signore. Nella mia vita, prima che ciĂČ avvenisse, ero andata a Messa soltanto tre volte: il giorno del mio Battesimo, il giorno della prima Comunione e il giorno del Matrimonio. E cosĂŹ, di fatto, anche mio marito, anche se a differenza mia, avendo i genitori piĂč praticanti, frequentava ogni tanto la Chiesa. Non che fossimo contrari alla fede. Semplicemente ci eravamo abituati a vivere senza. Eravamo come molte persone intorno a noi, riempivamo le giornate di tante attivitĂ ma non ne conoscevamo fino in fondo il senso, il significato. Seneca sintetizza bene questo modo di impostare lâesistenza: «Una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo» (Lettere a Lucilio, I, 1, 1).
Lâavvento di Carlo nella nostra vita, in questo senso, fu come una profezia, un invito a guardare da unâaltra parte, a essere diversi, ad andare in profonditĂ .
Dopo la Messa salimmo in macchina. Arrivammo a Venegono dove mangiammo allâaperto. Câerano con noi anche Briciola, Stellina, Chiara e Poldo. Dopo pranzo facemmo una passeggiata nei boschi circostanti e raccogliemmo delle castagne. Riempimmo una busta intera. Fra i rami degli alberi filtrava un poâ della luce del sole che rendeva tutta lâatmosfera quasi fiabesca. Avevamo sciolto i cani che ricordo andavano avanti e indietro spensierati fra i cespugli. Carlo ogni tanto lanciava loro dei rami e si divertiva a farseli riportare. Sorrideva. Era felice. Di quella giornata conservo un bellissimo ricordo. Luce e serenitĂ sono i sentimenti che piĂč ritornano nella mia mente. Rientrati a casa, verso sera, a Carlo salĂŹ la febbre. ArrivĂČ a 38 gradi. Gli diedi una Tachipirina. E decisi che il giorno seguente non sarebbe andato a scuola.
LunedĂŹ 2 ottobre. Telefonai alla pediatra e le chiesi se poteva passare a visitare Carlo. ArrivĂČ subito e notĂČ soltanto che aveva la gola un poâ arrossata. Gli prescrisse un semplice antibiotico e ci salutĂČ. Ancora non ero preoccupata. Infatti, mi era arrivata notizia che mezza classe era influenzata. Pensai che anche Carlo fosse incappato nel medesimo malanno.
Mio figlio trascorse il resto della giornata tranquillo. RecitĂČ il rosario insieme a me, come mi chiedeva di fare spesso. Era una cosa naturale per lui, interrompere le attivitĂ della giornata per pregare. Il rapporto con Dio era continuo, incessante, faceva tutto pensando al Signore, riferendosi a Lui. Le preghiere erano un aiuto, cosĂŹ diceva, per riprendere le energie e ricominciare con piĂč forza e serenitĂ le occupazioni di tutti i giorni. Fece i compiti e lavorĂČ un poâ al computer per le sue mostre. La febbre non lo lasciava ma riusciva comunque a essere attivo e presente.
Ci riunimmo tutti insieme per fargli compagnia mentre lui cenava nella sua camera da letto a causa della febbre. Dâimprovviso, se ne uscĂŹ con questa frase: «Offro le mie sofferenze per il Papa, per la Chiesa, per non fare il Purgatorio e andare dritto in Paradiso».
LĂŹ per lĂŹ pensammo che ci stesse prendendo in giro. Carlo era sempre allegro e giocoso. Credevamo che volesse scherzare e non prestammo particolare importanza a queste parole che sembrava avesse volutamente pronunciato per farci sorridere un poâ. La febbre, fra lâaltro, anche se non accennava a diminuire non peggiorava. Altre volte Carlo, fin da piccolo, aveva avuto episodi di mal di gola. E sempre aveva impiegato almeno una settimana, se non di piĂč, a rimettersi del tutto. Anche per questo continuavamo a non preoccuparci.
MercoledĂŹ 4 ottobre. Doveva essere presentato a tutta la scuola il sito web che Carlo aveva realizzato durante lâestate per aiutare le opere di volontariato dei Gesuiti in favore degli ultimi e dei bisognosi. Chiesero a Carlo di farlo, perchĂ© aveva dimestichezza coi computer e i programmi informatici complessi, e anche perchĂ©, essendo giovane, pensavano che con il suo coinvolgimento gli altri ragazzi lo avrebbero seguito piĂč volentieri, imitandolo nel donare il proprio tempo libero gratuitamente a favore degli altri. I Gesuiti mi raccontarono che quando si svolsero le riunioni della commissione del volontariato, composta da alcuni genitori della scuola, erano tutti rimasti molto colpiti dalla vivacitĂ di esposizione di mio figlio, dalla passione che lo animava e dalla sua inventiva. Le mamme erano letteralmente affascinate dal modo di procedere e dalle capacitĂ di leader di Carlo, dal suo stile cosĂŹ gentile e insieme vivo ed efficiente.
Carlo investiva giĂ tante delle sue energie per coloro che erano nel bisogno. Lo faceva quotidianamente, sia in momenti prestabiliti sia quando le circostanze glielo permettevano. Per lui erano azioni naturali, scontate. Amava molto lâesempio dei santi che si erano dedicati agli ultimi. Si era trascritto alcune frasi di Madre Teresa di Calcutta che gli erano piaciute tanto: «Molti parlano dei poveri, ma pochi parlano con i poveri... Non cercate GesĂč in terre lontane: Lui non Ăš lĂ . Ă vicino a voi. Ă con voi!... Se avrete occhi per vedere, troverete Calcutta in tutto il mondo. Le strade di Calcutta conducono alla porta di ogni uomo. So che magari vorreste fare un viaggio a Calcutta, ma Ăš piĂč facile amare le persone lontane. Non Ăš sempre facile amare le persone che ci vivono accanto».
Decisero di presentare il sito sul volontariato anche senza Carlo. Nel primo pomeriggio gli telefonarono e gli dissero che era piaciuto a tutti. La presentazione era stata un successo. Carlo era raggiante, oltre che lusingato. Fare le cose per gli altri e farle bene era per lui motivo di gioia.
Uscii e comprai dei dolci al cioccolato per la festa di san Francesco. Lo facevo tutti gli anni. Carlo ne andava ghiotto. Anche quel giorno ne mangiĂČ diversi e volentieri. Era ancora un poâ stanco, ma come sempre sorrideva e cercava di farci intendere che andava tutto bene.
GiovedĂŹ 5 ottobre. Mio figlio si svegliĂČ con le parotidi un poâ gonfie. Chiamai di nuovo la dottoressa. Venne ancora a visitarlo e disse che probabilmente aveva una parotite. Ci consigliĂČ di continuare con la terapia che stavamo seguendo e cosĂŹ facemmo.
Il giorno successivo, tuttavia, unâaltra sorpresa. Carlo presentava dellâematuria. La pediatra allora ci fece portare un campione di urine ad analizzare in un laboratorio clinico vicino a casa nostra. Lâanamnesi fu confortante: sembrava davvero che non vi fosse nulla di grave.
Quando mio figlio aveva mal di gola e gli aumentava la temperatura, soffriva spesso di episodi di pavor nocturnus, una âperturbazioneâ non patologica del sonno piuttosto frequente nei bambini e negli adolescenti, che provocano parasonnie e incubi notturni. Per questo preferivo trascorrere le notti insieme a lui quando stava male. Dormivo su un materasso per terra, a fianco al suo letto. Ricordo che la notte a cavallo tra il 3 e il 4 ottobre sognai di trovarmi allâinterno di una chiesa. Era presente san Francesco dâAssisi. PiĂč sopra, sul soffitto, vidi il volto di mio figlio, un viso molto grande. San Francesco lo guardĂČ e mi disse che Carlo sarebbe diventato molto importante nella Chiesa. Quindi mi svegliai.
Pensai tutta la mattina a quel sogno. Credetti fosse una piccola profezia circa il fatto che mio figlio sarebbe diventato sacerdote. Infatti, mi aveva piĂč volte partecipato di questo suo desiderio. E mi convinsi che il sogno fosse legato a quello.
La notte successiva dormii ancora con lui. Prima di addormentarmi recitai un rosario. Nel dormiveglia sentii una voce che distintamente mi diceva queste parole: «Carlo muore».
Pensai che non fosse una voce che veniva dal bene. Che fosse un pensiero cattivo e da non assecondare. E cosĂŹ non gli diedi peso.
Sabato 7 ottobre. Carlo si svegliĂČ presto. Voleva andare in bagno, ma si accorse che non riusciva a muoversi. Non poteva alzarsi dal letto. Non ne aveva le forze. Era colpito da una importante forma di astenia. Mi chiamĂČ per essere aiutato. Con molta fatica, insieme a mio marito, riuscimmo a portarlo in bagno.
Ci allarmammo moltissimo. Decidemmo di chiamare il vecchio pediatra di nostro figlio, un noto professore di Milano che era ormai andato in pensione e di cui ci fidavamo ciecamente. Ci disse di portare Carlo subito alla clinica De Marchi dove lui era stato primario per tanti anni. Fu molto gentile con noi. Prima che arrivassimo in clinica allertĂČ i medici. E, in particolare, avvisĂČ il primario specializzato in ematologia pediatrica: doveva investigare subito e cercare di capire cosa stesse succedendo.
Fu impegnativo trasportare Carlo in ospedale. Rajesh, il nostro domestico, si era preso un giorno di vacanza. CosĂŹ, insieme a mio marito, pensammo di far sedere nostro figlio sulla sedia a rotelle della sua scrivania. Riuscimmo a trasportarlo in qualche modo fino allâascensore e poi a farlo salire in auto. Ricordo che Milano era transennata a motivo della maratona che si sarebbe svolta il giorno dopo. Fra mille peripezie riuscimmo comunque a raggiungere la clinica. Davanti allâingresso due infermieri accorsero e trasportarono Carlo dentro. Da subito ci fecero sentire affetto e conforto. Furono premurosi con lui e con noi.
Sulla soglia della clinica i miei pensieri giravano vorticosi. Mi venne subito in mente che lĂŹ dentro câero giĂ stata, quando il vecchio pediatra di Carlo lâaveva vaccinato contro lâepatite B. Era il 1996. La clinica mi era rimasta impressa perchĂ© era specializzata nelle malattie oncologiche dei bambini. Il professore mi aveva raccontato che le mamme che avevano i figli malati venivano supportate anche da alcuni volontari esterni che si mettevano a disposizione per portare loro conforto. Questi volontari partecipavano a corsi di formazione denominati âGruppi Balintâ, cosĂŹ chiamati dal nome del loro ideatore, Michael Balint, che aveva creato un metodo di lavoro destinato principalmente ai medici ma che in quella clinica avevano esteso anche a volontari esterni. Il lavoro, in sostanza, consisteva nellâaiutare psicologicamente i genitori dei bambini malati e anche i bambini stessi, stare loro vicino, essere presenti e cercare di supportarli in quella fatica e in quel dolore. Ricordo che il professore mi aveva detto che se volevo avrei potuto unirmi al gruppo. Quando me lo disse provai un fortissimo sentimento di angoscia e anche di paura. Il pensiero di quei bambini malati e delle loro mamme mi sconvolgeva profondamente. Non mi sentivo pronta per un impegno del genere. Essendo anche particolarmente ipocondriaca, la sola idea mi terrorizzava. Anche perchĂ©, per come sono fatta, sarebbe stato naturale mettermi al posto di quelle mamme e credo che ne avrei sofferto troppo. Ripensandoci bene, penso proprio che attraverso quella proposta, il Signore avesse in qualche modo voluto prepararmi alla malattia di mio figlio. Credo, infatti, che di tanto in tanto Dio permetta che si facciano delle esperienze che sono come un âassaggioâ di ciĂČ che poi successivamente dovremo sperimentare anche noi. Come ben sottolineava san Giovanni Paolo II bisogna ricordarsi sempre che «il futuro inizia oggi, non domani». Sono le prove di eventi che solo Lui conosce, di cui solo Lui sa la trama e anche il finale. La vita Ăš un grande mistero. A volte dal Cielo ci arrivano dei segni. Oggi dico che le parole del professore furono come un primo avvertimento: Ăš questo il dolore che anche tu dovrai attraversare.
Quel pensiero non fu lâunico di quella mattina. Mentre i due infermieri portavano Carlo dentro la clinica, infatti, mi girai dâistinto per guardare dalla parte opposta della strada. Notai la chiesa dei padri Barnabiti dove sono custodite le reliquie di santâAlessandro Sauli. Conoscevo bene quella chiesa, ma quella mattina mi sentii come attratta da essa. Qualcosa mi disse: girati, guarda lĂ . Immediatamente ne compresi il motivo. SantâAlessandro Sauli era casualmente divenuto quellâanno compagno nella vita di Carlo. Ogni 31 dicembre a Milano, infatti, si usa fare âla pesca del santoâ. Si dice che il santo che uscirĂ accompagnerĂ in modo speciale, per tutto lâanno, la persona che lo ha âpescatoâ. Per questo si Ăš invitati a conoscere la sua storia, in qualche modo a farselo amico. Carlo aveva sempre pescato o la Sacra Famiglia, o GesĂč, o la Madonna. Lo prendevamo in giro per questo: gli dicevamo che era âraccomandatoâ. Quellâanno, invece, gli capitĂČ santâAlessandro Sauli, un vescovo barnabita, vissuto nel 1500, patrono dei giovani, la cui festa cade lâ...