Il primo marito di mia madre, Jim (che fino a otto anni avevo creduto uno zio), aveva impostato un Google Alert su di me. Ogni volta che venivo citata da un sito di notizie â ammesso di poter definire cosĂŹ le testate di gossip â lui riceveva una notifica. Le sue intenzioni erano buone: voleva mantenere un rapporto con me e credeva che quegli alert servissero allo scopo.
Un giorno ero a Tompkins Square Park, a sorseggiare caffĂš da asporto mentre passeggiavo con unâamica e il suo cane, quando ricevetti un messaggio. «Ho visto che ti hanno querelata. Il mio consiglio...» scriveva Jim. Da avvocato, la gente lo chiamava di continuo per un parere legale, perciĂČ si era abituato a dispensarne anche di non richiesti. «Immagino che certi inconvenienti facciano parte del gioco, quando sei un personaggio pubblico» scrisse, in un messaggio successivo.
Forse, pensai io.
Sedetti su una panchina, inserii il mio nome su Google e scoprii che era vero: questa volta la denuncia era per aver postato su Instagram una foto di me scattata da un paparazzo. Lâindomani appresi dalla mia legale che pur essendone il soggetto involontario, la foto di fatto non mi apparteneva. A presentare lâesposto era stato un avvocato noto per una sfilza di cause identiche, tanto che in tribunale lo chiamavano âtroll del copyrightâ. «Chiedono centocinquantamila dollari di danni per il tuo âutilizzoâ della foto» mi informĂČ, con un sospiro rassegnato.
Nella fotografia, reggo in mano un gigantesco vaso di fiori che mi copre completamente la faccia. Li avevo comprati per il compleanno della mia amica Mary, in un negozio dietro lâangolo del mio vecchio appartamento di NoHo. Mi ero occupata da sola della composizione, scegliendo io stessa i fiori e spiegando alle commesse al bancone che la mia amica compiva quarantâanni. «Voglio che il bouquet la rappresenti!» avevo detto, aggiungendo un rametto di limone.
Lo scatto fatto dal paparazzo mi piaceva, ma non perchĂ© ritraesse me. Nellâimmagine non mi si riconosceva nemmeno; si vedevano soltanto le mie gambe nude sotto una giacca classica di tweed, taglia extralarge. Al posto del busto e della testa câĂš il mazzo sconclusionato, come se ai fiori fossero spuntate due gambette magre con un paio di sneaker bianche e polverose e fossero andati a farsi un giretto in centro.
Quando la foto era comparsa online, lâavevo inviata a Mary, con il messaggio: «Adesso vorrei proprio avere un mazzo di fiori al posto della testa».
«Ah! Anchâio» aveva risposto subito lei. Qualche ora dopo avevo postato lo scatto su Instagram, sotto una didascalia a grandi caratteri bianchi: «MOOD FOREVER».
I paparazzi avevano iniziato a puntarmi nel 2013, da Blurred Lines, e ce nâera sempre qualcuno appostato davanti a casa mia. Ormai non mi sorprendevo piĂč di vedere uomini corpulenti che sbucavano allâimprovviso tra due macchine o da dietro lâangolo della strada, con un obiettivo che copriva loro la faccia. Avevo pubblicato quella foto perchĂ© mi pareva la prova del mio buon rapporto con i fotografi, invece mi ero beccata una querela. Mi capita piĂč spesso di vedermi attraverso lâobiettivo di un paparazzo che di guardarmi allo specchio.
Ma ho imparato che la mia immagine, il mio riflesso, non appartiene a me.
Un ragazzo con cui stavo parecchio tempo fa diventĂČ amico di un tizio che lavorava per unâimportante galleria dâarte, il quale ci informĂČ di unâimminente personale di Richard Prince, intitolata Instagram Paintings. Di fatto, i cosiddetti âdipintiâ erano soltanto immagini di post di Instagram, commentate dallâartista dal suo account e stampate su tele sovradimensionate. Una di quelle immagini ritraeva me: una foto in bianco e nero in cui sedevo nuda e di profilo, con la testa appoggiata a una mano e gli occhi socchiusi, ammiccanti. Era stata scattata per la copertina di una rivista.
Tutti, compreso il mio fidanzato, sembravano ritenere che dovessi sentirmi onorata di essere stata inclusa nella mostra. Richard Prince era un artista di grido, perciĂČ dovevo essergli grata di aver giudicato la mia immagine degna di una sua opera. Era un riconoscimento. E una parte di me era davvero onorata. Avevo studiato arte alla UCLA e apprezzavo il taglio âalla Warholâ con cui Prince aveva approcciato Instagram. CiĂČ detto, io mi guadagno da vivere posando per le foto e non mi sembrava giusto che un artista celebre e quotato, il cui lavoro veniva pagato infinitamente piĂč del mio, si sentisse in diritto di soffiarmi un post Instagram e di rivenderlo come proprio.
I suoi quadri erano valutati a ottantamila dollari lâuno, e il mio ragazzo voleva comprare quello con la mia foto. Al tempo io avevo appena risparmiato a sufficienza per pagare metĂ dellâanticipo sul nostro primo appartamento insieme. Ero lusingata dal suo desiderio di acquistare il quadro, ma non sentivo il bisogno di possederlo. Mi sembrava strano che lui o io dovessimo pagare per ricomprare un mio ritratto, e soprattutto una foto che io stessa avevo postato su Instagram, una piattaforma che fino ad allora avevo considerato lâunico posto al mondo in cui ero io a controllare il modo in cui mi presentavo agli altri, un santuario alla mia autonomia. Se avessi voluto vedere quella foto tutti i giorni, bastava collegarmi al mio account.
Qualche giorno dopo, con grande delusione del mio fidanzato, lâamico gallerista gli scrisse per informarlo che un grosso collezionista aveva giĂ fatto unâofferta.
Il gallerista lâavevo incontrato un paio di volte, ma avevamo un mucchio di conoscenze in comune, perciĂČ non impiegai molto a scoprire che fine avesse fatto quellâopera. La gigantografia era appesa sopra il divano del suo appartamento nel West Village.
«à un poâ imbarazzante» commentĂČ una mia amica in merito alla collocazione della foto. «Ci sei tu, completamente nuda, appesa al muro, e lui seduto sotto.»
Scoprimmo perĂČ che nella serie Instagram Paintings câera anche un altro mio ritratto, ancora disponibile. Era la riproduzione della mia prima apparizione su «Sports Illustrated». Mi avevano pagata centocinquanta dollari per quel servizio e un paio di migliaia allâuscita della rivista, per lââutilizzoâ della mia immagine. Io avevo detestato quasi tutte le foto, perchĂ© non mi somigliavano affatto: il trucco era troppo pesante, avevo troppe extension e i responsabili della redazione continuavano a insistere perchĂ© mi stampassi in faccia un sorriso posticcio. Invece mi piacevano le immagini in body paint, e ne avevo postata una, la stessa poi riutilizzata da Prince nel suo âdipintoâ.
Il commento dellâartista a quel post, riprodotto insieme a parecchi altri nella parte inferiore della tela, allude a una giornata sulla spiaggia che immaginava di aver passato con me: «Sei stata sincera. Hai perso [
]. Nessun problema. Nessun dolore. Sei piena di energia, ora che splende il sole». Mi piaceva piĂč del commento al ritratto in bianco e nero: «Sei stata costruita in laboratorio da unâĂ©quipe di maschi adolescenti?».
Quando venni a sapere che potevamo ancora comprarci quel quadro, di colpo mi sembrĂČ importante diventarne quantomeno coproprietaria: io e il mio fidanzato lâavremmo acquistato direttamente dallâartista, pagandolo metĂ per uno. Mi piaceva lâidea di inaugurare una collezione dâarte, e un pezzo firmato da Prince mi sembrava un buon investimento. Il guaio era che non riuscivo a immaginare di non poter accampare pieni diritti su un oggetto che avrei appeso nella mia casa. Sapevo che il mio fidanzato la considerava una sorta di conquista: si era impegnato parecchio ad aggiudicarsi quellâopera. Dimostragli un poâ di gratitudine, dissi a me stessa. Accontentati di possederlo a metĂ con lui. E poi avevo solo ventitrĂ© anni: non guadagnavo abbastanza da spendere con disinvoltura ottantamila dollari per un quadro.
Quando il pezzo ci fu consegnato, ero seccata. Avevo letto online che altri soggetti degli Instagram Paintings avevano ricevuto in dono dallâartista copie piĂč piccole, bozze dellâopera finale. Il mio fidanzato chiese una copia per me e qualche mese dopo il mio regalo arrivĂČ. Era una stampa di sessanta centimetri in cornice, e rappresentava uno scatto diverso da quello del pezzo piĂč grande che avevamo comprato, ma io sentii comunque un senso di rivalsa.
Circa un anno e mezzo dopo, quando la relazione finĂŹ, io diedi per scontato che il mio ex non avrebbe voluto quella tela: a che scopo tenersi in casa una mia gigantografia, ora che non stavamo piĂč insieme? Come previsto, quando spartimmo i nostri averi, compresi gli oggetti dâarte comprati insieme, io diventai titolare del Prince, in cambio di altre due opere.
Ma a distanza di qualche settimana mi svegliai di soprassalto, nel cuore della notte, a denti digrignati. Mi ero resa conto di non aver recuperato la âbozzaâ in bianco e nero. Il mio ex disse che gli era «sfuggito di mente» e che era finita in deposito. Scambiammo una serie di email, finchĂ© lui dichiarĂČ che gli dovevo diecimila dollari per averla, un prezzo che aveva calcolato in base alla sua «conoscenza del mercato».
«Ma era un regalo per me!» scrissi, di rimando.
Mi rivolsi allâatelier di Prince. Potevano darmi chiarimenti o una qualche assistenza? Aiutarmi a dissuadere il mio ex da quella ridicola pretesa di riscatto? I miei contatti mi garantirono che lâatelier avrebbe confermato al mio ex che lo studio era stato un dono di Prince, destinato solo ed esclusivamente a me. Lui non reagĂŹ bene.
Tutti quegli uomini, alcuni che avevo conosciuto intimamente, altri mai visti in vita mia, discutevano tra loro su chi fosse titolare di una mia immagine. Stavo ancora soppesando le alternative quando mi venne in mente che nel corso della relazione, durata tre anni, il mio ex aveva collezionato innumerevoli miei nudi sul cellulare.
Ripensai a un episodio capitato un paio di anni prima. Ero sdraiata sul bordo di una piscina, sotto il sole bianco di Los Angeles, quando unâamica mi inviĂČ un link al sito 4chan. Un utente annunciava la pubblicazione di centinaia di foto intime, sottratte a iCloud con lâespediente del phishing. Il sito elencava una sfilza di attrici e modelle i cui nudi sarebbero apparsi senza autorizzazione su internet. I riflessi del sole sulla superficie dellâacqua mi accecavano, costringendomi a strizzare gli occhi mentre scorrevo dieci, venti, cinquanta nomi. Ed ecco il mio, scritto nero su bianco, come sul registro dellâappello a scuola: una cosa cosĂŹ semplice, come se non significasse niente.
A distanza di pochi giorni, le foto diventarono di dominio pubblico. Immagini destinate solo a una persona che mi amava, inviate sulla base di un patto di fiducia e intimitĂ , erano diventate oggetto di febbrili scambi online e venivano discusse in forum dove le si votava come piĂč o meno âsexyâ. La scrittrice Rebecca Solnit ha affrontato la questione del messaggio implicito comunicato dal revenge porn: «Credevi di avere un cervello, invece sei solo un corpo; credevi di avere una vita pubblica, ma noi useremo la tua vita privata per sabotarla; credevi di avere potere, perciĂČ adesso verrai distrutta». Accadde anche a me. Persi cinque chili in cinque giorni e, una settimana dopo, anche una ciocca di capelli, che mi lasciĂČ un perfetto cerchio di pelle bianca sulla nuca.
Lâindomani feci il bonifico al mio ex. Avevo troppa paura di rivivere lâesperienza, temevo che mi avrebbe annientata. Comprai la riservatezza di quelle centinaia di Emily con unâunica immagine, unâimmagine sottratta da un uomo al mio account e riprodotta come sua rinomata e costosa opera dâarte.
Appesi lâInstagram Painting con lo scatto dal servizio per «Sports Illustrated» in bella mostra su una parete della mia nuova casa di Los Angeles. Appena lo vedono, i miei ospiti corrono subito a guardarlo da vicino, strillando: «Oooh, ne hai uno anche tu!».
Incrociano le braccia sul petto, scrutano il quadro, leggono il commento di Prince, e sorridono. Lâaltro commento sopra il suo Ăš di un utente sconosciuto, e spesso si voltano a chiedermi se so cosa significhi. «à in tedesco?» riflettono ad alta voce, chinandosi e stringendo gli occhi.
Alla fine mi stancai di sentir ripetere la stessa domanda e decisi di tradurlo.
«Dice che ho le tette mosce» spiegai a mio marito, che adesso vive con me. Lui si avvicinĂČ, mi abbracciĂČ da dietro e mi bisbigliĂČ allâorecchio: «Per me sei perfetta». Senza volerlo, mi irrigidii. Avevo imparato che persino lâamore e lâapprezzamento di un uomo di cui mi fidavo potevano trasformarsi in possessivitĂ . E io mi sentivo protettiva nei confronti della mia immagine. Nei confronti di lei. Di me.
Quando mi chiesero di nuovo cosa dicesse il commento, mentii, rispondendo che non ne avevo idea.
Nel 2012, la mia agente mi disse di prendere un pullman alla Penn Station per andare nelle Catskills. Allâarrivo avrei trovato il fotografo, un certo Jonathan Leder, e avrebbe pensato lui a rimborsarmi il costo del biglietto. Lâagente mi aveva organizzato un servizio fotografico a Woodstock, per una rivista alternativa di cui non avevo mai sentito parlare, «Darius». PrecisĂČ che avrei passato la notte a casa del fotografo. Nellâambiente, quel tipo di servizio Ăš detto âredazionaleâ: la rivista pubblica le tue foto e il tuo compenso Ăš la âvisibilitĂ â.
Lavoravo a tempo pieno con quellâagente da circa due anni. Ci eravamo conosciute quando io ne avevo quattordici, ed era stata lei a procurarmi i miei primi ingaggi da modella e attrice, ma cominciĂČ davvero a interessarsi alla mia carriera quando avevo circa ventâanni. A quel punto anchâio avevo cominciato a prendere piĂč sul serio il lavoro, rinunciando a frequentare la UCLA per dedicarmi solo a quello, e ottenendo ingaggi con una certa regolaritĂ . Mi ero dotata di un piano pensionistico privato e avevo saldato la retta del mio unico anno di universitĂ . Non che ancora mi capitassero servizi importanti o prestigiosi, solo foto di e-commerce per siti tipo Forever 21 e Nordstrom, ma guadagnavo piĂč delle amiche che lavoravano come cameriere o commesse. E mi sentivo libera: libera dai capi stronzi cui dovevano sottostare loro, libera dal debito universitario, libera di viaggiare, di mangiare al ristorante piĂč spesso o in generale di vivere come diavolo mi pareva. Mi sembrava assurdo aver pensato che lâistruzione valesse piĂč della sicurezza economica offerta dal lavoro di modella.
Cercai di farmi unâidea dello stile di Jonathan con una ricerca online, e trovai qualche scatto dei suoi redazionali di moda. Noiosetto, ricordo di aver pensato. Aspirante hipster. Su Instagram postava perlopiĂč foto della sua casa, e qualche strana immagine rĂ©tro di una ragazza russa, dallâaria giovanissima e con prominenti seni rifatti. Bizzarro, mi dissi, ma avevo visto di peggio. Magari queste sono solo le foto che mette su Instagram. Quelle trovate su Google erano abbastanza carine e meno esplicite. Nulla di sconveniente. Non mi presi la briga di indagare oltre. Comunque era la mia agente a gestire la mia carriera: io eseguivo gli ordini e in cambio lei si occupava di rimpinguare il mio curriculum, per permettermi di ottenere piĂč lavori e farmi un nome nellâambiente.
Come promesso, Jonathan venne a prendermi alla stazione dei pullman di Woodstock. Era basso, magro e con indosso un paio di jeans e una maglietta. Mi manifestĂČ un totale disinteresse, senza degnarmi di uno sguardo durante il viaggio sulla sua auto scassata lungo strade fiancheggiate da campi di erba alta. Dava lâimpressione di appartenere alla categoria degli artisti nervosi, nevrotici. Era molto diverso dagli altri fotografi âdi modaâ che avevo conosciuto fino ad allora, in genere degli autentici stronzi targati LA, con strategici colpi di sole ai capelli e grondanti acqua di colonia dolciastra.
Io indossavo un top senza maniche infilato negli shorts a vita alta e, seduta in macchina, fissavo la peluria bionda sulle mie cosce che si accendeva di riflessi alla luce del sole. Jonathan non si girĂČ mai a guardarmi, ma ricordo che mi sentivo osservata, consapevole della nostra vicinanza, del mio corpo e di come potevo apparire ai suoi occhi. PiĂč lui ostentava indifferenza e piĂč io sentivo il bisogno di dimostrarmi degna della sua attenzione. Sapevo che il giudizio dei fotografi era importante per costruirmi una buona reputazione. Mi considera intelligente? Particolarmente carin...