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Michael Kohlhaas
(da un'antica cronaca)
Heinrich von Kleist, Marina Bistolfi
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Michael Kohlhaas
(da un'antica cronaca)
Heinrich von Kleist, Marina Bistolfi
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Nella Sassonia del Cinquecento, mentre Lutero diffonde la sua Riforma, un mercante di cavalli, Michael Kohlhaas, subisce i soprusi di uno junker locale. Deciso a vedere riconosciute le sue ragioni per via legale, finirà suo malgrado al centro di una tragica vicenda di prevaricazione e ingiustizia. Nelle pagine di Michael Kohlhaas (1810) la maniacale volontà di assoluto che accomuna tutti i personaggi kleistiani assume la forma dell'assoluto della giustizia, che si scontra e si incrina nella realtà di un mondo in cui per l'assoluto non c'è posto.
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ClassicsMichael Kohlhaas
(da unâantica cronaca)
Sulle rive della Havel viveva, verso la metĂ del sedicesimo secolo, un mercante di cavalli di nome Michael Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola, uno degli uomini piĂš retti e insieme piĂš terribili del suo tempo. Fino ai trentâanni, questâuomo fuori del comune avrebbe potuto essere considerato il modello di un buon cittadino. In un villaggio che porta ancora il suo nome, possedeva una fattoria dove viveva tranquillo del proprio lavoro; i figli donatigli dalla moglie li educava, nel timor di Dio, allâoperositĂ e alla lealtĂ ; non câera uno solo tra i suoi vicini che non avesse goduto della sua generositĂ o della sua equitĂ ; in breve, il mondo avrebbe dovuto benedirne la memoria, se egli non avesse ecceduto in una virtĂš. Il senso della giustizia, infatti, fece di lui un brigante e un assassino.
Un giorno cavalcava verso il confine con un branco di giovani cavalli, tutti ben nutriti e lustri, e stava appunto calcolando come impiegare lâutile che sperava di ricavarne sui mercati (in parte, da buon amministratore, in nuovi utili, ma in parte anche per godersi il presente), quando giunse allâElba, e presso un imponente castello, in territorio sassone, si imbattĂŠ in una barriera che prima di allora non aveva mai trovato su quella strada. Proprio mentre si scatenava un temporale, si fermò con i cavalli e chiamò il guardiano, che di lĂŹ a poco si affacciò alla finestra con aria stizzita. Il mercante di cavalli gli disse di aprire. Cosâè questa novitĂ ? chiese quando il gabelliere, dopo un bel poâ, uscĂŹ dalla casa. Privilegio sovrano, rispose quello mentre apriva: conferito allo junker Wenzel von Tronka. Ah, disse Kohlhaas. Si chiama Wenzel, lo junker? e osservò il castello, che dominava la campagna con i merli scintillanti. Il vecchio signore è morto? Morto di un colpo, rispose il gabelliere sollevando la sbarra. Hm! Peccato! replicò Kohlhaas. Un degno vecchio signore, che aveva piacere a frequentare la gente, favoriva i traffici e i commerci non appena poteva, e una volta fece costruire un argine di pietre perchĂŠ una mia giumenta, laggiĂš dove la strada conduce in paese, si era rotta una gamba. Beâ! Quanto devo? domandò, e tirò fuori con fatica, di sotto al mantello che svolazzava al vento, i denari richiesti dal gabelliere. ÂŤSĂŹ, vecchio,Âť soggiunse, perchĂŠ quello borbottava: svelto! svelto!, e imprecava contro il maltempo ÂŤse questo tronco fosse rimasto nel bosco sarebbe stato meglio, per me e per voi.Âť CosĂŹ dicendo gli diede il denaro e fece per proseguire. Ma non era neppure passato sotto la barriera, che alle sue spalle risuonò dalla torre unâaltra voce: alto lĂ , cavallaio!, e vide il castaldo sbattere una finestra e scendere di corsa verso di lui. Cosâaltro câè? si chiese Kohlhaas, e si fermò con i cavalli. Il castaldo arrivò, abbottonandosi ancora un panciotto sullâampio ventre, e mettendosi di traverso contro la tempesta gli chiese il lasciapassare. Il lasciapassare? domandò Kohlhaas. Un poâ confuso, disse che per quanto ne sapesse non lo aveva; ma che se avessero avuto la bontĂ di descrivergli che razza di cosa fosse, poteva anche darsi che per caso ne fosse provvisto. Il castaldo, guardandolo di sbieco, replicò che senza un permesso scritto del signore nessun mercante poteva varcare il confine con i suoi cavalli. Il mercante assicurò che in vita sua aveva passato il confine diciassette volte senza un permesso del genere; che conosceva perfettamente tutte le disposizioni sovrane riguardanti il suo mestiere; che poteva trattarsi solo di un errore su cui lo pregava di riflettere, e che non lo si trattenesse oltre inutilmente, perchĂŠ aveva molta strada da fare. Ma il castaldo ribattĂŠ che la diciottesima volta non lâavrebbe fatta franca, che la disposizione era stata appunto emanata di recente, e che o si procurava il lasciapassare lĂŹ sul posto, o doveva tornarsene di dove era venuto. Il mercante di cavalli, che cominciava a irritarsi per quelle estorsioni illegittime, dopo una breve riflessione smontò da cavallo, lo affidò a un servo, e disse che ne avrebbe parlato personalmente con lo junker von Tronka. Si avviò infatti verso il castello; il castaldo lo seguĂŹ, borbottando di arraffoni spilorci e di utili salassi; e i due, misurandosi lâun lâaltro con lo sguardo, entrarono nella sala. Lo junker stava bevendo con alcuni allegri amici, e per una facezia si era levata una interminabile risata, quando Kohlhaas gli si avvicinò per esporgli le sue rimostranze. Lo junker chiese che cosa volesse; i cavalieri, quando videro lo sconosciuto, fecero silenzio, ma non appena questi ebbe accennato alla sua richiesta riguardo ai cavalli, lâintera brigata esclamò: cavalli? Dove sono?, e corse alle finestre per osservarli. Alla vista dello splendido branco, su proposta dello junker si precipitarono tutti nella corte; la pioggia era cessata; castaldo, fattore e servi si radunarono intorno a loro, e tutti passarono in rassegna gli animali. Uno lodava il sauro fulvo con la stella, a un altro piaceva il baio, un terzo accarezzava il pezzato a macchie gialle e nere; e tutti dicevano che quei cavalli parevano cervi, e in tutto il paese non se ne allevavano di migliori. Kohlhaas ribattĂŠ allegramente che i cavalli non erano migliori dei cavalieri che li avrebbero montati; e li invitò allâacquisto. Lo junker, che era molto attratto dal poderoso stallone sauro, gli domandò anche il prezzo; il fattore lo sollecitò a comprare un paio di morelli che data la penuria di cavalli pensava di poter utilizzare alla fattoria; ma quando il mercante si fu pronunciato, i cavalieri lo trovarono troppo caro, e lo junker disse che avrebbe dovuto cavalcare fino alla Tavola Rotonda e andare in cerca di re ArtĂš, se stimava tanto i cavalli. Kohlhaas, vedendo il castaldo e il fattore bisbigliare tra loro lanciando occhiate eloquenti ai morelli, per un oscuro presentimento fece di tutto per riuscire a vendere loro i cavalli. Disse allo junker: ÂŤSignore, i morelli li ho comprati sei mesi fa per venticinque fiorini dâoro; datemene trenta, e li avreteÂť. Due cavalieri che stavano accanto allo junker lasciarono intendere chiaramente che i cavalli quel prezzo lo valevano; ma lo junker disse che se mai era disposto a spendere per il sauro fulvo, non per i morelli, e fece per andarsene; allora Kohlhaas disse che magari avrebbe concluso un affare con lui la prossima volta, quando fosse ripassato con le sue bestie; salutò lo junker, e afferrò le redini del cavallo per partire. In quel momento il castaldo uscĂŹ dal gruppo, e disse che senza un lasciapassare, lâaveva sentito, non poteva viaggiare. Kohlhaas si voltò e chiese allo junker se quella storia, che gli rovinava tutti gli affari, fosse proprio vera. Lo junker, con aria imbarazzata, rispose allontanandosi: sĂŹ, Kohlhaas, devi procurarti il lasciapassare. Parla con il castaldo, e vaâ per la tua strada. Kohlhaas gli assicurò che non aveva alcuna intenzione di eludere le eventuali ordinanze sullâesportazione dei cavalli; promise che passando da Dresda si sarebbe procurato il lasciapassare presso la cancelleria, e pregò di lasciarlo andare, per quella volta soltanto, dato che di quella pretesa era stato proprio allâoscuro. E sia! disse lo junker, perchĂŠ la tempesta stava appunto riprendendo a infuriare e gli fischiava attraverso le membra scarne: lasciate andare questo poveraccio. Venite! disse ai cavalieri, si voltò e fece per avviarsi al castello. Il castaldo, rivolto allo junker, disse che almeno doveva lasciare un pegno, a garanzia che si sarebbe procurato il foglio. Lo junker si fermò di nuovo sotto il portone del castello. Kohlhaas domandò quale valore, in denaro o in oggetti, dovesse lasciare in pegno per i morelli. Il fattore, borbottando sotto i baffi, disse che poteva lasciare direttamente i morelli. Sicuro, disse il castaldo, è la cosa piĂš pratica; ottenuto il lasciapassare, potrĂ tornare a prenderli in qualunque momento. Kohlhaas, sconcertato da una richiesta cosĂŹ sfacciata, disse allo junker, il quale si stringeva addosso intirizzito le falde del panciotto, che i morelli li voleva vendere; ma questi, dato che proprio in quel momento un colpo di vento scaricò nel portone uno scroscio di pioggia e di grandine, gridò, per mettere fine alla cosa: se non vuole lasciare i cavalli, ributtatelo di lĂ dalla barriera; e se ne andò. Il mercante di cavalli, rendendosi conto di dover cedere alla violenza, decise, visto che non restava altro da fare, di soddisfare la richiesta; sciolse i morelli, e li condusse in una stalla indicatagli dal castaldo. Lasciò con loro un servo, gli diede del denaro, gli raccomandò di badare bene ai cavalli fino al suo ritorno, e con il resto del branco proseguĂŹ il viaggio verso Lipsia, dove voleva recarsi alla fiera, chiedendosi perplesso se forse, per favorire lo sviluppo dellâallevamento di cavalli, in Sassonia non potesse essere stato emanato veramente un decreto del genere.
A Dresda, dove in un sobborgo della cittĂ possedeva una casa con alcune stalle, perchĂŠ era solito praticare da lĂŹ il suo commercio sui mercati minori del paese, si recò subito, appena arrivato, alla cancelleria, dove dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva, apprese, come peraltro gli aveva giĂ suggerito la sua prima impressione, che la storia del lasciapassare era una fandonia. Kohlhaas, al quale i consiglieri seccati rilasciarono, su sua richiesta, uno scritto che ne attestava lâinfondatezza, sorrise dello scherzo dello junker segaligno, per quanto non riuscisse ancora a capire bene quale scopo potesse avere; e alcune settimane dopo, venduto con soddisfazione il branco di cavalli che aveva con sĂŠ, ritornò al castello di Tronka, senza altro sentimento di amarezza che quello della generale miseria del mondo. Il castaldo, al quale mostrò lâattestato, non fece alcun commento, e alla domanda del mercante se ora potesse riavere i cavalli, disse che scendesse pure a prenderli. Ma giĂ attraversando la corte, Kohlhaas ebbe la sgradevole sorpresa di apprendere che il servo, per la sua condotta sconveniente, a quanto si diceva, pochi giorni dopo essere stato lasciato al castello di Tronka era stato bastonato e cacciato via. Chiese al ragazzo che gli aveva dato la notizia che cosa mai avesse fatto, e chi si fosse preso cura dei cavalli nel frattempo, ma quello rispose che non lo sapeva, e aprĂŹ al mercante, che aveva giĂ il cuore gonfio di presentimenti, la stalla in cui si trovavano. Quale fu però il suo stupore quando, invece dei suoi due morelli lustri e ben nutriti, scorse un paio di ronzini scarni e macilenti; ossa, come grucce alle quali appendere i panni; criniere e pelame senza cura nĂŠ governo, pieni di nodi: la vera immagine dello squallore nel regno animale! Kohlhaas, verso il quale i cavalli nitrirono con un debole movimento, domandò al colmo dello sdegno che cosa fosse successo alle sue bestie. Il ragazzo accanto a lui rispose che non era capitata loro nessuna disgrazia, che avevano anche ricevuto il loro foraggio, ma che, essendo appunto tempo del raccolto, per carenza di bestiame da tiro erano stati impiegati un poco nei campi. Kohlhaas imprecò contro quellâinfame e premeditato sopruso, tuttavia, consapevole della propria impotenza, represse la sua ira e, non restandogli altro da fare, si apprestava giĂ a lasciare con i cavalli quel covo di briganti, quando il castaldo, richiamato dal battibecco, comparve e chiese che cosa stesse succedendo. Che cosa succede? rispose Kohlhaas. Chi ha dato allo junker von Tronka e alla sua gente il permesso di servirsi per il lavoro dei campi dei morelli da me lasciati presso di lui? Bella umanitĂ , soggiunse, tentò di pungolare le bestie sfinite con un colpo di scudiscio, e gli mostrò che non si muovevano. Il castaldo, dopo averlo osservato per un poâ con arroganza, ribattĂŠ: guardate questo villano! Come se il tanghero non dovesse ringraziare Dio che i ronzini sono ancora vivi! Chi, domandò, avrebbe dovuto prendersene cura, se il servo era scappato? Non era stato opportuno che i cavalli si guadagnassero nei campi il foraggio ricevuto? Concluse dicendo che non facesse storie, altrimenti avrebbe chiamato i cani, e cosĂŹ avrebbe ben saputo riportare la calma nella corte. Al mercante il cuore batteva contro il panciotto. Aveva voglia di gettare nel fango lâignobile grassone, e di schiacciargli con il piede quella faccia di bronzo. Ma il suo senso della giustizia, simile al bilancino di un orafo, oscillava ancora; davanti alla sbarra del proprio cuore, non era ancora sicuro che una colpa gravasse sul suo avversario; e mentre, inghiottendo gli improperi, si accostava ai cavalli e, considerando in silenzio le circostanze, aggiustava loro le criniere, domandò a voce bassa per quale mancanza il servo fosse stato allontanato dal castello. Il castaldo rispose: perchĂŠ quel malandrino ha fatto lâarrogante nella corte! PerchĂŠ si è opposto a un necessario cambio di stalla, e pretendeva che per i suoi ronzini i cavalli di due gentiluomini giunti al castello di Tronka passassero la notte in mezzo alla strada! Kohlhaas avrebbe dato il valore dei cavalli per avere sottomano il servo e poter confrontare la sua versione con quella del tronfio castaldo. Se ne stava lĂŹ, e districava il pelame ai morelli, e rifletteva che cosa fare nella sua situazione, quando dâun tratto la scena mutò e lo junker Wenzel von Tronka, di ritorno dalla caccia alla lepre, irruppe nello spiazzo del castello con uno stuolo di cavalieri, servi e cani. Il castaldo, quando lo junker chiese che cosa fosse accaduto, prese subito la parola, e mentre da un lato i cani, alla vista del forestiero, intonavano contro di lui un latrato infernale, e dallâaltro i cavalieri ordinavano loro di tacere, gli espose, travisando la cosa nel modo piĂš odioso, che razza di rivolta stesse facendo quel cavallaio perchĂŠ i suoi morelli erano stati un poâ usati. Con una risata di scherno disse che quello si rifiutava di riconoscere i cavalli come suoi. Kohlhaas esclamò: ÂŤQuesti non sono i miei cavalli, signore illustrissimo! Non sono i cavalli che valevano trenta fiorini dâoro! Voglio riavere i miei cavalli sani e ben nutriti!Âť. Lo junker, mentre un fugace pallore gli sbiancava il viso, smontò da cavallo e disse: se quel... non vuole riprendersi i cavalli, che lasci perdere. Vieni, GĂźnther! gridò, scuotendosi con la mano la polvere dai calzoni. Hans! Venite!, e: portate del vino! gridò ancora, quando con i cavalieri fu sotto il portone; ed entrò in casa. Kohlhaas disse che avrebbe chiamato lo scorticatore e fatto buttare i cavalli allâammazzatoio, piuttosto che riportarli cosĂŹ comâerano nella sua stalla a KohlhaasenbrĂźck. Lasciò le bestie sullo spiazzo senza curarsi di loro, saltò sul suo baio, assicurando che avrebbe saputo farsi giustizia, e partĂŹ.
A spron battuto era giĂ sulla strada di Dresda, quando, al pensiero del servo e delle lamentele mosse contro di lui al castello, si mise al passo, prima ancora di averne fatti mille girò di nuovo il cavallo, e, per interrogare prima il servo, come gli pareva saggio e giusto, svoltò verso KohlhaasenbrĂźck. PerchĂŠ un retto sentimento, al quale era giĂ noto il fragile ordinamento del mondo, lo rendeva incline, nonostante le offese subite, se veramente al servo, come sosteneva il castaldo, si doveva attribuire una qualche colpa, a rassegnarsi alla perdita dei cavalli come a una giusta conseguenza. Per contro, un sentimento altrettanto eccellente, e che metteva radici sempre piĂš profonde a mano a mano che egli procedeva e, ovunque sostasse, sentiva parlare delle ingiustizie quotidianamente perpetrate contro i viaggiatori al castello di Tronka, gli diceva che se lâintero incidente, come ne aveva tutta lâaria, fosse stato un mero complotto, egli aveva il dovere di fronte al mondo di procurare con tutte le sue forze soddisfazione a se stesso per lâoffesa subita, e sicurezza contro quelle future ai suoi concittadini.
Non appena, al suo arrivo a KohlhaasenbrĂźck, ebbe abbracciato Lisbeth, la moglie fedele, e baciato i bambini che facevano festa intorno alle sue ginocchia, chiese subito di Herse, il capoccia: si sapeva nulla di lui? Lisbeth disse: giĂ , carissimo Michael, giustâappunto Herse! Pensa che quellâinfelice, saranno quindici giorni, arriva qui pesto da far pietĂ ; no, talmente pesto da non riuscire neppure a respirare. Lo portiamo a letto, dove sputa molto sangue, e alle nostre ripetute domande veniamo a sapere una storia che nessuno capisce. Che era stato lasciato da te al castello di Tronka con dei cavalli ai quali non era stato concesso di passare, che lo avevano costretto con i piĂš infami maltrattamenti a lasciare il castello, e che gli era stato impossibile portare con sĂŠ i cavalli. Ah sĂŹ? disse Kohlhaas, togliendosi il mantello. Si è rimesso? A parte lo sputare sangue, rispose lei, mezzo e mezzo. Volevo subito mandare un garzone al castello di Tronka, per badare ai cavalli finchĂŠ non fossi arrivato tu. PerchĂŠ dato che Herse si è sempre mostrato sincero, e fedele a noi come nessun altro, non mi è venuto in mente di dubitare della sua affermazione, sorretta da tanti particolari, e di credere che avesse perduto i cavalli in altro modo. Ma lui mi scongiura di non pretendere da nessuno di farsi vedere in quel covo di briganti, e di rinunciare alle bestie, se non volevo sacrificare per loro un essere umano. Ă ancora a letto? chiese Kohlhaas slacciandosi la cravatta. Da qualche giorno, rispose lei, ha ripreso a girare per il cortile. Insomma, proseguĂŹ, vedrai che è tutto vero, e che questo episodio è una delle angherie che da qualche tempo ci si permette contro i forestieri al castello di Tronka. Prima devo indagare, replicò Kohlhaas. Chiamamelo qui, Lisbeth, se è alzato! CosĂŹ dicendo si sedette in poltrona; e la moglie, ben lieta della sua calma, andò a chiamare il servo.
Che cosa hai fatto al castello di Tronka? domandò Kohlhaas quando Lisbeth entrò con lui nella stanza. Non sono troppo contento di te. Il servo, la cui faccia pallida, a quelle parole, si coprĂŹ di macchie rosse, tacque per un poco; quindi rispose: avete ragione, padrone! PerchĂŠ una miccia che per volontĂ di Dio avevo con me per appiccare il fuoco al covo di briganti dal quale ero stato cacciato, lâho gettata, quando dentro ho sentito piangere un bambino, nelle acque dellâElba, e ho pensato: possa ridurlo in cenere la folgore divina, io non lo farò! Colpito, Kohlhaas disse: ma per quale motivo ti sei fatto cacciare dal castello di Tronka? E Herse: per un brutto tiro, padrone; e si asciugò il sudore dalla fronte: ma cosa fatta non si può cambiare. Non volevo far massacrare i cavalli nel lavoro dei campi, e ho detto che erano ancora giovani e non erano stati aggiogati. Kohlhaas, cercando di nascondere il suo turbamento, replicò che su questo non aveva detto tutta la veritĂ , perchĂŠ giĂ allâinizio della primavera scorsa i cavalli erano stati attaccati un poco. Al castello, proseguĂŹ, dove in fondo eri una sorta di ospite, avresti ben potuto mostrarti compiacente qualche volta, se câera bisogno di portare dentro alla svelta il raccolto. Ă quello che ho fatto, padrone, disse Herse. Ho pensato, vedendo le loro facce stizzite, che non ci avrei certo rimesso i morelli. La mattina del terzo giorno li ho attaccati, e ho portato dentro tre carichi di grano. Kohlhaas, con il cuore gonfio, abbassò gli occhi e disse: di questo non mi hanno detto nulla, Herse! Herse gli assicurò che era cosĂŹ. La mia scortesia, disse, è consistita nel non voler aggiogare di nuovo i cavalli quando a mezzogiorno avevano appena finito di mangiare; e nellâaver risposto al castaldo e al fattore, quando mi hanno proposto di accettare in cambio del foraggio e di mettermi in tasca il denaro che voi mi avevate lasciato per le spese, che glielâavrei fatta vedere io; gli ho voltato le spalle e me ne sono andato. Però non sei stato cacciato dal castello di Tronka per questa scortesia, disse Kohlhaas. Dio ne guardi, esclamò il servo, per unâazione scellerata! La sera infatti, i cavalli di due cavalieri giunti al castello di Tronka sono stati condotti nella stalla, e i miei legati alla porta. E quando ho tolto i morelli di mano al castaldo, che li aveva sistemati in quel modo, e gli ho chiesto dove dovessero stare ora le bestie, mi ha indicato un porcile fatto di assi e di travi, a ridosso del muro di cinta. Vuoi dire, lo interruppe Kohlhaas, che era un ricovero cosĂŹ brutto per dei cavalli da assomigliare piĂš a un porcile che a una stalla. Era un porcile, padrone, rispose Herse; un vero e proprio porcile, dove scorrazzavano i maiali e io non potevo stare ritto. Forse non câera altro modo di sistemare i morelli, ribattĂŠ Kohlhaas; in un certo senso i cavalli dei cavalieri avevano la precedenza. Lo spazio, rispose il servo abbassando la voce, era poco. Adesso al castello alloggiavano in tutto sette cavalieri. Se foste stato voi, avreste fatto stringere un poco i cavalli. Ho detto che mi sarei cercato una stalla in affitto al villaggio; ma il castaldo ha risposto che doveva tenere dâocchio i cavalli, e che non mi azzardassi a portarli via dalla corte. Hm! fece Kohlhaas. E tu cosâhai risposto? Dato che il fattore diceva che i due ospiti si sarebbero fermati soltanto per la notte e il mattino dopo sarebbero ripartiti, ho condotto i cavalli nel porcile. Ma il giorno seguente è trascorso senza che questo accadesse; e allâalba del terzo si è saputo che i signori si sarebbero trattenuti al castello qualche altra settimana. In fin dei conti non si stava poi cosĂŹ male nel porcile, Herse, disse Kohlhaas, come ti era parso quando ci avevi ficcato il naso la prima volta. Ă vero, rispose quello. Dopo aver spazzato un poco il posto poteva andare. Ho dato una mancia alla serva perchĂŠ mettesse i maiali da unâaltra parte. E durante il giorno ho fatto anche in modo che i cavalli potessero stare ritti, togliendo le assi dalle travi di sopra quando albeggiava e rimettendocele la sera. Ora sbucavano dal tetto come oche, e si guardavano intorno cercando KohlhaasenbrĂźck, o qualche altro posto dove si stesse meglio. E allora, chiese Kohlhaas, perchĂŠ diavolo ti hanno cacciato? Padrone, ve lo dico io, perchĂŠ volevano liberarsi di me. PerchĂŠ fintanto che io ero lĂŹ non potevano massacrare i cavalli. Dappertutto, nella corte e nella stanza della servitĂš, mi guardavano in cagnesco; e visto che io pensavo: storcete pure la bocca fino a slogarvela, hanno colto al volo lâoccasione e mi hanno buttato fuori dalla corte. Ma il motivo! gridò Kohlhaas. Avranno pur avuto qualche motivo! Oh, sicuro, rispose Herse, e validissimo. La sera del secondo giorno trascorso nel porcile, ho preso i cavalli, che ci si erano tutti insudiciati, per portarli al guazzatoio. E mentre sono sotto il portone del castello e sto per svoltare, sento il castaldo e il fattore, con servi, cani e randelli, precipitarmisi dietro dalla stanza della servitĂš e gridare come ossessi: fermo, furfante! fermo, avanzo di galera! La guardia mi sbarra la strada; e mentre chiedo a lui e a quel branco inferocito che mi assale: che succede?, il castaldo risponde: che succede?, e afferra per le briglie i miei due morelli. Dove vorresti andare con i cavalli? chiede, e mi agguanta per il petto. Io dico: dove voglio andare? Fulmini del cielo! Al guazzatoio voglio andare. Credete che io...? Al guazzatoio? grida il castaldo. Ti insegnerò io, furfante, a guazzare, sulla strada maestra per KohlhaasenbrĂźck! E con una mossa a tradimento lui e il fattore, che mi aveva preso per la gamba, mi tirano giĂš da cavallo, e mi ritrovo lungo disteso nel fango. Diavolo! Dannazione! grido, nella stalla ci sono finimenti e coperte, e un fagotto con la mia biancheria; ma lui e i servi, mentre il fattore porta via i cavalli, mi sono addosso con calci e frustate e botte, finchĂŠ cado mezzo morto dietro il portone del castello. E poichĂŠ dico: briganti! Dove mi portate i cavalli?, e mi rialzo, il castaldo urla: fuori dalla corte!, e: dai, Kaiser! dai, Jäger!, si sente gridare, e: dai, Spitz!, e una muta di dodici cani e piĂš mi si avventa contro. Allora strappo un palo o non so che dalla staccionata, e tre cani li stendo morti accanto a me; ma poichĂŠ, conciato da far pietĂ per i morsi, devo cedere: fiuu!, risuona un fischio; via i cani nella corte, chiusi i battenti, tirato il catenaccio: e io cado svenuto sulla strada. Kohlhaas, pallido in viso, disse con forzata malizia: davvero non te la volevi svignare, Herse? E poichĂŠ questi, paonazzo, guardava in terra, disse: confessa; non ti piaceva stare nel porcile; pensavi che nella stalla di KohlhaasenbrĂźck si sta meglio. Fulmini del cielo! gridò Herse: ci ho lasciato finimenti e coperte nel porcile, e un fagotto di biancheria. Non mi sarei forse messo in tasca tre fiorini dâoro che avevo nascosto dietro la mangiatoia, nel fazzoletto di seta rossa? Per tutti i diavoli dellâinferno! Se parlate cosĂŹ, vorrei proprio riaccendere quella miccia che ho gettato! Via, via! disse il mercante di cavalli; non intendevo offenderti! Guarda, quello che hai detto io lo credo, parola per parola; e se se ne parlerĂ sono pronto a giurarlo io stesso. Mi dispiace che al mio servizio non ti sia andata meglio; vaâ, Herse, vaâ a letto, fatti dare una bottiglia di vino e consolati: ti sarĂ resa giustizia! E con questo si alzò, preparò un elenco delle cose che il capoccia aveva lasciato nel porcile, ne specificò il valore, gli chiese anche a quanto stimasse i costi delle cure, e dopo avergli teso an...