L'Italia unita
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L'Italia unita

Da Napoleone alla svolta del Novecento

Indro Montanelli

  1. 720 Seiten
  2. Italian
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L'Italia unita

Da Napoleone alla svolta del Novecento

Indro Montanelli

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"Fare gli italiani doveva rivelarsi impresa molto piĂč difficile che fare l'Italia. Tant'Ăš vero che vi siamo ancora impegnati." CosĂŹ Indro Montanelli riassume con una delle sue frasi fulminanti la complessitĂ  che ha accompagnato il processo di unificazione italiana. Una delle fasi piĂč convulse della nostra storia, un secolo di battaglie ed errori, ma anche di eroi ed episodi di coraggio assoluto: la discesa di Napoleone in Italia, la Repubblica partenopea, i Savoia, gli Asburgo; e poi Cavour, Garibaldi, Mazzini, le "cinque giornate" di Milano, la breccia di Porta Pia; fino agli anni della difficile unitĂ , della Destra e Sinistra storiche, del brigantaggio, dello scandalo della Banca Romana. Muovendosi tra leggende, dibattiti e revisioni, Montanelli ricostruisce con lo scrupolo e la vivacitĂ  del cronista storico i fermenti sociali e le intricate vicende del Risorgimento, affrontando senza partigianeria le questioni piĂč controverse: come si Ăš arrivati all'unificazione? Quali conseguenze ha comportato? Di chi i meriti e di chi le colpe? Un volume prezioso per orientarsi in una fase cruciale della nostra storia, un avvincente affresco di un periodo che preannuncia molti aspetti dell'Italia in cui viviamo.

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Information

Verlag
BUR
Jahr
2015
ISBN
9788858682722

PARTE SECONDA

L’Italia del Risorgimento

CAPITOLO PRIMO

Poscritto al ’31

Nella prima parte abbiamo lasciato il nostro Paese sul risucchio dei moti del ’31, che non ne avevano alterato la struttura. Esso restava diviso, in base ai trattati di Vienna del 1815, in otto Stati: il Regno sardo-piemontese, ora arricchito della Liguria, sotto la dinastia dei Savoia; il Lombardo-Veneto ridotto a provincia dell’Austria che da questa posizione di forza esercitava il suo alto patronato su tutta la Penisola; il Ducato di Modena e Reggio sotto la plumbea sovranità di Francesco IV, Principe per metà Estense, cioù italiano, per metà Lorena, cioù austriaco; quello di Parma e Piacenza, attribuito a titolo vitalizio a Maria Luigia, figlia dell’Imperatore d’Austria e vedova di Napoleone; il Granducato di Toscana sotto Leopoldo II di Lorena, a sua volta nipote dell’Imperatore d’Austria; il Principato di Lucca, momentaneamente amministrato dai Borbone in attesa che la morte di Maria Luigia consentisse loro di trasferirsi a Parma lasciando Lucca al Granduca; gli Stati della Chiesa che comprendevano il resto dell’Emilia, la Romagna, le Marche, l’Umbria e il Lazio; e il Regno delle Due Sicilie sotto la dinastia dei Borbone di Napoli, ormai saldamente legati all’Austria.
A differenza di quelli del ’21 che si erano propagati un po’ a tutta Italia, i moti del ’31 avevano investito soltanto gli Stati della Chiesa e i due piccoli Ducati centrali, cioĂš quelli di Modena e Parma. Secondo alcuni storici, essi non avevano esercitato forza di contagio sulle altre regioni per motivi economici. Nel ’21 l’Italia era travagliata da una grave crisi, che a quei tempi si traduceva in fame, esasperava il popolo e lo rendeva disponibile alla rivolta. Nel ’31 la situazione si era assestata; e la pancia piena, o almeno non piĂč del tutto vuota, aveva reso le masse renitenti all’appello rivoluzionario.
Questa tesi non ci convince affatto, per il semplice motivo che le masse furono assenti nel ’31 come lo erano state nel ’21. In entrambe le occasioni, l’iniziativa fu soltanto degli elementi piĂč avanzati della borghesia di cittĂ , civili e militari, e ad essi rimase confinata. PuĂČ darsi che costoro si mostrassero piĂč risoluti nel ’21 perchĂ© speravano di trovare sostegno nelle masse scontente. Ma la speranza non si realizzĂČ neanche allora, e non fu quindi per un maggiore apporto popolare che la ribellione dilagĂČ. Questo avvenne per tutt’altro motivo: e cioĂš per la presenza in tutta Italia di una vasta categoria di ex ufficiali ed ex funzionari dei vecchi regimi napoleonici, che la Restaurazione – come si chiamĂČ il ritorno ai vecchi Stati assolutistici che le baionette francesi avevano abbattuti – aveva congedato o messo in castigo. Questi uomini che avevano assaporato le delizie del «grado» – civile o militare – e accarezzato le prospettive di una brillante carriera al seguito di un Imperatore che con le sue imprese ne forniva ampie opportunitĂ , non si rassegnavano al declassamento. Infatti furono essi a dare avvio al grande movimento costituzionalista sia a Napoli che a Torino, e fu nei quadri dell’esercito e dell’amministrazione che trovarono i loro adepti.
La repressione falciĂČ questi uomini. Alcuni finirono sulle forche, altri in galera, altri esuli all’estero. I pochi che rimasero in Italia a piede libero, nel ’31 avevano dieci anni di piĂč, molte energie e illusioni di meno, e soprattutto erano ormai da troppo tempo fuori dal gioco. Eppure, anche stavolta, in prima fila ci furono loro. I due protagonisti della resistenza all’invasione austriaca dell’Emilia e della Romagna, Zucchi e Sercognani, erano due Generali della vecchia Repubblica cisalpina, che avevano conquistato i galloni sotto le bandiere napoleoniche.
Il ’31 fu tuttavia il loro canto del cigno. Quel moto dimostrĂČ la fragilitĂ  dei regimi restaurati, che crollarono alla prima spinta come castelli di carte. Ma dimostrĂČ anche la debolezza delle forze insurrezionali che dopo quel primo facile successo si disunirono immediatamente e non seppero servirsi del potere cosĂŹ facilmente conquistato nĂ© per trasformare la rivolta in rivoluzione nĂ© per far fronte alla spedizione punitiva austriaca. Tutte le loro speranze le riposero nell’aiuto dal di fuori, secondo l’inveterata vocazione italiana a chiamare lo straniero in aiuto contro un altro straniero. E quando si accorsero che questo aiuto non sarebbe venuto, capitolarono senza combattere.
Questo fallimento segnĂČ la fine del vecchio patriottismo cresciuto alla scuola francese e del suo strumento organizzativo: la Carboneria. Con ciĂČ non vogliamo dire che questa cessĂČ di esistere. Vogliamo dire che entrĂČ in crisi e dovette cedere il passo ad altre forze lasciandosene in parte assorbire, come piĂč tardi vedremo. Per ora torniamo alle vicende degli Stati della Chiesa, dove i moti del ’31 ebbero ancora, malgrado la repressione, una loro coda o poscritto non privo di conseguenze per l’assetto della Penisola.
Gli Austriaci che avevano restaurato l’ordine nelle cosiddette Legazioni, cioĂš nelle province della Romagna e delle Marche, se ne ritirarono subito dopo, nel luglio, soprattutto per le insistenze della Francia. Il governo di Parigi, dopo aver dichiarato che non avrebbe consentito il loro intervento, si era dovuto rassegnare a subirlo. E ora cercava di riguadagnare un po’ di credito reclamando la cessazione dell’occupazione, che il governo austriaco di Metternich si affrettĂČ a decretare, e convocando a Roma una conferenza di ambasciatori come strumento di pressione sul Papa per indurlo a concedere alcune riforme.
Fu questo incoraggiamento che indusse i patrioti emiliani e romagnoli, dopo la partenza degli Austriaci, a rialzare la testa. Prima che le truppe papaline tornassero, essi mandarono a Roma alcune delegazioni per chiedere qualche miglioria che rendesse l’aria piĂč respirabile e l’amministrazione un po’ piĂč efficiente. Le proposte erano redatte in termini ossequiosi e non contenevano nulla di rivoluzionario. Ma tali apparvero al papa Gregorio XVI, uomo mediocrissimo, e piĂč ancora al Segretario di Stato, cardinale Bernetti, ch’era il vero padrone della Curia e brillava soltanto per ottusitĂ .
Lo si vide dalle sue reazioni. Mentre i pontifici brutalizzavano Rimini sebbene non avesse opposto resistenza, il governo di Roma proclamava la chiusura delle universitĂ  laiche, l’aumento delle imposte fondiarie, la restaurazione del Sant’Uffizio e l’istituzione di tribunali speciali composti unicamente di preti, dove gli accusati non potevano nemmeno chiedere confronti con gli accusatori e scegliere i propri patroni. Invece che con misure distensive, Bernetti rispondeva insomma con una sfida alla pubblica opinione, che la raccolse con rabbia e mobilitĂČ la Guardia Civica istituita dopo la rivolta e non ancora congedata.
L’ambasciatore francese a Roma, Sainte-Aulaire, cercĂČ di farsi mediatore fra le due parti dando consigli di prudenza ai ribelli e di moderazione al Bernetti. A spingerlo non era tanto un disinteressato amor di pace quanto la paura che un nuovo conflitto provocasse un secondo intervento austriaco e rimettesse il governo di Parigi nella scomoda situazione di pochi mesi prima. Ma non fu ascoltato nĂ© in Curia nĂ© alla conferenza degli ambasciatori, dove quelli di Austria, Prussia e Russia facevano maggioranza e sostenevano le ragioni del Papa contro Francia e Inghilterra. CosĂŹ si arrivĂČ alla prova di forza.
A dirigere l’operazione repressiva, Bernetti mandĂČ a Rimini il cardinale Albani, che aveva ai suoi ordini cinquemila uomini. I ribelli che si concentrarono a Cesena erano circa duemila, che rappresentavano, dice lo Zavatti, «l’agiatezza e la miseria, la fama e l’oscuritĂ , lo studio e il lavoro, uniti in un sol tutto dal piĂč ardente amor patrio». Non ci stancheremo mai di mettere in guardia il lettore dalla retorica che contamina un po’ tutta la storiografia risorgimentale. I resistenti della Romagna erano una minoranza della popolazione. E di questa minoranza, erano pochissimi e quasi tutti di estrazione borghese quelli decisi a battersi per i loro ideali. Mentre costoro si radunavano nei loro improvvisati reparti, i dirigenti di ForlĂŹ tentavano un accordo con Albani che, forse a malincuore, lo rifiutĂČ perchĂ© incompatibile con gli ordini di spietata repressione che aveva ricevuto.
Per quanto soverchianti di numero, le truppe papaline erano, dal punto di vista militare, quanto di piĂč inefficiente e ciabattone si fosse mai visto in Europa. Eppure, i ribelli se ne lasciarono facilmente travolgere nella battaglia del Monte, dove i morti non furono piĂč di dieci. Fra i pochi che si distinsero ci fu un ex volontario di Sercognani, che di lĂŹ a poco sarebbe diventato la grande stella del teatro drammatico italiano: Gustavo Modena.
La facilitĂ  della vittoria non addolcĂŹ gli umori delle soldataglie pontificie. A ForlĂŹ spararono sulla popolazione inerme ammucchiando sui selciati una ventina di cadaveri. Lo stesso Albani ne fu talmente inorridito e preoccupato che, dopo aver impartito un severo monito alle sue truppe, si rivolse a quelle austriache di Milano perchĂ© accorressero a dargli man forte. Se a comandarle ci fosse stato ancora il Frimont, l’invito sarebbe stato certamente declinato. Ma al suo posto ora c’era il maresciallo Radetzky, un Generale risoluto e dal cannone facile che, senza neanche interpellare Vienna, si affrettĂČ ad attraversare il Po e a occupare Bologna.
Forse egli stesso rimase sorpreso delle festose accoglienze della popolazione, che evidentemente preferiva, come carcerieri, gli Austriaci ai papalini. Infatti, quando costoro arrivarono, gli Austriaci dovettero proteggerli dal furore della folla che avventĂČ su di essi una fitta sassaiola. I papalini se ne rivalsero piĂč tardi, quando le strade si furono svuotate, abbandonandosi a bastonature e ruberie. E altrettanto fecero in tutte le altre cittĂ  in cui via via rimettevano piede. Sembrava, dice il Farini, che il loro unico obiettivo fosse quello di riattizzare il fuoco anche lĂ  dove si stava spegnendo. E a tal punto vi riuscirono da trasformare quell’episodio in un problema europeo.
Metternich non poteva pubblicamente sconfessare l’iniziativa di Radetzky, ma in privato la disapprovĂČ vivamente e mandĂČ al Maresciallo una nota di biasimo accusandolo di non aver calcolato le conseguenze del suo avventato passo. E di conseguenze infatti ce ne furono immediatamente. Sainte-Aulaire aveva comunicato a Bernetti che, se gli Austriaci s’insediavano a Bologna, la Francia non poteva fare a meno di occupare Ancona, e gli chiese come avrebbe in tal caso reagito il governo pontificio. «La virtĂč dei Papi Ăš la rassegnazione» rispose sorridendo il Cardinale, e questa replica, in realtĂ  molto ambigua, trasse in inganno l’ambasciatore, il quale riferĂŹ a Parigi che la Curia, pur non potendo esplicitamente approvare la spedizione, sotto sotto la desiderava e comunque avrebbe accettato il fatto compiuto.
Nel febbraio del ’32 una squadra navale francese si presentĂČ nel porto di Ancona e di notte vi sbarcĂČ un paio di reggimenti. Le forze papaline che lo presidiavano erano certamente informate del loro arrivo perchĂ© esso era stato regolarmente annunziato dal governo di Parigi a quello di Roma. Ma l’ordine che avevano ricevuto non era meno ambiguo della risposta che Bernetti aveva dato a Sainte-Aulaire: diceva che dovevano resistere, ma solo fin quanto bastava «a coprire il decoro e a far constatare che il Santo Padre non aveva chiesto l’intervento francese». E questo mirabile scampolo di chiarezza pretesca era stato interpretato come un invito alla resa da parte dei comandanti della piazza, i quali infatti si fecero catturare a letto e non opposero altra resistenza che le proteste. Invece furono richiamati a Roma e uno di essi mandato davanti al tribunale militare che lo degradĂČ, mentre Bernetti sfogava in note diplomatiche la sua rumorosa, ma non sappiamo quanto sincera, indignazione.
Altrettanto equivoco tuttavia fu l’atteggiamento francese. Il comandante della spedizione era un liberale che, convinto di essere sbarcato per dare man forte ai ribelli, li aizzĂČ a stringersi intorno al loro tricolore e a riprendere la lotta sia contro il Papa che contro l’Austria. Stendhal, che in quel momento era Console a Civitavecchia, scrisse che a quell’appello tutte le Marche presero fuoco e riversarono su Ancona baldanzosi giovani che chiedevano di essere arruolati nei reparti francesi per muovere con loro alla riscossa. Come al solito, gl’Italiani si mostravano molto piĂč fiduciosi in quell’esercito straniero di quanto non lo fossero stati nell’esercito italiano di Zucchi, di Sercognani e di Cesena.
Naturalmente la reazione di Bernetti fu violenta, e Sainte-Aulaire la segnalĂČ al suo governo che dovette chiarire la sua posizione. Esso aveva deciso lo sbarco di Ancona solo per ragioni di prestigio, cioĂš per affermare un patronato francese sulla Penisola in concorrenza con quello austriaco. Ma per disarmare l’opposizione liberale di Parigi che a questo titolo non l’avrebbe accettata, l’aveva presentata, o aveva consentito che venisse interpretata, come un aiuto porto alle forze rivoluzionarie. Questa politica bifronte non poteva continuare. Parigi doveva dire se intendeva riconquistare un’influenza sull’Italia appoggiando la ribellione o tutelando l’ordine costituito e quindi anche il potere del Papa. Scelse la seconda alternativa richiamando gli ufficiali che avevano solidarizzato con gl’insorti e impartendo direttive di collaborazione con le autoritĂ  pontificie. La delusione fu grande sia tra i liberali italiani che tra quelli francesi, i quali attaccarono violentemente il governo. Ma questo potĂ© uscire dall’incomoda situazione stipulando col Papa un regolare accordo che legalizzava l’occupazione come se questa fosse avvenuta col pieno consenso della Curia e stabiliva ch’essa sarebbe durata fin quando anche gli Austriaci non si fossero ritirati: il che avvenne solo sei anni dopo, nel 1838.
A beneficiare di questo accomodamento furono le forze piĂč retrive che, sentendosi ora garantite non piĂč soltanto dalle baionette austriache, ma anche da quelle francesi, diedero libero sfogo al loro Ăčzzolo di persecuzione. Avvertendo odore di processi e di forche, accorse subito il Principe di Canosa: una specie di cavaliere errante della reazione, che lo stesso Ferdinando di Borbone aveva dovuto bandire da tante che ne aveva fatte come Ministro della Polizia. Per quanto ne manchino le prove, ci sono buoni motivi di ritenere che fu lui a consigliare al cardinale Albani, con cui s’incontrĂČ a Bologna, l’istituzione di quel corpo dei «Centurioni», che ricalcava esattamente il modello dei suoi «Calderari» napoletani: una milizia volontaria di bastonatori pronti anche all’assassinio, cui appaltare la caccia ai liberali.
Questo esercito di «mazzieri» fece molte piĂč reclute di quante mai se ne fossero presentate a un appello per la patria italiana: nella sola Romagna toccarono i cinquantamila, e ad arruolarli provvedevano preti e frati promettendogli il paradiso nell’aldilĂ  e il bottino nell’aldiquĂ . Essi sparsero il terrore a Lugo, Imola, Faenza, dove in pochi mesi ci furono piĂč di ottocento fra morti e feriti perchĂ© come al solito la violenza chiamĂČ la violenza, e a quella dei persecutori rispose quella dei perseguitati. Lo stesso Metternich ne fu preoccupato e scandalizzato. «Codesti imbecilli pretendono governare uno Stato, e non sanno nemmeno amministrare un Comune» scrisse al suo ambasciatore a Roma, ingiungendogli di fare un passo presso Bernetti per indurlo ad abolire quelle squadracce. Ma il Cardinale rispose che «nella sua coscienza, non considerava la cosiddetta guerra civile come un vero male, ma piuttosto, talvolta, come un rimedio indispensabile, in mancanza d’altre risorse».
Metternich allora si rivolse direttamente al Papa, presso il quale teneva un suo fiduciario, un certo Segrobandi, che non occupava nessuna posizione ufficiale, ma godeva di un grande ascendente su Gregorio, e lo persuase a licenziare Bernetti. Questi venne congedato in maniera piuttosto brusca e sostituito col cardinal Lambruschini, un barnabita genovese non meno reazionario del suo predecessore, ma molto piĂč comprensivo e umano.
Così, se un po’ di pace fu ristabilita in Romagna, lo si dovette all’Austria che, di tutti i padroni dell’Italia, si dimostrava il meno dispotico e sopraffattore.
E ora vediamo cosa frattanto era successo negli altri Stati della Penisola. Alcune novitĂ  c’erano, grazie al cambio della guardia avvenuto sui due troni piĂč importanti: Napoli e Torino.

CAPITOLO SECONDO

Ferdinando a Napoli

Nonostante la contiguitĂ  territoriale e certa similaritĂ  di condizioni economiche e sociali, il sobbollimento degli Stati della Chiesa non esercitĂČ quasi nessuna influenza sul Reame di Napoli. Qualche contraccolpo ci fu, ma non tale da mettere in pericolo un regime, che proprio in quel momento trovava in un giovanotto di vent’anni il suo piĂč solido campione.
Francesco, salito al trono nel 1825, non ci rimase che cinque anni. La sua salute era rimasta irreparabilmente scossa dall’intossicazione che aveva contratto anni prima in Sicilia e che le male lingue attribuivano ai veleni di sua madre, che lo detestava. Ma non lo amava nemmeno il padre, che gli preferiva il fratello minore. Forse anche questa mancanza di stima e di affetto aveva contribuito a soffocare la personalitĂ  del Principe e a fiaccarne la tempra. Pingue e flaccido, con gli occhi bovini e le guance cascanti, rinfagottato in una frusta uniforme di colonnello senza spalline, aveva sempre dimostrato molti piĂč anni di quanti ne avesse. Se si rivelĂČ piĂč umano e tollerante di suo padre Ferdinando, lo fu solo per debolezza. Pigro come lui, ma senza possederne la grinta autoritaria e il «colore» lazzeronesco, aveva lasciato tutto il potere nelle mani del suo primo ministro Medici, che lo esercitava con la consueta abilitĂ  mescolata di cinismo.
La situazione economica era resa difficile dalla presenza delle guarnigioni austriache che nel ’21 avevano riportato Ferdinando sul trono e gli avevano consentito di revocare la Costituzione. Secondo i patti, il governo di Napoli doveva sopperire alle spese di questa occupazione, che Metternich voleva rendere permanente e che assorbiva un quinto dell’introito nazionale. Medici non esitĂČ a entrare in conflitto con l’onnipotente Cancelliere, sebbene proprio a lui dovesse il proprio richiamo al potere, e alla fine ottenne il graduale ritiro delle truppe. Fedele alla sua politica di distensione, strappĂČ anche al Re un’amnistia in favore dei condannati politici. Ma queste misure dovette contrattarle con due loschi personaggi che rappresentavano un vero focolaio di corruzione: il valletto del Re, Michelangelo Viglia, e la cameriera della Regina, Caterina de Simone. A tal punto i loro maneggi avvelenavano e mettevano in pericolo il regime, che il vescovo Olivieri, avvalendosi del suo prestigio di ex precettore di Francesco, richiamĂČ il suo pupillo all’ordine con una lettera fulminante in cui, fra gli scandali che ammorbavano la Corte, elencava anche «il cattivo odore che rende di se stessa la Regina (perdonatemi questa libertĂ , giacchĂ© vi tradirei se non vi parlassi apertamente), la quale dice in pubblico che Ăš sempre immersa nelle sue cochetterie, e l’ignominia in cui Ăš caduta per necessaria conseguenza la vostra figlia donna Cristina, la quale, si dice, non troverĂ  mai piĂč marito, avendo perso il suo onore in tutta l’Europa».
Francesco incassĂČ la requisito...

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